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Tagliavento a Fanpage: “Lasciar parlare gli arbitri toglierebbe molti dubbi ai tifosi”

Da arbitro a dirigente, dal campo alla scrivania: è il percorso di Paolo Tagliavento, tra i fischietti più popolari degli ultimi 10 anni in Italia. L’ex direttore di gara umbro, oggi vice-presidente della Ternana, ha parlato a Fanpage.it della sua carriera e del momento attuale della classe arbitrale: “Se tornassi ad arbitrare il mio modo di arbitrare sarebbe molto diverso”.
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Paolo Tagliavento ha concluso la sua carriera da arbitro nel 2018 e nello stesso anno ha iniziato quella da dirigente. Da due anni è vice-presidente della Ternana, squadra della sua città. Un ruolo nel quale si è portato dietro l'enorme esperienza accumulata, fischietto alla bocca, sui campi di tutta Europa. Quindici anni in Serie A, con 221 partite arbitrate tra le quali diversi big match e sfide scudetto. Curiosità: cento rigori esatti fischiati nel nostro campionato. E poi presenze importantissime sulla scena internazionale, come un quarto di Champions League tra Benfica e Chelsea e incontri di prestigio tra nazionali, con il picco del 2012 in un Germania-Francia. Ha perfino arbitrato in Egitto e in Arabia Saudita. Oggi racconta il suo percorso a Fanpage.it, con un occhio sul momento vissuto dalla classe arbitrale in Italia.  

La sua storia: quanto è merito di Paolo Tagliavento e quanto dell’Aia?
"Il merito di ogni risultato un arbitro lo deve a se stesso. L’Aia resta artefice della crescita, ti accompagna fino a quel livello lì. Avere un’associazione alle spalle è fondamentale soprattutto quando ti iscrivi da giovanissimo, come ho fatto io, a 17 anni. Poi dopo 20, 25 anni, devi saper camminare sulle tue gambe".

Su due piedi: qual è stata la partita più dura che ricordi?
"Saranno state tantissime, in ogni categoria ce ne sono diverse. Di anno in anno pensi sempre di aver arbitrato la più difficile e poi sei bravo e fortunato a trovartene davanti una più complicata. E sia chiaro, non sempre le partite di cartello sono le più complesse, anzi spesso è il contrario: quelle più attese si dimostrano spesso le più tranquille, i problemi sorgono quando sottovaluti i match sulla carta meno accesi".

C’è un calciatore che ti ricordi in particolare perché più facile da gestire?
"Non esistono giocatori facili da gestire. Ci sono però i grandi capitani che ho incontrato che sono sempre stati molto collaborativi. Mi riferisco a Maldini, Del Piero, Totti… Se diventi leader di certe squadre è perché hai delle qualità umane particolari".

E quello più fastidioso?
"Con alcuni riesci a tenere un buon rapporto, con alcuni di meno. Dipende da troppi fattori, dall’arbitro, dall’atteggiamento del giocatore. Magari in alcune partite uno è più spigoloso, poi lo incontri dopo qualche settimana e non lo è. Anche la tensione della partita gioca il suo ruolo, e quanto in alto decidi di fissare la linea della tollerabilità delle proteste".

Capita a tutti di sbagliare in campo: calciatori, allenatori, presidenti, e anche arbitri. Tu come metabolizzi l’errore?
"Ci arrivavo già mentalmente preparato. Ho sempre saputo che nel mio lavoro mi è richiesto di essere infallibile, pur essendo cosciente che ciò non è possibile. Se fai l’arbitro devi avere questa consapevolezza, per guardare anche indietro con occhio critico. Sai perfettamente che può succedere, l’importante è avere l’intenzione di migliorarsi per non ripetere lo stesso sbaglio".

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Avresti mai voluto parlare dopo una partita per spiegare il tuo punto di vista?
"Si, e sono convinto che sia una cosa positiva e da implementare. Spiegare perché si è sbagliato, scendere nei dettagli tecnici, toglierebbe ogni dubbio ai tifosi che ti vogliono ascoltare. Poi ci sono quelli che strumentalizzano sempre tutto, ma con quelli non puoi farci nulla. Però per arrivare a questo devono essere pronti tutti, deve esserci la volontà di tutti gli addetti ai lavori di arrivare alla verità. E magari servirebbe anche una maggiore conoscenza del regolamento, che è alla base di tutto".

Prima di arrivare sul grande palcoscenico tutti fanno la gavetta. Mi racconti il tuo esordio?
"È passato talmente tanto tempo…".

L’hai dimenticato?
"No, impossibile. Fu una partita di esordienti nella mia città, subito sentii che ce l’avevo nel sangue. Ho giocato a pallone fino a 17 anni ma il momento in cui l’arbitro entrava negli spogliatoi per fare l’appello mi ha sempre colpito tanto. È così che ho deciso di indossare la giacchetta e vivere il calcio in maniera diversa".

E la tua prima volta in Serie A?
"Era un periodo in cui se eri bravo in Can B facevi l’esordio l’ultima di campionato. Per me arrivò nel maggio del 2004, era Chievo-Bologna che concise con l’ultima partita in Serie A di Beppe Signori. Quando me lo comunicarono fu la realizzazione di un sogno: realizzi che la tua passione è diventata il tuo lavoro, è un’enorme soddisfazione dopo anni di sacrifici".

Ho notato che hai arbitrato anche fuori dall’Italia (Egitto, Arabia Saudita…), come funziona? E com’è?
"Quando le altre nazioni nei loro campionati hanno partite particolarmente difficili chiamano terne estere. Spesso chiamavano arbitri italiani, e la federazione in base agli impegni ci mandavano lì. Sceglievano noi per i loro big match, perché a livello internazionale siamo riconosciuti come i migliori arbitri del mondo".

Credi negli arbitraggi a nazioni incrociate?
"Si è sempre detto che sarebbe stata una cosa interessante ma non è mai stata attuata. Egoisticamente io mi terrei i nostri arbitri, senza correre il rischio di far dirigere la Serie A a qualche nome estero solo per tendenza e poi restare insoddisfatti".

Adesso sei vicepresidente della Ternana: hai imparato qualcosa stando dall’altra parte?
"Se tornassi ad arbitrare dopo questa esperienza il mio modo di arbitrare sarebbe molto diverso. Capire gli stati d’animo di chi siede in tribuna, la pressione che ti mette questo lavoro, ti apre un mondo. Il mio atteggiamento e il mio approccio sarebbero diversi, non le mie decisioni ovviamente. Avrei meno i paraocchi e cercherei di capire di più certi nervosismi. Ci sono tante dinamiche che se non le vivi non puoi capirle. Viceversa, anche l’Aia mi ha dato la forma mentis per essere un dirigente modello. Per questo adesso mi sentirei di dire a certi arbitri: alcuni atteggiamenti sono sbagliati, mettiamoci nei panni anche dell’altro, perché anche oltre il fischietto ci sono sacrifici, passione e tanti soldi in ballo".

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Scendendo in campo e parlando più di regolamento. Hai smesso di arbitrare nell’anno dell’esordio del Var. Com’è cambiata nel tempo la tua percezione dello strumento tecnologico?
"Sarò sincero, nell’anno in cui lavoravamo a Var “spento” ero fortemente scettico. Sapevo che avrei fatto il mio ultimo anno con questo strumento sconosciuto, mi domandavo come avrei dovuto gestirlo, avevo tanti dubbi. Poi mi sono bastati 45 minuti della prima partita di serie A per capirne l’immensa potenzialità. E i numeri ci hanno dato ragione: quella stagione, la prima con la tecnologia, è stata una delle migliori per il movimento, abbassammo drasticamente la percentuale di errori".

Non c’è il rischio che gli arbitri si adagino su questa cosa?
"È come fare per tanti anni gli esercizi al trapezio senza rete di sicurezza. Immagina che poi qualcuno arrivi e ne monti una: l’atteggiamento verso l’esercizio è lo stesso, però poi se cadi vedi che ti salvi, cadi di nuovo e ti salvi. Col tempo sviluppi un modo di porti verso l’errore che non è più ossessivo come era un tempo, che se sbagliavi stavi fermo un mese e perdevi anche soldi dallo stipendio. Bisogna stare attenti a non rilassarsi troppo, altrimenti diventa dannoso".

Quest’anno sembrano andare di moda i gol annullati per fuorigioco millimetrico. Pensi sia giusto annullare una rete per così poco?
"Di una cosa sono certo: il Var è eccezionale nel dare risposte su fatti oggettivi: palla fuori o dentro, gol o non gol, e lo stesso deve valere anche per il fuorigioco. Un millimetro o un metro è comunque fuorigioco, e se uno strumento può dirtelo perfettamente non vedo perché non utilizzarlo".

E sui falli di mano tipo cosa pensi? Ci sarà mai la completa uniformità di giudizio?
"Confesso che sono fuori dal giro tre anni e rischio di non essere aggiornato, a volte basta mancare due mesi e cambia tutto. La regola generale è che il fallo di mano deve essere volontario. Negli anni hanno cercato di aggiungere parametri per capire cosa si intende. Se sia giusto o meno non sono gli arbitri a deciderlo, l’importante è che sia equo per tutti, anche se non è così semplice: tutti i movimenti sono diversi gli uni dagli altri, pensare di essere uniformi su qualcosa lasciata alla discrezionalità di ognuno è impossibile. Sarà sempre qualcosa che genera polemiche, a meno che non decidiamo che ogni tocco dalla spalla in giù sia sempre fallo, ma così non è calcio".

La pandemia ha investito anche gli arbitri. Con gli stadi vuoti cambia qualcosa anche per loro, secondo te? Ad esempio si sente tutto, come nel diverbio tra Ibrahimovic e Lukaku…
"Dell’episodio in sé ho visto solo alcune foto quindi mi è difficile commentarlo. È chiaro che diventa impossibile chiudere un occhio qualora si dovesse sentire una parola di troppo. Tante volte mi è capitato che qualche giocatore mi dicesse “ti ha mandato a quel paese e non l’hai espulso”, ma con un orecchio occupato dall’auricolare e l’altro assordato da 80mila persone percepire una voce è difficile se non impossibile. Personalmente ogni volta che ho sentito un calciatore mandarmi a quel paese, oppure ogni volta che è stato superato il limite del rispetto, ho agito. Anche se allora ti arrivava tutto ovattato, e adesso non più".

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