
Sulla quarta stagione di The Bear aleggiavano non poche aspettative: gli amanti della serie delusi dal terzo capitolo speravano di ritrovare i fasti dei primi episodi, sincopati e adrenalinici, chi invece era riuscito ad apprezzare la stasi della stagione intermedia, era curioso di sapere come si sarebbe sviluppata la storia. In entrambi i casi, con molta probabilità, si avrà la sensazione che manchi qualcosa, ma allo stesso tempo, che nulla sarebbe potuto andare in maniera diversa da come raccontato nei dieci episodi che compongono questo quarto e -forse- ultimo capitolo di The Bear.
Il ritmo del racconto si lega perfettamente a quello della terza stagione, è cadenzato, non c’è quell’angoscia perpetua del fare che aveva caratterizzato le prime stagioni, sebbene non manchino alcuni elementi ormai identificativi della cucina del The Bear e di chi la abita, come i dialoghi urlati e caotici, ma anche il ticchettio del tempo che passa, sul display di una sveglia che, stavolta, potrebbe segnare la fine di tutto. La quarta stagione si apre così, con una minaccia di chiusura, scandita dallo scorrere inesorabile dei minuti che compongono i due mesi entro i quali la brigata deve realizzare un vero e proprio miracolo, con il locale che dopo una recensione non brillante deve ridimensionarsi, con Carmy, Sydney, Richie e tutti gli altri che, ancora una volta, sono chiamati a rimettere insieme il disordine che hanno dentro, per tramutarlo in una perfezione necessaria oltre che desiderata.

Episodio dopo episodio, ci si rende conto che si sta tracciando un percorso, che ogni serie era stata costruita attorno ad un coacervo di emozioni distinte: se nella prima e nella seconda prevalgono l’adrenalina, la rabbia, la rivalsa e la confusione, nella terza e nella quarta tutto è volto alla crescita, al perdono, all’accettazione, al desiderio di voler fare la propria parte. Se è vero che la quiete arriva sempre dopo la tempesta, è così che si può sintetizzare questa stagione dove non mancano emozioni, anzi, ce ne sono tante, ma la differenza è che sono più intense, profonde, ponderate, sentite, meno sguaiate e iperboliche. Ognuno dei personaggi compie un passo, decisivo, verso il proprio futuro e lo fa con tutta la paura che ne consegue. Carmy e Richie, in modi diversi, capiscono di aver preso questo tempo insieme per elaborare un lutto, devastante, terribile, come quello di Mickey che li ha allontanati e uniti nonostante le incomprensioni.
Sydney capisce che l’ambizione e la voglia di eccellere hanno meno importanza del calore di un posto in cui sentirsi a casa, nonostante la disorganizzazione e i problemi che incombono.
Donna chiede scusa a Carmy, ammettendo di non esserci stata quando lui ne avrebbe avuto bisogno, come una madre avrebbe dovuto fare con suo figlio. Marcus coltiva il suo talento, senza lasciarsi distrarre da un passato che non gli appartiene più e anche Ibra si adopera per “creare opportunità”.

La straordinaria forza di The Bear è sempre stata l’intensità, non solo relativa al ritmo narrativo, ma soprattuto ai dialoghi pregni di significati, per quelle pause che lasciano il fiato e il cuore sospeso, per quel senso di oppressione che si sente ogniqualvolta c’è qualcuno che è sul punto di dire qualcosa che covava da tempo. Lo fa Carmy con Claire, dalla quale corre solo per dirle che aveva paura di stare bene, aveva paura delle sue emozioni: “perché io non so che farmene”, lo fa Syd quando realizza che avrebbe potuto perdere suo padre: “All’assenza di mia madre mi ero abituata, ma non avevo mai pensato che a lui potesse accadere qualcosa” dice tra le lacrime, lo fa Richie quando esplode per la paura di essere dimenticato da sua figlia, lo fa anche Nathalie con la sua migliore amica quando decide di darle una seconda opportunità.

Le emozioni in The Bear non mancano e ci sono dei momenti sublimi in alcuni episodi, come il settimo, quello del matrimonio in cui si ritrovano tutti sotto un tavolo a raccontarsi le loro paure; c’è il quarto girato da Ayo Debiri e dedicato al suo personaggio con una Sydney più leggera di come l’abbiamo sempre vista. E poi c’è l’ultimo, dove si scarica la tensione accumulata in quaranta minuti di girato continuo in cui, gran parte della puntata, è retta da Richie, Carmy e Sydney i tre pilastri della serie, attorno a cui potrebbero in effetti nascere nuove storie. Perché se la quarta stagione aveva un compito era quello di chiudere un ciclo e sebbene sia strano vedere che anche da una passione totalizzante ci si può allontanare, come accade allo chef Berzatto, è chiaro che ogni personaggio è arrivato dove doveva arrivare, a riconoscersi, a darsi quella chance che nessuno gli aveva mai dato prima, tenendo sempre a mente che Every Second Counts (Ogni secondo conta ndr.), ma stavolta l’obiettivo da raggiungere non è un piatto perfetto, quanto l'equilibrio tra ciò che c'è dentro e quello che c'è fuori, che sia una cucina, o il mondo.
