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Gli 80 anni di Muhammad Ali, il primo a capire che lo sport poteva essere più che semplice sport

Muhammad Alì è stato il primo grande sportivo ad interessarsi di problemi veri, e per questo ne ha pagato le conseguenze. Ha ispirato milioni di persone e decine di atleti, lo ha fatto fino alla fine. Muhammad Alì non ha mai smesso di lottare fuori dal ring ed è stato un vero paladino dei diritti umani.
A cura di Alessio Morra
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Di miti dello sport ce ne sono tanti, ma non tantissimi. Le leggende vere dello sport si contano quasi sulle dita di una mano, perché sono rari i campioni che sono stati tali anche nella vita pubblica. C’è chi si è battuto come un leone per i diritti umani come se fosse su un ring. Il suo nome è Muhammad Alì, che oggi avrebbe compiuto 80 anni e che non viene ricordato solo per essere stato l’unico pugile capace di conquistare per tre volte il titolo mondiale dei pesi massimi.

“The Greatest” era nato il 17 gennaio del 1942, della sua vita si sa tutto o quasi. Da cinque anni e mezzo non c’è più, ma in realtà è sempre presente nella vita sportiva e in quella pubblica. Se tanti grandi campioni dello sport si battono, come Lewis Hamilton o LeBron James, lo si deve all’attivismo di Muhammad Alì, che sulla sua pelle ha pagato le sue battaglie. Oggi sarebbe stato un magnetico influencer, sarebbe stato attivo sui social e avrebbe commentato a sua modo tutto quello che non gli piaceva del mondo, ma sempre battagliando e dando spunti rilevanti.

La rivoluzione possono farla pure gli sportivi. Alì nel 1960 a Roma, quando si chiamava Cassius Clay, vinse l’oro olimpico, qualche anno dopo cambiò nome e disse che quello che aveva era un nome da schiavo, scelse per sé Muhammad Alì, perché era un uomo libero: “Vuol dire amato da Dio, voglio che la gente lo usi quando si parla di me e parla di me”. Nel 1967, quando era già diventato campione del mondo, Alì fu autore di una presa di posizione forte. Con lo scoppio della guerra del Vietnam anche lui fu chiamato alle armi, ma si rifiutò: “I miei nemici sono gli uomini bianchi, non i Vietcong, non ho mai litigato con questi Vietcong, i miei veri nemici sono qui. I Vietcong non mi hanno mai chiamato negro, perché devo sparare a loro”. Diserta, si rifiuta di presentarsi in guerra e perde tutto. Viene condannato a 5 anni di carcere e perde la corona, il titolo mondiale non è suo, è rilasciato ma ha forti limitazioni personali e soprattutto non può combattere.

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Solo sette anni dopo torna sul ring, è il 1974, Alì ha 32 anni, il meglio della sua carriera è alle spalle. Per molti ha perso tutta la sua forza, c’è chi lo accusa dicendo che per difendere le sue posizioni ha bruciato la carriera. Non è così. A Kinshasa si riprende il titolo nel famoso combattimento con Foreman, in quello che fu ribattezzato il ‘Rumble in the Jungle’. Un trionfo con il pubblico che gridava: ‘Ali boumaye’. L’anno seguente c’è ‘Thrilla in Manila’, batte pure Joe Frazier, il titolo poi lo perde, ma lo riconquista ancora nel 1978. Quando si ritira scopre di avere il Parkinson, prima dell'ultimo combattimento dei segnali già ci sono e il primo ad accorgersene e il suo storico allenatore, il grande, Angelo Dundee.

Inizia in quel momento una nuova vita. E se possibile il suo mito cresce, i segni della malattia sono sempre più visibili, commovente è il momento in cui porta la fiaccola olimpica ad Atlanta nel 1996. Non perde mai la sua verve, veramente non molla mai, è anche a Londra per i Giochi 2012. Il ‘Più Grande’ ha ispirato tanti sportivi, compreso Mike Tyson, ma è stato una guida per milioni di persone. Sono passati decenni dall'inizio delle sue lotte ma le sue parole e il suo esempio sono sempre vividi, e la speranza è che tanti sportivi seguano il suo esempio, e si battano come leoni per battaglie vere e cose concrete c'è sempre, anche se nessuno sarà mai come lui.

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