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Padovano va in rimonta sulla vita: “Amici spariti tutti, vorrei un lavoro anche come magazziniere”

Michele Padovano da ieri non ha più ombre sulla propria vita, dopo l’assoluzione definitiva dall’accusa di traffico di droga per cui era stato condannato a 6 anni e 8 mesi di prigione. A 56 anni chiede un’altra opportunità: “Ho trovato soltanto porte chiuse: spariti tutti. Non Vialli, meraviglioso”.
A cura di Paolo Fiorenza
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L'incubo è finito, la nuova vita di Michele Padovano può cominciare adesso. Senza ombre né macchie che in questi lunghi anni – in cui è stato alla sbarra con l'accusa di essere un trafficante di droga – gli hanno appiccicato un'etichetta e precluso ogni opportunità. L'ex calciatore che contribuì in maniera importante ai trionfi della Juventus in Champions League e Supercoppa europea nel 1996, vincendo anche uno Scudetto l'anno dopo, è stato assolto ieri da ogni accusa in maniera definitiva dalla Corte d’Appello di Torino, dopo che la Cassazione aveva annullato la sentenza di condanna a 6 anni e 8 mesi di prigione.

Padovano oggi ha 56 anni e spera che questo giorno sia lo spartiacque tra il buio e la luce. Ma ci sarà sempre qualcosa a tormentarlo: "In questi 17 anni c'è dentro tanta vita, troppa. Quasi tutta. E non torna indietro. Chi me la rende? Ogni mattina mi svegliavo con l'ossessione, e poi restava sempre con me: fine pena mai. È un miracolo se non impazzisci o non ti ammali di brutto – spiega a Repubblica – Sono sopravvissuto con una moglie come Adriana, un figlio come Denis e due avvocati come Michele Galasso e Giacomo Francini: sono stati loro a salvarmi la vita".

Michele Padovano esulta dopo un gol con la maglia della Juventus: ha fatto parte di una squadra storica
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La discesa all'inferno di un uomo di successo cominciò il 10 maggio del 2006, il giorno del suo arresto chiesto dalla Procura di Torino nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di hashish. Impossibile cancellare quei ricordi: "Mi arrestarono dopo una pizza con gli amici. Mi bloccarono due volanti, gli agenti armati, pistole in pugno. Tutti in borghese. Nessuno parlava, nessuno mi spiegava. La spada mi è entrata in testa in quel momento e c'è rimasta una vita. Mi portarono subito in caserma a Venaria: le foto segnaletiche, le impronte digitali. Poi mi diedero i trecento fogli dell'ordinanza: ‘Tieni, studia e capirai'. Ma io non capivo proprio niente. Questi sono pazzi, pensavo".

"Con le manette ai polsi provi dolore, senti freddo e vergogna – racconta l'ex attaccante di Cosenza, Pisa, Napoli e Genoa tra le altre – Nella notte mi trasferirono a Cuneo sul blindato, si sta seduti dentro una specie di gabbia. Mi scappava la pipì, non volevano farmela fare. Alla fine ci fermammo in un autogrill semivuoto, c'era solo una famiglia, mi guardarono strano. La mia forza è nata lì. Dimostrerò di essere innocente, mi ripetevo, servisse anche tutta la vita. Mangiavo solo mele. La mattina, sveglia alle 6 con i manganelli che sbattono sulle sbarre, come nei film".

La custodia cautelare in carcere durò tre mesi, poi Padovano ottenne i domiciliari, altro momento che non si può dimenticare: "Giocavo a carte. Venne un agente gridando ‘liberante!', ma nessuno tra noi sapeva chi fosse anche se tutti speravamo di esserlo. Non te lo dicono prima, è una delle tante forme di violenza, per piegarti. Poi i domiciliari, nove mesi, e la prima condanna: 8 anni e 8 mesi, diventati 6 anni e otto mesi in appello. Senza la Cassazione sarei ancora dentro. Alle udienze di primo grado, uno dei giudici ogni tanto si addormentava".

Padovano oggi, a 56 anni: vuole riprendersi la vita
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Quando sei un calciatore di successo tutti ti cercano, sei pieno di amici, ma quando cadi in disgrazia scopri l'altra faccia della luna, quella nera della solitudine. Anche per Padovano fu terra bruciata: "Gli amici? Spariti quasi tutti. Non Gianluca Presicci che giocava con me a Cosenza, non Gianluca Vialli che era meraviglioso e mi ripeteva ‘Michi, non mollare un cazzo!'. Il mio leader. Venne a testimoniare, provarono a tirare dentro pure lui. Padovano, Vialli e la cocaina: ma quando?".

"Se ho perso tutto? Sì. Ho dovuto vendere quello che avevo, 17 anni sono lunghi – spiega l'ex calciatore torinese, che lancia un appello per essere aiutatoMi sono reinventato, prima ho preso un bar, poi un parco giochi per bambini ma il Covid ci ha fregato. Quando mi arrestarono avevo 38 anni, ero un dirigente del calcio. Ora vorrei che attraverso il lavoro mi venisse restituito un po' di quello che ho perduto. Sono un uomo di campo e vorrei ricominciare da lì, va bene anche come magazziniere. Aiuto dagli amici? Soltanto porte chiuse: spariti tutti. Negli sguardi degli altri vedevo il pregiudizio, il sospetto, pensavano fossi Pablo Escobar e non un errore giudiziario".

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