Gigi Cagni oggi: “Non ho mai avuto un procuratore, è stata la mia rovina. Ora mi godo barca e aerei”

Seduto al tavolino di un bar sul mare, con lo sguardo che si perde tra il blu e la memoria, Luigi Cagni parla come ha sempre vissuto: senza fronzoli, con la verità che scivola tra le parole come un passaggio filtrante. Oggi la sua vita scorre tranquilla e racconta la sua storia e quella di un calcio che non c’è più. Ma nelle sue parole c’è ancora la stessa passione di quando scendeva in campo e per anni sedeva sulle panchine di tutta Italia: quella di chi non ha mai smesso di credere nel lavoro, nella fatica e nei valori semplici.
Allenatore e uomo diretto, istintivo fino all’eccesso, Cagni ha attraversato il calcio con l’onestà di chi non ha mai voluto piacere a tutti, ma solo restare se stesso. "Oggi è tutto troppo programmato, i ragazzi non si arrangiano più, non sbagliano, e così non imparano". E mentre lo ascolti parlare, capisci che dietro quelle parole c’è qualcosa di più profondo di una critica: c’è la nostalgia per un mondo in cui si imparava a vivere per strada, non davanti a uno schermo. A Fanpage.it mister Gigi Cagni si racconta senza maschere: la carriera, le belle esperienze e le delusioni, l’amore per Brescia e per il calcio, la sua idea di ‘pallone' e di vita.
Mister Cagni, partiamo da un record che resiste da decenni: lei è ancora il giocatore con più presenze nella storia della Serie B. Che significato ha per lei?
"Un grande orgoglio. Io sono sempre stato innamorato del calcio, e avere un primato nazionale è una soddisfazione enorme. E poi non lo batterà nessuno: sedici anni di Serie B non li farà più nessuno, è impossibile. È cambiato tutto, oggi le carriere sono diverse, più brevi e meno legate a una maglia".
Ha iniziato come terzino e poi è diventato libero. Una scelta quasi casuale.
"Sì, è successo a San Benedetto. Avevo trent’anni, dovevamo retrocedere e avevo deciso di tornare a casa, a Brescia, per giocare in C e pensare al futuro. L’allenatore mi disse: ‘Se giocassi da libero?'. Mi si accese una lampadina. Io sono uno istintivo: ho provato, e da lì è cambiata la mia carriera".

Finita la carriera, è passato quasi subito in panchina…
"Già pronto. Avevo allenato in seconda categoria quando ancora giocavo, quindi era chiaro nella mia testa: volevo fare l’allenatore. Ho cominciato nel settore giovanile del Brescia, poi la primavera. Non volevo farla, ma fu la scelta giusta".
E proprio a Brescia a finito la sua carriera. Un legame fortissimo con la piazza lombarda…
"Sì, perché Brescia è casa. Nel 2017, quando tornai ad allenare la squadra in un momento difficilissimo, rischiai tanto. Ma facemmo l’impresa. Lì ho detto basta. Ho smesso in bellezza. Anche se poi ho lasciato per un altro motivo: non avevo procuratori. Non li ho mai voluti, per scelta. Pensavo che le società dovessero chiamarti perché ti volevano, non perché avevi un intermediario. Negli ultimi anni sapevo che mi penalizzava, ma ho preferito restare coerente".
E non ha rimpianti?
"Nessuno. Ho smesso a 67 anni, e mi sono goduto otto anni meravigliosi: famiglia, serenità, hobby. Coltivo le mie passioni: il volo, il golf, la barca. Ho fatto tutto d’istinto, e quasi mai mi ha tradito".
È vero che a sessant’anni ha preso il brevetto da pilota d'aereo: è stata una sfida con lei stesso o un modo per ritrovare libertà dopo una vita di regole da campo?
"No, ho provato e mi è piaciuto. E così l'ho fatto. Io sono così, istintivo. Lo ero sul campo e lo sono nella vita".
Ricorda com'è nato il suo amore per il calcio?
"Io da bambino giocavo nei vicoli del Carmine, un quartiere dove c'è sempre stato di tutto. Sono cresciuto in mezzo ai figli di migno**a nel vero senso della parola, non è un eufemismo. Ma nessuno si scandalizzava. È lì che impari la vita. Quando qualcosa non mi tornava andavo da mia madre e le chiedevo qualcosa ma lei mi rispondeva ‘Arranget!', cioè ‘Arrangiati'. Da lì nasce tutto: l’educazione, la forza, la capacità di reagire e la fantasia".

Nel calcio di oggi c'è fantasia oppure no?
"Non mi appartiene più. È troppo programmato, troppo gestito dai computer. Gli allenatori mostrano i video, spiegano tutto: così sparisce la fantasia. Il cervello non lavora più. Quando vedo un giocatore che entra in campo con un foglietto in mano, mi viene da ridere. Ma dai! Dimmi cosa devo fare, non darmi un pizzino! Il calcio è istinto, non schede tattiche".
È colpa anche della comunicazione che c'è intorno al calcio?
"Sì. La tv ha trasformato il calcio in spettacolo. I telecronisti parlano forbito, inventano termini, ma non capiscono il calcio. Vogliono fare i personaggi, non raccontare le partite. Una volta Bruno Pizzul parlava normale, oggi è tutto show".
Si riferisce a qualcuno in particolare? Lei si è già esposto sullo stile di Adani, ad esempio.
"Non farmi fare nomi che già in passato li ho fatti e poi tutti tornavano sempre lì a chiedere la stessa cosa. Adesso c'è gente che vuole raccontare il calcio ma non lo fa per analizzare le partite, lo fa per crearsi il personaggio. Alcuni sembrano dei guru… e i ragazzi ascoltano solo parole vuote, non imparano più nulla".
Mister Cagni segue ancora il calcio con assiduità?
"Sì, ma poche squadre. Mi piace il Como, l’Inter perché verticalizza, la Roma, il Bologna. Squadre che hanno ritmo. Oggi il ritmo è sparito, e il tiki-taka ha rovinato tutto: era perfetto per la tv, ma ha ammazzato i giocatori di fantasia. Non abbiamo più fantasisti italiani. E la colpa è anche dei settori giovanili: troppa tattica, troppi schemi e non lasciano crescere il talento".

Ecco, a proposito di Inter: è vero che Cagni è stato vicino alla panchina nerazzurra?
"Sì, ho avuto la possibilità di allenare Inter e Napoli mentre ero al Piacenza, ma entrambe le opportunità sono sfumate per diverse circostanze…".
Ci dica…
"Allora, con l'Inter sembrava tutto fatto, il direttore sportivo era Mazzola e sono andato a Milano a parlare con Moratti un giovedì: Ottavio Bianchi, che era uno molto bravo, non stava facendo bene ma dopo aver vinto il derby e qualche risultato positivo il presidente decise di tenerlo. A fine stagione lo mandò via lo stesso e prese Hodgson. Invece con il Napoli di Ferlaino c'era sempre di mezzo Ottavio Bianchi, che era direttore sportivo. Andai a Bergamo per incontrarli e avevo un abito blu scuro, che il presidente scambiò per nero. Qualche anno dopo andai a Salerno e alcuni giornalisti mi dissero che il colore del vestito era stato il motivo del mio mancato arrivo a Napoli, perché non portava bene".
A proposito di Piacenza: Cagni ha portato per la prima volta la squadra emiliana in Serie A?
"Sono legato con grande affetto alla piazza e a quella squadra. Scrivemmo una pagina di storia con quella promozione".

Un episodio curioso si è verificato in una delle sue ultime esperienze: nel 2015 venne chiamato da Zenga per un aiuto nel lavoro difensivo della squadra alla Sampdoria ma ad un certo punto cambiò tutto e si ruppe anche la vostra amicizia. Cosa accade?
"Bisognerebbe chiederlo a lui. Mi disse che era il presidente a non volermi più, ma non era vero perché io parlai sia con Ferrero che con Osti. Ho salutato e me ne sono andato. Avevo detto al presidente che se avesse mandato via Zenga in qualunque momento mi sarei dimesso e non avrei mai assunto la guida tecnica, perché ero stato chiamato per un altro compito. Sono fatto così".
Ultima curiosità: l'abbiamo vista sul prato dello stadio Rigamonti a raccogliere l'applauso dei tifosi bresciani. Cosa pensa del nuovo Brescia di Giuseppe Pasini?
"Sono contentissimo. Finalmente una società bresciana, con gente seria. Ci vuole tempo, certo, ma se il programma è triennale vuol dire che è serio. Nel calcio non si costruisce nulla in sei mesi. È come un’azienda: servono basi solide, idee e pazienza. E Pasini ha tutto questo".