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Imparare a stare da soli senza sentirsi soli, cos’è l’Honjok e perché può essere luogo di cura

Honjok racconta la scelta di vivere la solitudine come spazio di libertà e crescita, un modo di ritrovare sé stessi in una società sempre più frenetica.
A cura di Elisa Capitani
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Negli ultimi anni la Corea del Sud ha visto emergere un nuovo modo di vivere la solitudine, trasformandola da condizione temuta, evitata a tutti i costi, a scelta consapevole e anche ricercata. È la filosofia dell’Honjok, un approccio che risponde alla pressione sociale di comunità estremamente competitive e iperconnesse. L’Honjok ha conquistato prima i giovani coreani e poi piano piano un pubblico globale, diventando una lente attraverso cui osservare il bisogno crescente di ritagliarsi spazi autenticamente propri.

Che cosa significa Honjok

Il termine Honjok, che nasce dall’unione delle parole coreane per solitudine e tribù, significa letteralmente "tribù di una sola persona", ma in realtà porta con sé un significato più sfaccettato di quanto appaia a prima vista. Non descrive semplicemente il vivere da soli, ma racchiude l’idea di costruire un proprio microcosmo emotivo e pratico senza percepirlo come una mancanza. In Corea del Sud si è affermato come un modo di esistere che normalizza e valorizza l’autonomia quotidiana, includendo gesti che per decenni erano associati solo allo spazio della condivisione, come mangiare fuori, visitare musei, fare escursioni o trascorrere weekend in viaggio. La novità dell’Honjok non è la solitudine in sé, ma la scelta di viverla con orgoglio e serenità, ribaltando lo sguardo su un Paese dove la dimensione collettiva è sempre stata predominante. Per molti coreani l’Honjok è diventato un modo per rallentare, ascoltare i propri ritmi e sottrarsi a un modello di successo basato sul confronto costante con gli altri, trovando così una forma di libertà personale non mediata dal giudizio esterno.

Le origini culturali del fenomeno

L’Honjok si comprende appieno solo osservando i grandi cambiamenti sociali che hanno attraversato la Corea del Sud negli ultimi decenni. Alla base c’è la rapida crescita economica che, tra anni Sessanta e Settanta dopo la devastazione della Guerra di Corea, ha generato una cultura del lavoro intensiva e competitiva, accompagnata da un forte senso di responsabilità verso famiglia e società. Parallelamente è cresciuto in modo evidente il numero di persone che vivono da sole, un dato che ha modificato abitudini, consumi e percezioni collettive; la Corea del Sud sta affrontando infatti un declino demografico con il tasso di fecondità più basso al mondo. È in questo contesto che l’Honjok ha trovato terreno fertile, emergendo come risposta al burnout e alla pressione sociale e come affermazione di un nuovo modello di indipendenza. I media coreani, soprattutto a partire dalla metà degli anni 2010, hanno contribuito a renderlo un fenomeno riconoscibile, raccontandolo attraverso programmi televisivi, vlog e format dedicati alla vita in solitaria. L’Honjok si è così trasformato da comportamento privato a categoria culturale, offrendo ai giovani un linguaggio per descrivere un disagio diffuso e una pratica per trasformarlo in esperienza positiva.

La filosofia della solitudine nella cultura coreana

Pur essendo un fenomeno contemporaneo, l’Honjok dialoga con elementi profondi della cultura coreana, dove la ricerca dell’armonia interiore e dell'equilibrio è un valore radicato da secoli. Il confucianesimo, che ha modellato a lungo i rapporti sociali nel paese, enfatizza l’importanza degli obblighi reciproci, ma allo stesso tempo riconosce la necessità di coltivare la propria integrità morale attraverso momenti di introspezione. In questo senso, l’Honjok può essere letto come una reinterpretazione moderna di un equilibrio antico, forse perduto durante i periodi di ascesa economica, ma ritrovato e adattato a una società urbana e digitalizzata. Chi lo pratica non rifiuta il legame con gli altri, ma lo riscrive, stabilendo confini più fluidi tra presenza e distanza, tra disponibilità e tutela di sé. La solitudine diventa un luogo di cura, un laboratorio personale in cui ritrovare motivazione e senso, soprattutto in una quotidianità spesso scandita da ritmi frenetici e aspettative elevate. Guardato da vicino, l’Honjok non suggerisce isolamento né indifferenza, ma una forma di consapevolezza che invita a riconoscere il proprio valore anche al di fuori delle dinamiche collettive, restituendo al tempo trascorso da soli un significato pieno, dignitoso e profondamente umano.

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