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La Porta Rossa 3, Lino Guanciale: “Sarà un finale appagante, Cagliostro meglio da morto che da vivo”

Come finisce La Porta Rossa3? Intervista al protagonista della serie di Rai2 che spiega l’epilogo della terza e ultima stagione: “Era giusto finisse così. Spero generi quell’effetto appagante da ultima pagina di un bellissimo libro che hai aspettato molto prima di finire di leggere , da cui non riuscivi a staccarti”.
A cura di Andrea Parrella
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La Porta Rossa giunge al suo epilogo, un finale di terza stagione che chiude il cerchio di uno dei progetti televisivi più ambiziosi degli ultimi anni. Volto centrale di questo racconto corale, quello di Lino Guanciale, che nel ruolo di Cagliostro ha galleggiato in questa dimensione immateriale, riuscendo ad avvicinarsi alle persone che aveva abbandonato più di quanto non avesse fatto in vita. A raccontarci l'ultima puntata de La Porta Rossa 3 è Lino Guanciale, che in questa intervista a Fanpage.it fa un bilancio del progetto.

È universalmente riconosciuto che La Porta Rossa abbia reso la narrazione intricata uno stimolo e non un limite per il pubblico generalista della Tv. Immaginavi che avrebbe fatto in qualche modo scuola?

La prima stagione era una scommessa per il genere proposto e per l'inusualità di un progetto di questo tipo sulla Tv generalista. Non sapevamo cosa aspettarci in termini di ricaduta, ma da dentro percepivamo la compattezza della scrittura, nonostante la sua complessità. Al tempo Rai2 era il canale per i progetti più innovativi e sfidanti, poi per qualche anno ha smesso di esserlo e ora spero torni ad esserlo definitivamente.

Ne La Porta Rossa la narrazione è intricata e, allo stesso tempo, non respingente. Come stanno insieme queste due cose?

La cosa che secondo me ha funzionato è che c'è un equilibrio difficile da realizzare, ma in questo caso compiuto, fra complessità e leggibilità empatica della storia. Vuoi per la forza dei personaggi, per l'alchimia particolare del cast, la buona integrazione dello stile registico con le prime due (c'è stato un cambio con la terza stagione, ndr) i personaggi ti prendono per mano in questo intricato labirinto. Quello che arriva al pubblico non è un arzigogolo, ma un labirinto in cui non sei solo. Che si fosse riusciti a portare a casa questo risultato lo abbiamo capito la mattina alle 10 dopo la messa in onda della prima puntata.

Questa stagione sarà l'ultima. Consegnerà verdetti o lascerà incertezze? 

Io spero generi quell'effetto di appagamento da ultima pagina di un bellissimo libro che hai aspettato molto prima di finire di leggere perché non riuscivi a staccartene, la stessa che ha avuto su noi attori. Molti fili di questo gomitolo si dipanano e credo che ogni personaggio venga consegnato a un percorso nel proprio futuro che penso darà soddisfazione agli spettatori. Quello di cui siamo certi è che la dimensione trilogica di questa storia, di Cagliostro, Anna, di Vanessa, si compia con questo cappello che è la terza stagione. Per come la vedo si potrà rimanere appagati.

Secondo te La Porta Rossa ha avuto anche l'effetto di mettere in guardia il pubblico da chi prova a speculare sul dolore delle persone legato al rapporto coi defunti?

Io penso che questo aspetto emerga soprattutto nella terza stagione. Un elemento estremamente attrattivo della Porta Rossa, che era un'incognita all'inizio sul responso di pubblico, è proprio il mistery, tutto ciò che ha a che fare con fenomeni che vanno oltre la nostra comprensione razionale. Io penso che questo orizzonte si sia affrontato con grande equilibrio sin dalla prima stagione. L'intenzione era improntare tutto a un grande realismo, senza lasciarsi andare a un'effettistica particolarmente "spettacolistica". Volevamo comunicare proprio questo dato, il rapporto che è al di là del razionale ci riguarda tutti, la perdita, la morte, sono cose che parlano della vita di ognuno di noi. Nel trattarle ci vuole grande delicatezza perché poi non si può prescindere dal rispetto della dimensione individuale in cui queste cose vengono vissute. .

Ne La Porta Rossa i defunti non sono elementi narrativi fantastici in grado di incidere sulla tendenza della realtà. Cagliostro soffre esattamente come le persone che ha abbandonato. È un aspetto inedito di racconti di questo tipo?

Esatto, e in questo oltre ad affrontare il tema della relazione con chi non c'è più, la serie riesce anche a proporre una metafora di quello che è il quotidiano, il faccia a faccia con la crisi nelle relazioni. Cagliostro è un uomo che perde la possibilità di contatto con quella che è la sua vita di ogni giorno, viene catapultato in una condizione di marginalità non cercata dalla quale patisce enorme difficoltà nel comunicare con le persone che contavano. Al contempo non aveva fatto nemmeno tanti sforzi per comunicare con loro in vita.

La morte come momento di autoanalisi di Cagliostro.

In questo senso è un personaggio che riflette quello che può succedere a ognuno, dare per scontata l'esistenza di alcuni legami senza essere capaci di averne cura, di aprirsi e condividere, è una cosa di cui ci si può pentire in ogni momento. Chi di noi non ha un rimpianto su una cosa non detta? Il bello di Cagliostro è che nel momento in cui non può parlare, gli viene data la possibilità di arrabattarsi per provare a rimediare. È certamente migliore da morto che da vivo.

Parliamo di come guardi i prodotti che interpreti, o se li guardi. Commenti spesso la puntata in contemporanea sui social. Sei tu a farlo? E soprattutto questa modalità aggiunge qualcosa all'esperienza di fruizione del prodotto stesso?

È un modo di utilizzo dei social utile nel tentativo di trovare una forma di comunicazione con chi mi segue. Modalità che tra l'altro ritengo molto felice. Me ne occupo io, anche se mi faccio aiutare da una persona per ragioni relative al tempo e ai dettagli tecnici. Però davanti al televisore ci sono anche io e ho un occhio sempre problematico rispetto al riguardarmi. Sono rari i momenti all'interno della stessa puntata riesca a lasciarmi andare alla storia e non pensare che sia io quello che sta lì dentro. Per lo più il mio è un occhio tecnico e iper critico che mi fa disperare.

Quando ti guardi in televisione lo fai sempre per la prima volta?

Sì, mi piace essere spettatore come tutti gli altri, lo trovo molto democratico. È all'insegna di quella volontà di infrazione di certe distanze per la quale provo a usare così i social, per creare una partecipazione.

Vederlo con gli altri e condividere pensieri dà anche sostanza alla visione televisiva, lineare.

Sì, forse in questo vale anche il mio imprinting teatrale, forse questa mia ricerca di una dimensione comunitaria anche attraverso i social, vede sul fondo una motivazione data da un approccio teatrale che richiama una fruizione istantanea e fisica. È il motivo per cui il teatro non morirà mai, sarà sempre in crisi come noi che lo facciamo diciamo, ma ci sarà sempre perché sempre esisterà il bisogno di vivere quell'esperienza. I dati di questa fase post pandemica ci dicono che il teatro, d'altronde, vive una certa rifioritura. Forse proprio perché c'è tanto desiderio di quella compresenza.

Analizzando il percorso degli ultimi anni di carriera, il comune denominatore dei tuoi lavori in Tv è quello di una complessità, ambizione, non immediatezza. È una casualità, o scientemente ti sei indirizzato verso questi criteri di scelta?

Ti confermo che c'è del metodo in questa follia. È una scelta precisa quella che ho fatto da un certo in poi, di cui La Porta Rossa è stata forse il primo anello. A un dato momento del mio percorso ho provato a improntare le mie scelte nella direzione del rischio, modalità narrative non tradizionali e convenzionali. Il motivo è semplice, da una parte mi sembrava il modo giusto per cercare nuovi stimoli, scoprire nuove possibilità attoriali, ma soprattutto in relazione a un cambiamento del pubblico dell'audiovisivo, che sta maturando un'attenzione diversa. Il pubblico si sposta con velocità diverse verso modalità più prossime a quella della piattaforma, il che significa che anche le tecniche di narrazione devono improntarsi alla ricerca di nuove strade. Credo che il futuro passi di qui e per questo ho deciso, appena ho potuto, di utilizzare la posizione che in qualche modo ero riuscito a costruire, di prendere parte a progetti che tenessero l'asticella del proprio orizzonte a quel livello. Anche se è rischioso, anche se altre strade possono essere più comode, alla rendita di posizione preferisco sempre l'investimento sul futuro.

E forse il divismo non è una cosa che bussa alla tua porta. Dico bene?

È effettivamente così. Non per risposta a un codice morale particolare, ma per forma mentale naturale sono portato a concentrarmi molto sul lavoro. E per me il lavoro è il palcoscenico, il set. Non giudico affatto chi indirizza le proprie energie professionali sul coltivare il proprio personaggio televisivo perché ci sono strade diverse per vivere la propria dimensione pubblica. Però io non ho mai avuto l'esigenza di sforzarmi in quella direzione, in vent'anni di lavoro ho sempre provato ad essere convincente davanti a delle persone in platea o davanti alla macchina da presa.

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