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Alejandro Ferrer, l’ultimo vicepresidente di Maradona: “Ci disse grazie per avergli dato un lavoro”

Alejandro Ferrer, ex vicepresidente del Gimnasia, racconta il lato umano di Diego Armando Maradona, tra semplicità, fragilità e gesti di autentica generosità vissuti quotidianamente nel club di La Plata.
A cura di Redazione Sport
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a cura di Ilaria Mondillo

Parlare di Diego Armando Maradona senza parlare di calcio è impossibile. Anche oggi, a cinque anni dalla sua morte, c’è ancora un intero popolo che conserva negli occhi le gesta che, per anni, ha regalato con le maglie del Boca Juniors, del Barcellona, del Napoli e, soprattutto, con quella dell’Argentina. Eppure Diego non è stato solo calcio. C’è chi ha avuto la rara opportunità di viverlo non solo in campo, ma anche fuori. Dietro al campione, da sempre al centro di discussioni e contraddizioni, si nascondeva un uomo di straordinaria umanità e semplicità. “Conoscendolo da vicino ho scoperto una persona profondamente diversa, semplice, generosa, capace di gesti di grande umanità”: così racconta a Fanpage.it Alejandro Ferrer, ex vicepresidente del Gimnasia, che ha voluto descrivere l’altro Diego: non il genio del pallone, non l’autore del Gol del Secolo o della celebre punizione contro la Juventus, ma l’amico, il lavoratore, il padre, l’uomo semplice.

Com’è nata l’idea di portare Maradona al Gimnasia e quando ti sei reso conto che il sogno stava diventando realtà?
Nel 2019. La squadra non stava vivendo un buon momento e serviva un cambio di rotta. Durante una riunione, quasi per scherzo, qualcuno disse: “E se chiamassimo Maradona?”. Io provai a far riflettere tutti: “Attenzione, Maradona non è un allenatore qualunque. Dietro di lui c’è un mondo: bisogna organizzare tutto, dalla sicurezza alla logistica, dagli spostamenti ai tifosi”. Nonostante i dubbi iniziali, cominciammo a muoverci. Contattammo prima il suo agente sportivo, poi quello legale. Quando ci dissero che Diego aveva davvero voglia di tornare ad allenare, tutto cambiò.

Prima di conoscere Diego Armando Maradona come lo immaginavi?
Conoscevo Diego solo da spettatore. Poi, quando lo abbiamo portato al club, ho avuto la fortuna di incontrarlo davvero. Conoscendolo da vicino, ho scoperto una persona profondamente diversa: semplice, generosa, capace di gesti di una grande umanità. Mi ha trasmesso qualcosa che andava oltre l’ammirazione per l’idolo: lì è nata un’amicizia sincera. Era sempre pronto ad aiutare chi ne aveva bisogno e giorno dopo giorno ho capito che ciò che i media raccontavano non corrispondeva alla realtà: Diego era davvero un uomo umile.

Ricordi il primo incontro con Diego?
Il fine settimana successivo alla firma non c’erano partite, così decidemmo di organizzare una grande presentazione allo stadio del Gimnasia, a porte aperte per tutti i tifosi. Fu lì che lo incontrai per la prima volta. Entrò negli spogliatoi ed era circondato da un’energia incredibile. Il presidente mi prese per un braccio e mi disse: “Vieni, voglio presentarti a Diego”. Quando te lo trovi davanti, capisci che non è un incontro come gli altri. Ti blocchi, ti manca il fiato, ti vengono le lacrime agli occhi. È un’emozione che ti travolge. Riuscii a dirgli solo: “Diego, grazie per aver accettato di allenare il Gimnasia”. Lui mi guardò, sorrise e rispose: “Non dirmelo mai più. Il riconoscente sono io: mi avete dato un lavoro”.

Diego Maradona in golf car al campo d’allenamento del Gimnasia.
Diego Maradona in golf car al campo d’allenamento del Gimnasia.

Come furono i primi giorni di Diego a Estancia Chica?
Estancia Chica è il cuore del Gimnasia: ci sono gli spogliatoi, la palestra, l’area medica, la zona relax e gli uffici del corpo tecnico. Nessun dirigente poteva entrare durante le riunioni tecniche, ma ogni volta che finivano, Diego mi chiamava per chiacchierare un po’. Lo aspettavo ogni giorno: veniva da Bella Vista a quasi due ore di viaggio. A Estancia c’erano dieci campi, e la squadra principale si allenava sul 3 e sul 4 e spesso lo portavamo in campo con un golf-car, anche se a volte preferiva camminare per fare un po’ di esercizio.

Aveva qualche rituale particolare?
Non era uomo da rituali, ma ricordo che non voleva mai vedere un certo colore, mi pare fosse il rosso o il verde, perché lo considerava di cattivo auspicio.

Che rapporto aveva con i giocatori, soprattutto i più giovani?
Era molto protettivo con i suoi giocatori. Non permetteva che nessuno, dirigente, tifoso o giornalista, parlasse male di un calciatore, si arrabbiava molto. Con i giovani era fantastico: quando lasciava Estancia Chica, spesso si fermava ai campi dove si allenavano i ragazzini e trascorreva del tempo a parlare con loro. Immagina: Diego Maradona che scende da un’auto per dare consigli ai ragazzi sul calcio e sulla vita. Quei momenti non li dimenticheranno mai. Era un leader naturale, dentro e fuori dal campo.

Hai qualche aneddoto divertente?
Ricordo che un giocatore, del quale non dirò il cognome, non era molto bravo tatticamente e c’era questo cagnolino che girava per Estancia Chica, finché poi Diego non lo accolse. Ovviamente aveva un nome, ma lui lo battezzò con il cognome di quel giocatore. E quando lo chiamava sentivi il nome e cognome di quel giocatore: era un modo di scherzare, ma il cane restò battezzato con quel nome.

L’hai mai visto emozionarsi, arrabbiarsi, commuoversi?
Quando vincemmo per la prima volta si emozionò tanto: battemmo il Godoy Cruz 4-2 fu felice come un bambino. Anche perché ricordo che in un allenamento aveva spiegato ad Ayala come calciare le punizioni e, proprio in quella partita, segnò due gol su punizione. Era raggiante. Quando si perdeva era triste anche perché dava tutto per la squadra.

C’è stato un momento in cui l’hai visto davvero felice e un altro in cui l’hai sentito fragile?
Il suo posto era in campo con i calciatori e con il pallone. Non ho mai avuto dubbi: al Gimnasia era felice. L’ho visto fragile durante la pandemia: nessun allenamento, nessuna partita, chiuso in casa. Quella solitudine lo colpì molto. Lo sentivo al telefono, ma parlavamo di rado perché il suo segretario filtrava le chiamate. Era triste, perché quello che voleva era lavorare, stare in campo, con i suoi giocatori. Cadde in una tristezza profonda, in depressione. Tutto ciò che gli avevamo dato e che gli aveva dato felicità gli era stato tolto: questo lo distrusse. Quando poi poté tornare ad allenare, sembrò rinascere.

Maradona durante il suo periodo al Gimnasia, accanto a Ferrer (alla sua sinistra).
Maradona durante il suo periodo al Gimnasia, accanto a Ferrer (alla sua sinistra).

Quando hai iniziato a notare un cambiamento in lui, nell’umore o nella salute?
Ha sempre avuto problemi di salute di base, prendeva molte medicine e non sempre con ordine. Noi cercavamo solo di stargli vicino, di incoraggiarlo, di farlo sorridere. Non mi addentravo nella parte clinica: volevo solo che stesse bene umanamente, per il suo bene e per quello del club.

Come faceva a sopportare tanto amore e tanta pressione?
È difficile da spiegare, bisognava essere nei suoi panni per capirlo. Non poteva uscire per strada, tutti lo riconoscevano, lo abbracciavano, chiedevano autografi. Era complicato, e non tutti possono gestirlo. Aveva lati positivi e negativi: essere conosciuto in tutto il mondo è un peso enorme.

30 ottobre 2020, l’ultimo compleanno che visse con voi: cosa c’era nei suoi occhi?
Non lo vedevamo da due o tre mesi a causa della pandemia e non sapevo se il 30 sarebbe stato con noi. Il suo segretario a volte diceva di sì, altre di no, diceva che non era in condizione di allenare in quel momento. Noi però volevamo solo sapere come stesse, più che altro. Anche perché, se fosse tornato ad allenare, volevamo preparargli una piccola festa per il suo compleanno. In quel periodo le partite si giocavano a porte chiuse, senza pubblico, ma sapevamo che la partita sarebbe stata trasmessa in TV e che tutti lo avrebbero visto. Fino al giorno del match non seppi nulla, poi mi chiamarono e mi fu detto: “Alla fine Diego vuole venire”. Preparammo tutto.

Ma già non era il solito Maradona.
Andai a casa sua ma, quando lo vidi uscire di casa, capii subito che non stava bene: era pallido, magro, con lo sguardo perso. Mi preoccupai a tal punto da suggerire dal desistere dal farlo venire al campo, ma mi fu risposto: “Tranquillo, Diego è così… poi gli passa”. Ma lui continuava a stare male. Quando fu il momento di entrare in campo lo accompagnammo tutti noi anche perché doveva ricevere il presidente dell’AFA, quello della Superliga e il presidente del club. Avevamo preparato anche una torta per festeggiare il compleanno, ma lo vidi così provato che chiesi a un dipendente di stargli vicino. Si fece una piccola festa ma poi mi disse: “Voglio andare via, non voglio restare”. Gli dissi di non preoccuparsi. Diego rimase tranquillo e se ne andò. Ma quella volta lo vidi davvero male.

Aveva la sensazione che non stesse bene? Le confidò mai stanchezza o voglia di smettere?
Non mi disse mai nulla di preciso sulla sua salute o sulla sua vita, ma lo capivo solo guardandolo. Dopo un anno insieme, avevo imparato a conoscerlo: vedevo che era triste, che qualcosa non andava.Il problema era che entrare nella sua vita privata era molto difficile. Aveva sempre intorno assistenti, guardie del corpo, persone che gli organizzavano la giornata. E noi, come dirigenti, dovevamo rispettare quella distanza.

Diego Maradona con Alejandro Ferrer.
Diego Maradona con Alejandro Ferrer.

Ripensandoci oggi, aveva intuito che la sua situazione stesse peggiorando?
La situazione di Diego, dal punto di vista della salute, stava già peggiorando. L’ultimo giorno che lo vidi, il giorno del suo compleanno, mi resi conto che non stava bene. Poi iniziarono a occuparsene i suoi medici personali, e noi non potevamo più intervenire. Fu operato alla testa perché i medici dissero che era necessario. Da lì in poi la situazione cominciò a peggiorare. Noi perdemmo un po’ il contatto con lui, perché dopo l’ospedale andò a vivere in una casa dove doveva restare sotto cura e in riposo. E da allora capimmo che le sue condizioni erano peggiorate.

E si arriva al 25 novembre 202.
Un giorno nefasto e tanto triste per tutta l’Argentina e per tutto il mondo. Ricevetti una chiamata dal presidente, mi disse che avevano saputo che Diego non stava bene, che ancora non era confermata la sua morte; ricordo che era verso mezzogiorno, tipo le 12:00 o l’una del pomeriggio, fu una follia. Circolavano notizie: “Sì, stanno dicendo che l’hanno trovato morto”. Io stavo tornando a casa e davvero non riuscii a trattenermi: iniziai a piangere, mi chiusi in camera. Non volevo uscire fino a quando qualcuno non me l’avesse confermato. Purtroppo fu il giorno peggior della mia vita.

Se potesse tornare a quel giorno cosa gli direbbe o cosa farebbe per lui?
Che avrebbe dovuto prendersi un po’ più cura di sé così oggi sarebbe stato con noi in vita. Sarebbe stato ancora allenatore o manager della squadra se si fosse curato molto di più o se l’avessero curato molto di più. Oggi sarebbe qui a godersi il club, le sue figlie, la vita.

Come vive oggi tutto ciò che emerge dal processo?
Il processo l’ho seguito come qualunque altro argentino o qualunque altra persona del mondo, finché non è successo quello che è successo con la giudice. La verità è che vedere alcune immagini che sono uscite o ciò che si sentiva da alcuni testimoni ti fa pensare: “Quanto male gli hanno fatto a una persona che ci ha dato tanta felicità?”.

Se dovesse raccontare Diego ai più giovani, quale storia sceglierebbe?
Mi chiamarono tante persone, alcune mi dissero cose che mi commossero. Una ad esempio mi disse: “Guarda, la mia infanzia è stata così brutta, così cattiva che l’unica cosa che volevo era una partita di Diego. Vederlo giocare era l’unico momento in cui ero felice”. Questo voglio trasmettere alla nuova generazione, ai miei figli che sono più piccoli. A me ciò che mi sorprendeva era che lui voleva vivere con i suoi calciatori. Ricordo che il giorno prima della partita ad esempio, amava stare con loro. Mangiavano insieme, parlava con tutti noi, poi quando i giocatori andavano a riposare, lui restava con noi a fumarsi un sigaro e raccontare aneddoti. Non ci chiese mai nulla, mai nessuna pretesa solo una cosa: nella sua stanza doveva esserci una tv grande per vedere le partite.

C’è un aneddoto che le è rimasto nel cuore e che non hai mai condiviso con nessuno?
Per via dell’amicizia e del legame che avevamo, lui si era abituato che fossi io ad accoglierlo a Estancia Chica quando arrivava per gli allenamenti. Dopo la sessione, andava nel suo ufficio con i suoi assistenti per decidere la formazione per la partita successiva. Io, per rispetto, aspettavo sempre fuori — non mi spettava entrare — ma, una volta finita la riunione, lui mi chiamava dentro. E ogni volta era uguale: ci sedevamo, prendevamo un tè, mangiavamo qualche biscotto, chiacchieravamo. Restava una mezz’ora, quaranta minuti, e poi se ne andava, saliva in macchina e tornava a casa. Succedeva così ogni giorno, era diventata una consuetudine. Gli piaceva quel momento. Un giorno dovetti andare a Buenos Aires per una questione di lavoro e mi chiamò un dipendente del club. “Dove sei?”, risposi. “A Buenos Aires, ma cosa succede?”, “Diego ti sta aspettando”. Quando gli dissero che non c'ero, si arrabbiò. Disse a tutti che non avrebbe preso il tè, che si alzava e se ne andava. E così fece. Quella cosa mi colpì tantissimo, perché capii che per lui quel momento contava davvero. Aspettava quel tempo insieme, e la sua reazione mi fece capire quanto fosse autentico, quanto valore desse alle persone e alla lealtà. Quel piccolo gesto di amicizia, resterà per sempre inciso nel mio cuore.

E se lo immaginasse ora, ancora a Estancia Chica…
Gli direi grazie, che presto ci ritroveremo per prendere un tè. Se n’è andato con il nostro stemma nel cuore. Questo non glielo toglie nessuno.

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