Paolo Poggi: “Col primo stipendio da calciatore pagai i debiti di famiglia. Oggi ingaggi spropositati”

Paolo Poggi per anni è stato il calciatore che aveva segnato il gol veloce nella storia della Serie A (record tolto da Leao) dopo appena otto secondi ma il viaggio nel calcio dell’attaccante veneziano è stato molto più di un semplice dato statistico: calciatore rapido e generoso, ha incarnato l’immagine dell’attaccante di provincia capace di fare la differenza nei momenti decisivi con diverse maglie. Dopo il ritiro, non è uscito dal mondo del calcio e ha intrapreso un percorso dirigenziale tornando nella “sua” Venezia, dove ha ricoperto ruoli di responsabilità nel club lagunare e ha contribuito alla rinascita della società e alla crescita del settore giovanile.
Nel 2010 ha rilevato, insieme a due amici d’infanzia, la scuola calcio Venezia Nettuno Lido, nel luogo dove aveva iniziato a calciare il pallone. Con questo progetto ha voluto restituire qualcosa al territorio, offrendo ai giovani calciatori un percorso di crescita che unisce tecnica, valori e senso di appartenenza.
A Fanpage.it Paolo Poggi ha esplorato il suo percorso nel mondo del calcio, dalla sua carriera da attaccante professionista ai suoi attuali impegni nello sviluppo giovanile e nella dirigenza sportiva: ha condiviso alcune riflessioni sulle sfide e le evoluzioni del calcio italiano, ponendo un occhio particolare sulla formazione dei giovani talenti e sul ruolo della cultura sportiva.
Cosa fa oggi Paolo Poggi?
"Nel 2010, insieme a Mattia Collauto e Nicola Marangon, ho rilevato la scuola calcio Venezia Nettuno Lido, proprio dove avevo iniziato a giocare. Il nostro obiettivo era restituire qualcosa al territorio che ci aveva visti crescere. Con questo progetto abbiamo creato un settore giovanile, una categoria Juniores e persino una prima squadra composta dai ragazzi cresciuti nella nostra scuola".
Si parla tanto di vivai e giovani talenti: cosa serve davvero, secondo lei, per valorizzare meglio un giovani?
"Il punto principale è quello di curare il ragazzo individualmente, distinguerli uno dall'altro perché noi abbiamo circa 200 ragazzi e naturalmente ognuno ha la sua personalità e va trattato in maniera diversa dagli altri. Curarsi poco del risultato di squadra ma essere molto più concentrati sulla crescita individuale dei ragazzi. Questo è il senso, Il risultato fino a una certa età conta relativamente, quasi niente. Questo non esclude il fatto che ai ragazzi, dopo una certa età, intendo dire dagli allievi in su, bisogna creare una mentalità vincente, però senza mai trascurare la crescita individuale".
C’è davvero così tanta differenza tra i giovani di ieri e quelli di oggi?
"Tecnicamente, non ci sono grandi differenze, e i ragazzi attuali sono spesso fisicamente più dotati. Le principali divergenze riguardano una minore predisposizione al sacrificio e alla fatica e una scarsa consapevolezza del proprio corpo, attribuita alla mancanza di ‘calcio di strada' e all'aperto, che un tempo favorivano l'apprendimento naturale del movimento".
In base a quello che conosce e che ha potuto vedere, davvero si dà così tanto peso alla tattica e non alla tecnica come si sente dire ormai da anni? È la verità o è un falso mito?
"Vorrei che fosse un falso mito. Spesso si assiste a un'eccessiva enfasi sulla tattica a scapito della tecnica e della creatività. Gli allenatori dovrebbero lasciare più spazio alla fantasia dei ragazzi invece di ‘giocare con il joystick’. Capita spesso che gli allenatori tendono a usare la squadra come loro espressione personale. Per non parlare delle pressioni che vengono fatte anche dagli ambienti vicini ai ragazzi".

Si spieghi meglio.
"La pressione e la fretta dei genitori sono spesso controproducenti. I ragazzi che solitamente ‘arrivano' sono quelli i cui genitori non esercitano tali pressioni. La fretta può portare a cambi di squadra prematuri e a saltare tappe fondamentali nella formazione, impedendo al giovane di arrivare preparato al calcio professionistico".
Poggi ha segnato più di 100 gol tra i pro: si aspettava una carriera del genere quando ha iniziato?
"Non avevo mai pensato di diventare professionista; fino ai 17-18 anni, il calcio era puro divertimento e sacrificio".
Lei ha iniziato a giocare nel Venezia: cosa ha significato giocare nella squadra della sua città?
"Giocare per la squadra della mia città significava rappresentare la sua gente, una responsabilità e una gioia immensa. Tanta gente che conoscevo, amici, familiari e i tifosi veneziani che mi vedevano indossare quella maglia. Il 90% delle persone che erano allo stadio mi conoscevano. C’era un rapporto diverso anche tra calciatori e tifosi che oggi non esiste quasi più".
Non tutti lo ricordano ma lei fu protagonista di un doppio derby di Torino con due gol in seminale di Coppa Italia che poi si rivelarono decisivi, visto che poi il Toro quella coppa la vinse…
"Un ricordo assurdo, emozionante, perché era il mio primo anno in Serie A e il primo anno al Torino. È stato proprio un'esplosione di gioia perché nella prima partita comunque lo stadio era più torinista che juventino… poi il secondo è stato sotto la Maratona. Un ricordo molto bello".
All’Udinese hai vissuto anni importanti in una squadra ambiziosa: qual è il ricordo più bello di quel periodo e cosa rendeva speciale quel gruppo che seppe competere ad alti livelli in Serie A e in Europa?
"Il successo di quella squadra negli anni '90 era frutto di un gruppo di uomini con valori altissimi, oltre che bravi calciatori, e di un forte legame interno e di un'alchimia unica con i tifosi. Andavamo in campo in 20.000 in quel periodo perché avevamo veramente una regione che ci stava dietro e che ci conosceva. Giocavamo nel miglior campionato del mondo, perché questo era la Serie A in quel periodo, ma avevamo qualcosa di speciale che ha reso quella squadra così forte. Non era facile venire a fare punti da noi".

Roma è una piazza unica per passione e pressione: come si convive con aspettative così alte e un’attenzione mediatica costante?
"Ho vissuto l’esperienza di Roma con grande gioia e come un privilegio, nonostante non sia stato il suo periodo più fortunato perché sono arrivato con la squadra che Capello stava costruendo e che poi avrebbe portato allo Scudetto l’anno dopo. Non sia riuscito a sfruttare appieno le opportunità che il mister mi ha dato e se non sono riuscito a far bene non lo devo imputare a qualcun altro se non a me".
C’è un allenatore che ha inciso più degli altri nella sua crescita professionale e umana?
"Alberto Zaccheroni, senza dubbio. Mi ha formato sia al Venezia da ragazzino e successivamente mi ha insegnato il gioco del calcio ma il mister è una persona straordinaria, l’ho apprezzato proprio a livello umano e lo sento tutt'ora".

Il passaggio dagli spogliatoi alla scrivania non è mai semplice: qual è stata la sfida più grande nel reinventarsi come dirigente?
"La sfida più grande è ‘cancellare il passato' di calciatore e affrontare il presente con umiltà e occhi diversi, reinventandosi. Ho ricoperto vari ruoli ma quello che mi ha dato maggiori soddisfazioni è stato quello di responsabile dei progetti internazionali al Venezia".
Spieghiamo bene cosa si tratta a chi non lo sa…
"Questa attività consisteva nel promuovere il calcio italiano, la squadra del Venezia e la cultura della città nel mondo, attraverso scambi sportivi e culturali. Portavo gli allenatori del Venezia a fare attività nei vari paesi, oppure invitavo le squadre di questi paesi a venire in Italia per giocare partite e per trascorrere del tempo qui. Insomma c'era un vero e proprio scambio".
Lei ha avuto a che fare proprietà straniere e oggi i fondi d’investimento stanno cambiando il volto del calcio italiano: sono un’opportunità o c’è il rischio che si possa perdere l’identità del movimento?
"Possono essere un'opportunità per migliorare l'organizzazione e le infrastrutture. Tuttavia, diventano un rischio se interferiscono con l'aspetto tecnico senza la necessaria competenza o conoscenza della cultura calcistica italiana. Esempi di successo sono quelli che delegano la gestione sportiva a figure competenti come il Bologna con Sartori, Di Vaio e gli altri oppure l’Atalanta con i Percassi".
Quanto è diversa la Serie A di oggi da quella dei suoi anni?
"La differenza fondamentale è che i calciatori non sono più i protagonisti principali, ma l'attenzione si è spostata su televisioni, orari e tecnologia, rendendo il gioco meno autentico".
Anche gli ingaggi dei suoi anni non erano come quelli di oggi: si ricorda cosa ha fatto con il primo stipendio da calciatore?
"Gli ingaggi attuali sono sproporzionati rispetto alla qualità che c’è in giro. Il primo stipendio? L’ho usato per pagare i debiti e il mutuo dei genitori. Mi sono occupato della mia famiglia".

Lei per un periodo era diventato uno dei calciatori più chiacchierati in una fascia di età ben precisa per la storia delle figurine: come l’ha vissuta?
"Ha scoperto la leggenda della sua figurina rara tramite il programma televisivo Mi Manda Rai Tre: mentre giocavo era una cosa che stava ancora succedendo per cui la vivevo in maniera normale, a distanza di anni la vivo adesso con piacere, con simpatia, soprattutto quando i ragazzi di quella generazione a cui facevi riferimento mi ricordano gli aneddoti sulla ricerca della figurina".
Che idea si è fatto del campionato che è appena iniziato?
"Il campionato non si è ancora espresso completamente, ma il Napoli è la squadra che domina nettamente per qualità della rosa e il lavoro fatto sul mercato. Per il resto è abbastanza indecifrabile. Il Milan credo possa fare un buon percorso e ci sono tante squadre interessanti come la Cremonese, il Sassuolo e l’Udinese stessa".