Laura Golarsa: “Conosco Sinner da quando era piccino. Viene da un posto dove certe cose non succedono”

In pochi conoscono il mondo del tennis e tutte le sue sfaccettature come Laura Golarsa. Ex numero 39 del mondo, capace di spingersi fino ai quarti a Wimbledon, allenatrice, fondatrice di un’Accademia che porta il suo nome e brillante e apprezzata telecronista su Sky. Un’esperienza totale la sua, figlia di una passione smisurata per uno sport che l’ha accompagnata nella vita regalandole non poche soddisfazioni. Con lei, ai microfoni di Fanpage.it, abbiamo affrontato tanti argomenti: dal successo in Coppa Davis alla crescita dei nostri giocatori, dalle scelte condivisibili di Jannik Sinner (considerato un "alieno") al ruolo dei media, dal peso (scarso) delle polemiche fino alla cultura sportiva delle famiglie, con uno sguardo attento su cosa significhi oggi formare un giovane tennista.
Laura, c'è un aspetto che l'ha colpita particolarmente in positivo da Berrettini e soprattutto da Cobolli? Si aspettava, più che altro proprio questo atteggiamento?
"Sono molto contenta perché questi due ragazzi hanno uno storico che nasce da lontano. Sono due ragazzi di circolo che sono cresciuti a Roma con Stefano Cobolli e con Santopadre. Questa Coppa Davis infatti è anche di Vincenzo, che ha tramandato l'esperienza di questo gruppo. Devo dirti che sia Vincenzo che Stefano, il papà di Cobolli, sono passati un pochino nell'ombra. Alla fine, pensando a tutto quello che è stato il lavoro, il percorso e tutto, Berrettini ha rotto le barriere già quando è entrato nei primi dieci, lì ha aperto la strada".
Si è chiuso un cerchio?
"Il filmino che gira tra Flavio e Matteo, di quando erano piccolini, fa un certo effetto. Adesso rivederli così è un po' la parte più emotiva di questa Coppa Davis. Abbiamo vinto, non dico da favoriti, ma dimostrando di essere i più forti. Berrettini è vero che ha giocato un po’ a singhiozzo nelle ultime stagioni, però era sicuramente il giocatore più forte in campo".
Certo che quella di Matteo e Flavio è davvero una bella storia.
"Cobolli è un uomo squadra, lo dico sempre anche in cronaca. Questi sono due ragazzi che sono cresciuti facendo la ‘guerra a squadre’: la Serie A ecc. E sanno cosa significa gestire quei momenti lì e come divertirsi. Vanno al di là dell’onere, della responsabilità e del ruolo. Lo fanno proprio perché gli piace farlo. Qualcuno ha detto ‘perché viene dal calcio’. Ma in realtà sono proprio così. A me sembrava di rivedere una partita dell’Aniene o del Parioli (i circoli dove sono cresciuti, ndr)".

Le polemiche che hanno accompagnato l'assenza di Sinner e di Musetti possono essere state una motivazione forte in più per questi ragazzi?
"No, perché le polemiche sono per i giornalisti, per gli addetti ai lavori che hanno bisogno di fare i titoli, oppure per gli sprovveduti e i leoni da tastiera dei social. Non sono per il settore tecnico. Solo un pazzo che gestisce uno come Jannik o Musetti può pensare che debbano giocare la Coppa Davis. Chiunque avesse fatto quella programmazione per Sinner o Musetti avrebbe fatto le stesse scelte. L'avrebbe fatto Volandri o chiunque si trovasse in quella situazione. Musetti era a forte rischio già per giocare le Finals, ma quello è il traguardo di una vita. La cinghia l’ha tirata fin troppo: è arrivato alle Finals che era esausto, ma è quell'evento che ti tira fuori quella voglia in più di dire: ‘Se mi devo rompere, mi rompo qua’. Alla fine ci ha regalato anche partite strepitose".
Mi sembra di capire che lei abbia sposato in toto la scelta di Jannik.
"Nessuno capisce cosa significa essere il numero uno al mondo. Tutto quello che devi fare fuori dal campo, tutto quello che ti cade addosso, le pressioni. Se ci metti anche il carico da novanta della situazione della squalifica… Per molti lui è un alieno: chiunque altro avrebbe avuto un tracollo emotivo non solo nel sopportare questa cosa, ma anche nel reggerla. Eppure lui è riuscito a fare prestazioni a quel livello, con quell'impegno e con tutti gli oneri che ha un numero uno al mondo. Non si può sottrarre neanche alla minima intervista: quella dello sponsor, quella del posto dove gioca, quella del torneo. Tutti lo vogliono, tutti lo acclamano. Questo fa parte del suo ruolo".
Possiamo dire che chi sa di tennis non può non appoggiare la sua decisione, anche in virtù dei ritmi?
"C’è il calo del nervo, c’è il calo della tensione, c’è il contraccolpo, che lui non ha avuto assolutamente nel corso della stagione. Lo vogliamo far ‘sfiatare’ questo ragazzo o no? Perché sennò lo distruggiamo. Alla lunga il barile si svuota per tutti. Non è che continui a grattare… Sinner è un alieno, ma non è che può andare oltre all’infinito. Per cui giustissimo non giocare la Davis. Dopo che l'ha vinta due volte di fila, un numero uno può anche scegliere. C'è da dire che anche i parametri sono cambiati: una volta si giocavano magari 15 tornei, fuori dal campo non facevi niente e poi giocavi la Coppa Davis. Oggi giocano 26 settimane. Sono professionisti che devono sottostare a una serie di appuntamenti, impegni. E ci metti anche la Coppa Davis a fine stagione: è una follia".

D'altronde aveva ragione lui sul valore della nostra squadra anche senza di loro.
"Mettiti nei panni di Cobolli: se ci sono Musetti e Sinner, non gioca. Per cui questa è stata la sua grande occasione. E siccome abbiamo una squadra fortissima, con una panchina lunghissima — come ha detto Jannik, basti pensare a Darderi non convocato pur essendo numero 26 del mondo, o ad Arnaldi che ci ha aiutato con la prima Coppa Davis — io non avevo dubbi sul fatto che fossimo favoriti. Non solo perché giocavamo in Italia, ma perché io ho una stima infinita del livello di gioco di Matteo Berrettini".
C'è anche un aspetto che accomuna tutti i nostri, ovvero il fatto di avere alle spalle bellissime famiglie e che in molti casi vivono di sport. È un caso?
"Adesso il tennis sta andando sotto i riflettori, quindi tutti si stupiscono un po’ di questa cosa, pur essendo uno sport ricco. Ma il tennis ha sempre avuto famiglie così: sono veramente eccezioni quelli che hanno genitori più particolari. È a basso livello, un po’ come nel calcio, che trovi il genitore fanatico. Il figlio campione, piano piano, in quell’ambiente lì si ridimensiona. Perché se io vado a vedere lo storico mondiale, ma non solo delle ultime generazioni, le famiglie di Sampras, di Agassi, di Monica Seles lo confermano. Poi vabbè, c’è anche il papà fanatico di Mary Pierce o della Bartoli, per l’amor di Dio, o della Dokic, ma sono comunque eccezioni. Nella media, secondo me, il tennis ti dà una cultura sportiva che altri sport non ti danno. È formativo. Perché comunque fai grandi sacrifici e giochi fuori dal tuo Paese".
Hanno avuto ottimi esempi anche in campo questi ragazzi.
"La cultura sportiva è tramandata dai numeri uno. Tu pensa allo storico dei primissimi: io non ho mai visto gente strana. Anche all'estero: i genitori di Borg, di McEnroe, di Becker, di Edberg. Tu li hai mai visti? Hai mai visto che questi se la tiravano? La cultura la prendi da lì. Questi di oggi per esempio l’hanno appresa dai Federer e dai Nadal. Certo, ripeto, ci sono sempre eccezioni, come può essere la mamma di Rune. Però sono tutti ragazzi figli della fatica: il tennista è figlio della fatica. Della gavetta fatta a fare i Futures in giro per il mondo. Passano tutti da lì".
Nella sua Accademia come sono cambiate le cose dopo tutti questi risultati? C'è maggiore attenzione agli stessi sin da piccoli?
"Paradossalmente, se tu vieni da me in Academy e mi chiedi una consulenza non ti parlo di risultati ma ti parlo di riempire un serbatoio di qualità tennistica, di progetto, di quello che è il lavoro che devi fare oggi per domani, non oggi per oggi. A basso livello, invece, c’è il circoletto o il circolo, che secondo me è ancora un ambiente non formativo e che vive della ‘coppa del nonno’, della coppettina, del torneo, della convocazione. La Federazione ormai si è evoluta: fino a qualche anno fa c’era il ‘convocato’, nell’unico sport che non è di giudizio ma è di risultato. Il raduno va bene, ma la formazione è prendere i ragazzini e portarli in giro per l’Italia e per il mondo, a fare formazione ai tornei, a star loro dietro. È lì che fai la vera formazione".

E qui si ritorna al discorso di prima con i genitori fanatici…
"A basso livello è chiaro che il genitore o il maestro medio danno peso al dire ‘Ho vinto la Lambertenghi’ (prestigioso trofeo giovanile, ndr). Io, la Lambertenghi, se posso non gliela faccio neanche giocare, nel senso che è un ambiente che non è formativo: tu vai a dire a un ragazzino che deve investire su altro e non sul risultato, quando invece sono tutti lì a farti il contratto, la convocazione, a farsi vedere… E il bambino ha 12 anni".
Più che risultati lei spinge giustamente sugli obiettivi no?
"Se l’obiettivo è di alto livello e uno viene da me per quello e ne ha le qualità, il linguaggio è totalmente diverso.
Se vieni da me, giochi a tennis e fai il torneo di Natale della scuola, la gratificazione di vincere il torneino ce l’hai comunque ed è giusto. Però bisogna tenere tutti un attimino i piedi per terra. Io penso che questo c’è sempre stato da quando ero piccola: la convocazione, quante ore giochi, il fatto di dire ‘Ho vinto il torneo della parrocchia’. Sì, ma qual è l’obiettivo? Per me è andare in giro per il mondo e formarsi, al di là delle vittorie. Certo: ha un costo, è un sacrificio. Questo è il vero dilemma del tennis: il costo della formazione".
D'altronde anche i tennisti professionisti oggi devono fare tanti sacrifici per alzare l'asticella e potersi permettere poi staff più importanti e ricchi.
"È tutto una conseguenza: te la devi un po’ meritare sul campo. Perché poi, se vinci, arriva qualche aiuto sia dalla Federazione che dagli sponsor, e se fai un salto di qualità inizi anche a guadagnare qualche soldino. La gavetta l’abbiamo fatta tutti. Lo stesso Berrettini penso andasse in giro cercando di risparmiare, no? Cobolli anche: la gavetta è quella roba lì. Ma il fatto è che, se uno è buono, ci sta meno a fare la gavetta: questa è la verità".

Questo discorso vale anche per Sinner, che a livello di risultati juniores non ha mai dato tanto peso.
"Sinner viene da un posto che io conosco molto bene, perché portavo i ragazzini a Brunico a giocare. Quindi lo conosco da quando è piccino: è un posto dove non c’è tutta questa situazione, per cui lui non l’ha percepita. Quando ha deciso ‘faccio il tennista, voglio diventare forte’, si è subito messo nei piani più alti. La classifica non conta. L’unico parametro che conta è che se sei intorno ai 600 inizi ad apparire nelle liste internazionali per fare i tornei 15mila. Quindi quando sei pronto, prendi, parti, cerchi il torneo giusto e inizi. Non ci sono classifiche che tengano. Basta sapersi organizzare e programmare".
Questo è un discorso lineare però non tutti lo possono capire soprattutto i neofiti, non crede?
"È chiaro che il genitore profano, che viene da un ambiente che non è il tennis, non le capisce. È lì che subentra il maestro con esperienza, che secondo me fa la differenza. Perché? Perché intanto ti tira dritto quando sei piccolo e non aspetta che tu arrivi a vent’anni per cambiarti le cose. E poi perché ti programma e ti toglie questa mentalità un po’ provinciale, che per fortuna sta scemando da quando Jannik, Berrettini e gli altri hanno iniziato a ottenere questi risultati. Parliamo di un livello talmente più alto che adesso andare a Wimbledon non è più una speranza, ma un’oggettiva possibilità. Sono talmente tanti quelli che stanno giocando bene che il ragazzino che si approccia all’agonistica pensa che sia normale".
Insomma, con una giusta formazione, programmazione e ambizione può esserci speranza per il salto di qualità?
"I ragazzi si sono confermati campioni della Coppa Davis e ai miei occhi e a quelli di tanti è stata fantastico. Però è stata anche quasi una cosa che loro hanno reso normale. Quindi capisci che gli obiettivi sono molto più raggiungibili nella testa dei giocatori, delle famiglie. Non c’è più la corsa all’oro. Mi spiego: fai un percorso… e quando magari sei bravino inizi a fare i tornei internazionali ed è tutto normale. Quando ho smesso di giocare, e non mi reputo un’aliena, avevo 40 Slam in tabellone e 14 anni nelle prime 100. Certo, vai su e giù nelle classifiche, però sono entrata in 40 Slam. Per cui per me ci può arrivare chiunque. Il problema è fare una strada semplice, semplificare le cose".
E Sinner mi sembra l'esempio migliore del lavoro e del sacrificio costante.
"Il grande messaggio che ha fatto passare Jannik è della semplicità. Non ci sono tutti questi segreti, non c’è la formula della fusione liquida: c’è il lavoro, la continuità, il pensare di potercela fare. E quindi tanti tabù sono caduti con lui. Prima ancora però, ribadisco, io punto su Berrettini: lui è stato il primo ad arrivare in finale a Wimbledon, il primo ad arrivare in semifinale allo US Open. Anche Fabio Fognini è entrato nei dieci, ma in maniera diversa. Berrettini era un primi dieci: è stato il primo ‘normale’ che è arrivato dopo. A 16 anni era 2.8, con un fisico straordinario. Quando sei 1.96 e hai un fisico atletico, sei fortunato".
Poi non sono tutti uguali questi ragazzi, basti pensare a Berrettini e Sinner che hanno anche percorsi diversi.
"Matteo era uno normale: faceva i tornei Open, la gavetta nei 15mila. È lo stesso che hai visto in Coppa Davis in questi giorni, e oggi ce l’ha fatta. Da lì si è aperto un varco. Poi è arrivato uno che tanto normale, secondo me, non è, perché ha qualità caratteriali eccellenti, non comuni. Ed è lì che Jannik fa la differenza: non è il dritto o il rovescio, ma la mentalità. In questo è superiore ad Alcaraz, per dire. Forse Carlos qualitativamente può anche giocare meglio, ma la mentalità, la lucidità, l’equilibrio di Jannik… a me ricordano Borg e Lendl. Siamo su quei livelli lì".
Veniamo sul suo lavoro di telecronista, è cambiato il suo modo di raccontare il tennis?
"No: è che tanti che raccontano il tennis, magari non essendo stati dentro al giro negli ultimi anni, hanno iniziato semplicemente a parlarne più spesso e a raccontare la storia di un numero uno. Ma raccontare Federer senza sapere nemmeno chi è e dove abita è una cosa, raccontare Sinner che ce l’hai tutti i giorni è un’altra. Poi arriva Musetti, arriva Cobolli, con cui magari ci hai mangiato pure la pizza a Roma e cambia tutto. Il sistema ne beneficia a tutti i livelli. Sono situazioni di cronisti. Quello che è del mestiere sa esattamente cosa significa, per esempio, saltare un torneo. Come l’anno scorso quando Sinner ha saltato Parigi perché aveva l’influenza: era normale. Come Auger che non è andato ad Atene. Normale anche quello: devi ragionare nell’ottica di uno che è nei primi dieci, che è già stato alle Finals, che ha il 98% di possibilità di andarci e che, se ci va, vuole vincere. Questa è la mentalità".
E invece i nuovi tifosi, magari fanno più fatica a comprendere queste dinamiche no?
"E invece il tifoso dice: ‘Rischia di non andare alle Finals', che viene visto come la rinuncia alla Davis. Quindi ci sono due categorie di commentatori: uno di questi è quello del mestiere, che ti racconta come stanno le cose e che evidenzia quello che fa Sinner, quello che fa Berrettini, quello che fa Cobolli o Alcaraz senza venderti la formula della fusione liquida. Poi c'è quello che dice: ‘Si sta allenando, oggi ha tirato tre risposte a 45° e tre lungolinea a 38°'. Ma in realtà lui, prima della partita, vuole far solo scoppiare la palla, prova le sue uscite alla massima velocità per tenere la palla nel binario, ma finisce lì".
Il messaggio che lei vuole mandare, dunque, è che il racconto non abbia bisogno di eccessi o fronzoli?
"Non rendiamo complicato quello che proprio ragazzi come Alcaraz e Sinner stanno rendendo semplice. Noi vogliamo vendere quello che si inventa il metodo di gioco. La tecnica è una sola: tutti uguali. Se tu vai a prendere una slow-motion di Alcaraz e Sinner, cambia la preparazione un po' più ampia, ma nei venti centimetri prima dell’impatto e nei venti centimetri dopo giocano tutti uguali, perché la palla sennò non andrebbe lì. Certo c'è quello che arriva sempre uguale e quello che ha uno stile un po' diverso, ma i concetti sono molto più semplici di chi li propone come se volesse vendere qualcosa".
Con questo boom del tennis sente una pressione maggiore in fase di telecronaca?
"Adesso, dall’influencer al cronista che non è del settore, c’è spazio per tutti. L’importante è che lo facciamo tutti con lucidità, perché noi abbiamo la responsabilità di non far passare messaggi sbagliati, come su Sinner, tipo: ‘Ah, allora non è italiano'. Ma cosa ne sanno? Cosa significa uscire di casa e non poterlo più fare perché ti fermano tutti? Il dispendio energetico solo di questa cosa che ha Sinner sapete che significa? Sapete cosa significa avere una settimana in più per dire: ‘Stacco completamente, mi faccio dei gran massaggi, vado al mare e stacco la testa?' Lui è venuto in Sardegna quest’estate e l’hanno portato in giro in elicottero, perché sennò non poteva passeggiare da nessuna parte. Quindi entri in una dimensione in cui hai bisogno… è vitale, è una questione di sopravvivenza".
Non è facile la vita di questi ragazzi, e anche gli addetti ai lavori dovrebbero capirlo.
"Non è tutto così facile: uno pensa solo alle cose belle. E questo non può andare a mangiare, non può più andare da nessuna parte. Quindi il cronista che ogni tanto esce con delle situazioni e si permette di criticare in tal senso… secondo me farebbe meglio a limitarsi a raccontare quello che vede, fine, non a giudicare".