Com’è nata l’egemonia del Brasile nella Copa Libertadores: la spinta economica e i fattori tecnici

C’è un accento che ormai domina il calcio sudamericano: quello brasiliano. Perché da qualche anno la Copa Libertadores è diventata una faccenda quasi privata: cambiano i protagonisti ma la trama resta la stessa. La finale del 2025 vedrà Palmeiras e Flamengo affrontarsi il 29 novembre 2025 allo stadio Monumental di Lima per aggiudicarsi il trofeo più importante dell‘America Latina. Questa sarà la settima finale tra due squadre brasiliane nella storia del torneo, e anche un’occasione simbolica: il vincitore supererà le argentine in numero di titoli continentali.
Questa ennesima finale carioca, con le squadre di Abel Ferreira e Filipe Luís, non è casuale e conferma l’egemonia del Brasile nella Copa Libertadores.

Ma come nasce l’egemonia verdeoro? È una miscela perfetta di forza economica, modernizzazione e idee tecniche.
Potere e denaro: la spinta della nuova economia del calcio brasiliano
Tutto parte dai numeri. Negli ultimi cinque anni, i bilanci dei top club brasiliani hanno raggiunto livelli impensabili per il resto del continente. Il Flamengo viaggia sopra i 200 milioni di euro di fatturato, il Palmeiras è stabilmente oltre i 100, mentre realtà come Atlético Mineiro e Corinthians muovono cifre da piccola Premier League.
La svolta è arrivata con la legge sulle SAF, che ha aperto le porte agli investitori privati. È nata così una nuova élite del calcio carioca: club-azienda, sostenibili e ambiziosi. Il risultato? I giocatori non partono più subito per l’Europa (a meno di eccezioni) e altri tornano indietro come Hulk, Gabigol, Paulinho, Alex Sandro, Danilo, Felipe Anderson e tanti altri.
Mentre in Argentina o Uruguay si vendono i talenti per sopravvivere, in Brasile si investe per vincere.
Strutture e professionalità: il Brasile ha imparato a fare le cose ‘da grande'
Dietro le vittorie ci sono anche i mattoni. Gli stadi e i centri sportivi brasiliani non hanno nulla da invidiare all’Europa: l’Allianz Parque del Palmeiras, il Maracanã rimodernato, o il centro sportivo del Flamengo, tra i più avanzati del continente. Qui la tecnologia non è più un optional: analisi video, dati GPS, nutrizione personalizzata e psicologia sportiva.

Ma soprattutto, il Brasile ha cambiato mentalità manageriale. I club sono gestiti da dirigenti formati in Europa, con modelli che guardano a Premier League e Liga. Gli allenatori collaborano con i direttori sportivi, le accademie giovanili lavorano in continuità con la prima squadra. È una rivoluzione silenziosa, che ha reso il Brasile una macchina moderna dentro un’anima sudamericana.
Inoltre, secondo un’analisi de The National Herald, i diritti TV, gli sponsor e l’attività commerciale dei club brasiliani sono molto più consistenti rispetto a buona parte dei club della Conmebol.
Gli allenatori e il metodo di lavoro: da Abel Ferreira a Felipe Luis
Poi c’è la parte più bella: il campo. Lì dove la fantasia si è sempre sposata con l’istinto, il Brasile ha aggiunto il metodo.
Il simbolo di questa metamorfosi è Abel Ferreira, il portoghese che ha trasformato il Palmeiras in una macchina da guerra. Le sue squadre giocano con rigore tattico, pressing intelligente e una mentalità quasi ossessiva per il dettaglio. È un calcio pragmatico, europeo, ma con la passione verdeoro.

All’estremo opposto c’è Fernando Diniz, tecnico del Vasco da Gama ed ex CT del Brasile. La sua filosofia — il cosiddetto gioco relazionale — è una danza continua di scambi, movimenti e intuizioni. Niente schemi rigidi: solo armonia, fiducia, connessioni. Diniz rappresenta l’essenza poetica del calcio brasiliano, ma con una struttura mentale che lo rende contemporaneo.
Tra questi due poli si muove una generazione intera di allenatori: Dorival Júnior, Tiago Nunes e Renato Paiva. Tutti diversi, tutti figli di un Paese che ha capito che la tattica non toglie bellezza, ma la amplifica. L'ultimo ad aggiungersi a questo elenco è Felipe Luis, ex terzino dell'Atletico Madrid e della Seleçao che con le sue idee ha riportato il Flamengo in finale.
Un continente a due velocità: il Brasile e tutti gli altri
Il dominio verdeoro è anche il riflesso delle difficoltà altrui. L’Argentina, un tempo regina della Libertadores, oggi paga le ferite di un’economia in caduta libera. Boca e River restano nobili storiche, ma non più potenze strutturate. Il Cile e l’Uruguay soffrono di scala economica troppo ridotta, mentre l’Ecuador, nonostante il progetto dell’Independiente del Valle, non può reggere il confronto finanziario.
Il Sud America si è spaccato: da una parte il Brasile dei capitali e delle idee, dall’altra un continente in crisi che guarda con invidia oltre il confine.

Un impero che rischia solo se diventa troppo grande. La vera minaccia per il Brasile è il Brasile stesso. L’abbondanza di club ricchi, tornei estenuanti e pressioni mediatiche può generare saturazione.
Il rischio è che l’egemonia diventi autoreferenziale: vincere sempre contro se stessi, senza stimoli esterni. Eppure, per ora, la sensazione è che il Brasile abbia trovato la formula perfetta: unire l’arte del futebol con il calcio moderno.