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Dietro le quinte di un ristorante, Tommaso Melilli: “In cucina la democrazia è una concessione dello chef”

In cucina bisogna avere rigore e prendere tante decisioni. In un mondo come quello dei fornelli travolto dall’arrivo dei reality, dagli chef che sono ormai pop star e dai tantissimi cuochi o aspiranti tali che popolano TikTok, Tommaso Melilli, chef patron di Trattoria della Gloria, racconta come sta chi vive dietro il bancone.
A cura di Arianna Colzi
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Tommaso Melilli, chef patron di Trattoria della Gloria a Milano | Foto Stefano Scagliarini
Tommaso Melilli, chef patron di Trattoria della Gloria a Milano | Foto Stefano Scagliarini

Quando si entra alla Trattoria della Gloria l'atmosfera che ti avvolge è quella di un ristorante parigino con il parquet in legno scuro, molto lontana da quella di tanti posti milanesi che sembrano cristallerie arredati con design ormai sempre uguali. In cucina, dietro le quinte di questo piccolo ristorante, c'è Tommaso Melilli, chef scrittore lontano dagli schemi di una cucina sempre più televisiva. Con il suo Cucina aperta (edito da 66thand2nd), lo chef racconta, anche attraverso la sua esperienza ultradecennale, cosa si vede da queste cucine aperte e come lo sguardo del pubblico è cambiato. Conversazione con un chef umanista in un mondo di cuochi a portata di TikTok.

Con l’apertura al pubblico della cucina, com’è cambiato il  rapporto con il lavoro e i clienti? Tu dici che “la cucina è diventata più immacolata” ora che il pubblico può guardarvi, quasi fosse uno spettatore seduto in platea.

Dopo due secoli e mezzo di separazione tra lo spazio della cucina e quello in cui si muoveva il personale di sala che serve e poi trasmette dei numeri o dei titoli di piatti o dei commenti del cliente, adesso non c'è più una barriera. Dagli Atelier di Joël Robuchon (uno degli chef più celebri al mondo, definito lo "chef del secolo" dalla guida Gault Millau, ndr) ai piccoli posticini aperti da due amici, la porosità tra sala e cucina è diventata la caratteristica comune. È come in Big Night di Stanley Tucci, dove lo chef si rifiuta di preparare un piatto di spaghetti con le polpette richiesto da una cliente esigente e minaccia di andare a parlarci, ma quando vede la signora cambia immediatamente idea. Perché ha paura, perché al di là della cucina c'è un mondo che non è il suo. Oggi questa barriera si sta sgretolando e noi cuochi siamo anche più rispettati.

Una scena di Big Night di e con Stanley Tucci
Una scena di Big Night di e con Stanley Tucci

Come hai iniziato e com'è stato il tuo approccio alla cucina?

Ho iniziato studiando lettere a Parigi. All'inizio era solo un lavoretto, anzi il mio primo lavoro in questo campo, nel 2012, è stato in un ristorante con un tavolo solo: era molto facile, però dovevi anche occuparti dell'intrattenimento del cliente. Era uno chef's table (ossia quel tavolo del ristorante, spesso un bancone, posto all'interno della cucina anziché in sala, ndr), tendenza che è arrivata qua a Milano solo negli ultimi tre anni, mentre in Francia già proliferava. La mia base di formazione è quella che ho acquisito in Francia: lo stile personale può cambiare a seconda del periodo ma, per esempio, nella mia testa non ci sono mai i primi o i secondi, ci sono gli antipasti, i piatti e i dolci. Faccio sempre più fatica ai primi, perché per tanti anni a Parigi facevo tanta pasta e risotti. Il tipo di cliente che si sedeva nei ristoranti in cui lavoravo era principalmente abituato a mangiare tanta carne rossa, quindi per me cucinare la pasta era diventata una sfida per proporre un piatto culturalmente diverso e più digeribile. Dopo diversi mesi posso dire di averla vinta, superando la sua classica bistecca con le patatine: è cambiato il loro modo di percepire il cibo.

Credi quindi che il cliente possa essere "educato"?

Certo. Un ristorante deve essere anche una scuola, sennò non ne vale la pena. Se vogliamo portarci a casa qualcosa di questi 20-25 anni di ossessione gastronomica, con i cuochi che sono diventati così presenti nelle nostre vite, è che se siamo così ascoltati dal pubblico a casa vuol dire che gli chef sono diventati un po' la classe dirigente delle persone che cucinano. Siamo in grado di influenzare i gusti, i desideri, le mode le culture, ciascuno a modo suo. Anche se purtroppo i miei colleghi più prestigiosi tendono a non prendere posizione su questioni rilevanti come i diritti dei lavoratori in cucina.

Tommaso Melilli | Foto Stefano Scagliarini
Tommaso Melilli | Foto Stefano Scagliarini

Il cliente dovrebbe essere meno schizzinoso nel giudicare possibili variazioni su piatti considerati sacri? Soprattutto in Italia ci sono dei piatti considerati intoccabili. 

A prescindere dal nostro severissimo giudizio, le persone continueranno a fare questi piatti "rivisitati", che ci piaccia o no. Negli ultimi 10-15 anni alcuni piatti della cucina italiana hanno assunto la funzione di un totem, anche per via di una forte spinta nazionalistica e identitaria e un po' di nostalgia per il passato. Abbiamo deciso che come Paese ci riconosciamo nella carbonara. È avvilente, però, identificarsi come comunità intorno a un piatto di pasta con delle uova. Possibile che non abbiamo trovato niente di meglio? 

Tornando ai diritti dei lavoratori in cucina: sembra che anche la cucina sia stata investita da questo fenomeno sociale riassumibile nella retorica stantia del "non troviamo personale, i giovani non vogliono più lavorare".

Sono chef patron da 8 mesi e ora posso parlare anche sulla base della mia esperienza, prima ero solo un'anima libera. La soluzione a questo fantomatico "problema" è: pagateli di più, perché non è possibile che chi lavora nella ristorazione in Italia guadagni la metà dei colleghi degli altri Paesi europei. Il problema non è non avere budget, è che non sono capaci. Ho aperto da pochi mesi e ho già assunto altre due persone, quindi anche quelli che lavorano da 15 anni forse dovrebbero imparare a fare davvero questo mestiere.

Rimanendo sulle condizioni di lavoro in cucina: quanto è tossico questo ambiente? C'è davvero un problema di salute mentale, come evidenzia anche la serie The Bear?

In The Bear Carmen Berzatto non è il prototipo dello chef cattivo e autoritario che abbiamo visto nei reality in questi anni, è in totale crisi e non riesce a dare ordine a una cucina estremamente caotica. L'esperienza ad alto livello è come il ricordo di un mondo fatato, perché nel ristorante stellato c'era una struttura gerarchica che stava perfettamente in piedi e che lui ha scalato fino alla vetta, con sofferenza e sacrifici. La sofferenza, invece, nel ristorante ereditato dal fratello, deriva dai tentativi di mediare con la brigata e di presentarsi come pari, dal fatto di essere molto umano in cucina: tutto questo, però, soprattutto nella prima stagione è un disastro. L'insofferenza non deriva dall'ambiente massacrante della cucina ma dall'improvvisazione e dal caos.

Jeremy Allen White è Carmen Berzatto
Jeremy Allen White è Carmen Berzatto

La maggior parte delle persone che apre locali in Italia improvvisa, finendo poi per massacrarsi. Io credo di essere abbastanza morbido perché non mi piace comandare: detto questo prendo decine di decisioni e impartisco decine di ordini tutti i giorni perché se non lo facessi tutto andrebbe a rotoli. Certo, in cucina in alcuni frangenti ci si trova a improvvisare: spesso, per esempio, non so cosa avrò nel menù la sera, ho un'idea in testa certo, però, tutto dipende anche dagli ingredienti che devono arrivare al ristorante e che magari non sempre riesco ad avere.

Un ambiente con ritmi così serrati immagino favorisca episodi di burnout.

In cucina questi episodi si verificano molto più spesso rispetto ad altri settori. I ragazzi che lavorano con me, per esempio, sono sicuramente molto stanchi perché lavoriamo moltissimo, anche se cerco sempre di non farli arrivare mai prima delle 14 o le 16 e farli uscire entro le 23.30. Sono io piuttosto che passo al ristorante più ore di loro, che vado lì prima. Scelgo poi di caricarmi di una serie di responsabilità per proteggere gli altri. Però sono anche consapevole che rischio di andare in burnout e so bene di essere sull'orlo di questo esaurimento un mese sì e l'altro no. Lo sento. Tutti noi sentiamo quando stiamo per romperci, per questo cerchiamo sempre di aggiustarci e restare in una sorta di equilibrio.

Come si proteggono gli altri in cucina?

Prendendo decisioni morbide. In un ristorante, durante il servizio, la democrazia è una concessione quotidiana dello chef: è come una barca, non si possono avere tre capitani. Nei momenti più delicati o complessi, è necessario che io sia l'unico a comandare, anche se non mi piace, ma è l'unico modo per non fare affondare la nave. Sono molto duro con i miei colleghi, però il lavoro in cucina è così, è duro e non si può fare altrimenti. Non puoi cucinare cose buone senza tagliarti un po' le dita o bruciarti un po' le mani. Non è un caso che la cucina esista da due secoli e mezzo senza cambiamenti sostanziali.

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