Amauri: “Ero con Marchisio e arrivò la telefonata, piansi da Torino a Firenze. Poi feci un errore”

A cura di Ilaria Mondillo e Fabrizio Rinelli
Dagli inizi difficili in Brasile, con la madre sempre al suo fianco al sogno di diventare calciatore più forte di ogni ostacolo, fino ai palcoscenici più prestigiosi del calcio europeo. Amauri a Fanpage.it ripercorre la sua vita con la sincerità di chi ha vissuto momenti di esaltazione e di caduta: le notti magiche con il Chievo e il Palermo, l’approdo alla Juventus accanto a campioni come Del Piero e Buffon, i gol storici in Europa, ma anche le ferite degli infortuni e la delusione di aver visto sfumare, all’ultimo, la possibilità di indossare stabilmente la maglia azzurra della Nazionale. Un viaggio tra sacrifici e ricordi che raccontano la storia di un ragazzo che a 19 anni non era visto da nessuno ma che non si è mai arreso per realizzare il suo sogno.
Amauri, partiamo da lontano. Chi ti portava agli allenamenti?
"Mia madre, era sempre lei ad accompagnarmi. Mio padre non poteva perché lavorava. Non mi ha mai portato a un allenamento o a una partita, ma lo capivo bene. Solo più tardi, quando ero già grande e professionista, è venuto a vedermi allo stadio. La voglia di realizzare i miei sogni, di diventare calciatore, era comunque più forte di tutto. Mia madre mi ha aiutato moltissimo, per quanto poteva".
C’è stato un momento in cui hai pensato di mollare tutto, di non farcela?
"Sì, in due occasioni. La prima volta è stata prima di partire per l’Italia, nel ’99. Non era un periodo felice per la mia famiglia: avevamo tanti problemi. Io avevo 19 anni, una fidanzatina, e non volevo più chiedere soldi a mio padre. Cercavo un’opportunità ovunque, ma mi dicevano sempre: ‘Sei bravo, sei forte, ma hai già 19 anni e non hai mai giocato da nessuna parte'. Preferivano altri calciatori con più esperienza. In quel momento ho pensato davvero di lasciare il calcio e andare a lavorare per aiutare la mia famiglia. E proprio in quel momento c’è stata una persona a darmi la spinta, mia madre: ‘Non ti preoccupare, fai quello che devi fare. Ai problemi pensiamo noi. Tu vai a realizzare il tuo sogno'".
Poi l'Italia e la tua grande occasione.
"Un mese dopo arrivò l’occasione di giocare a Santa Catarina, in seconda divisione. Feci bene: chiusi da capocannoniere della Serie B brasiliano-catarinense. Subito dopo mi offrirono la possibilità di andare al Torneo di Viareggio. Fu una decisione difficilissima: non ero mai uscito dal Brasile, non avevo mai preso un aereo. Partire per l’Italia a 19 anni, senza sapere la lingua né conoscere la cultura, non era semplice. Erano gli anni ‘90, oggi è diverso: con i telefoni puoi videochiamare ovunque. All’epoca no. Partii dicendo a mia madre: ‘Io ci vado, ma torno solo per le vacanze. Questa è l’occasione della vita. Se parto, resto lì'. Ed è così: sono 25 anni che torno in Brasile solo in vacanza".

La prima persona decisiva che hai incontrato in Italia?
"Ce ne sono state tante, soprattutto all’inizio della mia carriera anche perché sai, quando raggiungi il livello che ho raggiunto io sapendo da dove sono partito. Sono stato conteso da due Nazionali: una pentacampione e una tetracampione, poi sono stato in lotta per la classifica capocannonieri, ho giocato anche alla Juve. Ma c’è stata una persona in particolare: Vittorio Grimaldi. Purtroppo oggi non c’è più, ma per me è stato come un padre. Nei sette mesi passati a Napoli senza contratto mi ripeteva: ‘Credimi, passerà. Avrai il tuo primo contratto in Italia, e tutto potrà succedere. Hai la qualità per giocare in Serie A'. Io gli ho creduto. Alla fine, tutto quello che mi aveva detto si è avverato".
Assist di Luciano e gol contro il Sofia: che ricordo ti viene in mente?
"Fu incredibile. Quella partita con il Chievo era già una favola, e aggiungemmo un tassello in più. Con Luciano siamo ancora amici, ci sentiamo ogni tanto. Ero l’unico calciatore nella storia del Chievo ad aver segnato in una competizione europea. Era il mio momento, quello che mi portò poi a Palermo. Quando ho visto quella palla lì ho detto ‘No, questa non può passare’ e mi sono buttato come se fosse l’ultima della vita. Pensavo di potercela fare, di superare il girone. Purtroppo non ci siamo riusciti".
Cosa accadde nello spogliatoio dopo quella partita?
"Quando non raggiungi un obiettivo giustamente c’è quell’amarezza in più, ma eravamo consapevoli che avevamo fatto qualcosa di importante. Che potevamo farcela, però non avevamo purtroppo l’esperienza necessaria. C'era rammarico per la squadra, ma personalmente l’ho vissuta anche con incredulità: avevo segnato i miei primi gol in una competizione europea a 26 anni. Sapete che non è stato facile il mio inizio, ma fare doppietta in una competizione europea mi rese davvero orgoglioso. Anche perché poi la mia esultanza aveva un significato speciale: stavo aspettando il secondo figlio e lo scoprii poco prima".

E poi Palermo.
"Sì, Palermo è stato davvero il trampolino per diventare quello che sono diventato. Guidolin per me è stato fondamentale: al Chievo giocavo da seconda punta, in un 4-4-2 accanto a Pellissier, e attaccavo molto bene la profondità, cercando spazi per lui. A Palermo invece Guidolin mi mise da prima punta, da solo. Mi ritrovai in un altro mondo, che mi piacque subito: davanti potevo fare quello che volevo, tutto riusciva alla perfezione. Mi diede un’opzione in più: non solo seconda punta, ma anche prima punta".
C’è stato qualche momento di turbolenza nello spogliatoio del Palermo?
"Sì, ci sono stati, ma sono cose che restano nello spogliatoio. Momenti agonistici, di rabbia, che fanno anche bene: dimostrano che uno ha orgoglio e vuole correggere chi sbaglia".
Se ti dico Zamparini?
"Tutti mi chiedono di Zamparini. Ti racconto un episodio: facemmo un ritiro invernale a Siviglia, dieci giorni. Al rientro giocammo contro la Sampdoria a Genova e perdemmo 3-0 senza mai toccare palla. Tornati a Palermo, lui arrivò nello spogliatoio con un sacco di scatole e disse: ‘Vi porto un regalo, così non dimenticherete mai la figura di m*** che mi avete fatto fare a Genova'. Era una sciarpa, ricordo che Simplicio rideva, mentre io gli risposi: ‘Non l’accetto, se vuoi mettila lì. Quando abbiamo vinto 3-2 a Firenze nessuno ci ha regalato niente'. Fu l’unico confronto diretto, ma sempre con rispetto. Per me è stato un grande presidente: mi ha trattato bene e rispettato sempre. Poi era un presidente che all’interno degli spogliatoi era diverso, ci diceva di non credere a ciò che leggevamo sui giornali, che lui credeva in noi tutti, faceva tanti discorsi. Certo, cambiava spesso allenatori, forse l’unico presidente che ne ha cambiati tantissimi e spesso ha richiamato anche quelli che mandava via (ride ndr) ma con noi aveva un rapporto chiaro".

E Miccoli?
"Con Miccoli invece è nata un’amicizia vera. In campo avevamo un’intesa naturale, fuori ci sentiamo ancora oggi. È uno di quei pochi compagni che restano per la vita. Con Fabrizio mi sento spesso, i nostri figli hanno la stessa passione. Quando capita vado a Lecce, stiamo insieme. C’è un episodio divertente, un paio di episodi divertenti. Quando andammo a Siviglia, lui usciva comprava regali alla moglie, a sua figlia che era piccola, anche perché Diego non era ancora nato e mi prendeva in giro perché io non spendevo soldi e mi diceva di farlo. Poi era tifosissimo del Lecce, un giorno eravamo in ritiro e di lì a poco si sarebbe giocato in Serie B il derby tra Lecce e Bari: dopo la riunione tecnica sulla lavagna gli scrissi Forza Bari. Arrivò, vide tutto e iniziò a urlare che sapeva chi l’aveva fatto, incolpandomi".
Cosa hai pensato quando hai incontrato per la prima volta Alessandro Del Piero nello spogliatoio?
"Eh sì. Quando arrivi in squadre come la Juve, il Milan o l’Inter, lì trovi tutti i più forti. E io ho giocato con i più forti. Alla Juve arrivai come quarta punta per la Champions: all’epoca c’erano solo tre attaccanti, Alex, Trezeguet e Iaquinta, e cercavano la quarta punta. Mi ritrovai così a giocare tutta la stagione accanto a Del Piero. È stata una cosa fantastica. Quando l’ho visto la prima volta mi ha accolto benissimo. Lui, come Buffon, è quel tipo di giocatore enorme ma che, quando è con te, ti fa sentire allo stesso livello. Ti trattano in modo che ti senti a casa, a tuo agio, libero di fare quello che sai fare. Per me il primo anno fu fondamentale. All’inizio la coppia era Del Piero-Trezeguet, ma poi David ebbe un problema. Io arrivai alla Juve preparato, mi ero allenato per essere pronto per la Juve, e mi dissi: ‘Qualsiasi occasione avrò, la devo sfruttare'. E così è stato: quando arrivò il mio momento, risposi presente. Pavel (Nedved, ndr) aveva grande stima di me, io sfruttai le occasioni e alla fine giocai partner con Alex per quasi tutta la stagione".
Era una bella squadra, c’erano grandi giocatori…
"Sì, una bellissima squadra, molto compatta. Giocavamo con campioni come Gigi, che aveva avuto un problema alla spalla, Trezeguet che ebbe un infortunio, Camoranesi che non stava bene. Poi c’erano Manninger, Marchionni, Sissoko, Marchisio che veniva dall’Empoli e doveva ancora esplodere. Facemmo una grande stagione: arrivammo secondi, con la possibilità di vincere".

Hai sfiorato anche i ritiri di Conte. È vera la storia che distrugge i giocatori in ritiro?
"La parola distruggere è un po’ forte. I primi giorni sono davvero duri: finisci di mangiare e vorresti solo passeggiare per smaltire la fatica. Ma i risultati arrivano: durante la stagione ritrovi quel lavoro fatto in ritiro. Lui riesce a trasmettere il suo gioco e il suo metodo funziona. Le sue squadre sono sempre concentrate, anche nelle partite brutte. Sa guidare i giocatori e chi lo segue ha successo. Soprattutto perché riesce a compattare la squadra, a unire ogni giocatore".
Un discorso motivazionale ascoltato alla Juve che ti sei portato dietro per tutta la carriera?
"Guarda, di discorsi ce ne sono stati tanti. Ma la differenza della Juve, o di queste grandi squadre, è che non c’erano troppe poesie. Nei momenti importanti parlavano campioni come Nedved, Alex, Gigi. E i discorsi erano chiari: ‘Siamo la Juve, dobbiamo vincere. Punto'".
Ma cos'è che ti è rimasto maggiormente di quell'esperienza?
"Ti racconto un aneddoto. La prima partita la pareggiammo a Firenze con la Fiorentina. La seconda era in casa con l’Udinese, 0-0. Io mi sentii chiamato in causa, anche se nessuno fece il mio nome. Sono un po’ permaloso. Negli spogliatoi, Gigi disse senza troppi giri di parole: ‘Noi siamo la Juve. Qualcuno pensa di essere da un’altra parte? Questa è la Juve, dobbiamo vincere e basta'. Dopo quelle parole tornammo in campo e nel secondo tempo, grazie a uno scambio tra me e Vincenzo, arrivò il gol dell’1-0 e vincemmo. Ecco, questo era lo spirito: niente giri di parole, niente delicatezze. Siamo la Juve e si deve vincere".

Quelle parole ti hanno molto caricato…
"Sì, perché io ero appena arrivato, era la mia seconda partita. Non c’era spazio per dubbi: ‘Noi siamo la Juve, non siamo un’altra squadra'".
In Nazionale si era creato un grande clamore intorno a te: dovevi essere l’attaccante capace di trascinarla. Ti convocano finalmente, e poi cosa succede?
"Succede che purtroppo il passaporto non arrivò in tempo. Doveva arrivare a novembre 2009, ma per un cambio di legge arrivò a marzo 2010, quando Lippi aveva già fatto la squadra. E non era neanche un momento felice per me. Sempre nel 2010, dopo il Mondiale, Prandelli mi convocò. Fu uno dei giorni più felici della mia vita, lo giuro. Da Torino a Firenze, in macchina con Marchisio, arrivò la telefonata della convocazione. Piangevo e mi ripetevo: ‘Ca*** sono arrivato a rappresentare l’Italia, la Nazionale'. Avevo coronato un sogno. Poi però mi infortunai contro il Lecce a settembre, rientrai solo a gennaio. Avrei dovuto fermarmi, ma volli giocare lo stesso. Giocai con dolore, male, e non ero più io. Pagai caro quell’errore: la gente era abituata a vedere un Amauri potente, devastante, e io non riuscivo più a esserlo. Pensando di aiutare la squadra, in realtà stavo facendo male sia a loro che a me stesso.

E dopo che successe?
"Nella seconda parte dell’anno andai a Parma, che era quartultimo e destinata alla retrocessione. Tutti ci davano per spacciati. Arrivai e segnai 8-10 gol, salvando il Parma. Proprio in quel periodo Prandelli venne a vedermi, prima contro il Lecce e poi a Udine. Mi disse: ‘È ora di tornare in Nazionale, sei pronto'. A Udine segnai una doppietta… ma mi feci male di nuovo. Tornai alla Juve e rimasi fermo 6 mesi. Persi così tutto il percorso che mi avrebbe portato agli Europei".
A quest’Italia cosa manca, secondo te? Perché sono tanti i ragazzi che non l’hanno vista ai Mondiali…
"Sono due Mondiali che non ci qualifichiamo. La verità è che è cambiata la generazione. Oggi è una Nazionale nuova, con un allenatore come Gattuso io ci credo davvero perché è uno che sa trascinare e sa il fatto suo e credo che l'Italia abbia bisogno di un allenatore del genere".
A tuo figlio auguri la tua stessa carriera?
"Di più… anzi vi dico in anteprima che il Palermo l'ha preso e quando me l'hanno detto mi sono commosso. Potevo portarlo altrove, ma avevo questa cosa dentro di Palermo e lui magari potrà dare continuità a ciò che avevo fatto io qui. Mi ha anche già detto che in futuro gli piacerebbe rappresentare l'Italia".