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Piero Chiambretti: “Francesca Albanese venga sulla mia barca, l’importante è che non si tuffi nel Tevere”

Il conduttore racconta la seconda stagione di Fin che la barca va a Fanpage.it, partita bene agli ascolti: “Fa piacere, ma se sto ancora a guardare solo i numeri, vuol dire che non ho capito niente della mia carriera”. E sulle recenti risse in tv: “La tv è specchio rotto della realtà. Il fatto che qualcuno si alza e se ne va è una nevrosi del momento”.
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Piero Chiambretti naviga controcorrente. Letteralmente. La seconda stagione di Fin che la barca va è partita dal Tevere con ascolti in crescita su Rai3 e un programma che ogni mattina si gioca tutto con una telefonata alla capitaneria di porto: "se il fiume è in piena, la barca resta ferma e bisogna reinventare tutto", racconta a Fanpage.it. Venti minuti al giorno che richiedono dieci ore di lavoro, un freddo umido che mette in difficoltà gli ospiti e la certezza, da quasi settantenne, che "se sto ancora a guardare solo i numeri, vuol dire che non ho capito niente della mia carriera".

In un momento in cui la televisione è diventata un ring dove gli ospiti si alzano e se ne vanno, Chiambretti ha trovato la soluzione: metterli su una barca. "Il problema è se vogliono buttarsi nel Tevere prima che attracchiamo, dovremmo chiamare la capitaneria", scherza quando gli chiediamo se chiamerebbe Francesca Albanese dopo il caso scoppiato a "In Onda". Perché secondo lui, gli abbandoni degli studi non sono casuali: "C'è una tensione fortissima nel paese. La televisione è uno specchio rotto della realtà, porta a gesti ingiustificati che però rappresentano perfettamente la nevrosi del momento".

Chiambretti talent-scout, ultima "creatura" è Patrick Facciolo, analista della comunicazione seguitissimo in Italia: "Non fa parte del circo mediatico di un tempo, ma certamente fa parte di quella nuova generazione di figure che attraverso il web, attraverso lo studio, ha preso spazio". Ma quanti ne ha scoperti Chiambretti? "Diversi. La riconoscenza in questo mondo, nel mondo nostro, non è riconosciuta. Ma non è un problema perché in realtà io non voglio sentirmi l'inventore di niente". Anzi, ribalta la prospettiva: "Tutti quelli che sono partiti con me in qualche modo hanno fatto un piacere a me perché lavorando bene ed essendo bravi hanno migliorato i programmi che ho fatto. Quindi la riconoscenza è pari: io riconosco il loro talento, loro hanno riconosciuto in me un possibile mentore sui loro inizi. Fa tutto parte del gioco", conclude Chiambretti. Come se fosse ovvio che in tv la memoria sia corta e la gratitudine un optional.

Piero, la seconda stagione è partita con ascolti migliori rispetto alla prima puntata della scorsa edizione, un punto sopra il programma che ti ha preceduto. Soddisfatto?

È vero, siamo più alti rispetto alla prima puntata della scorsa edizione. Questo è buono, i numeri fanno piacere, indubbiamente uno fa le cose per farle vedere. Però io penso sempre allo stesso modo: prima il prodotto e poi il numero, perché non è detto che un numero alto corrisponde a un programma alto. Visto che sono arrivato ormai alla veneranda età di quasi 70 anni, se sto a guardare ancora solo il numero, vuol dire che non ho capito niente della mia carriera.

È un programma tecnicamente complesso. Quanto lavoro c'è dietro quei 20 minuti in onda?

Il programma per farlo non è uno scherzo. Devo stare attaccato a quello che farà l'ospite che deve arrivare, io che ho un'idea nuova, il montaggio… insomma, ci sono diverse complicazioni. Sono 20 minuti molto intensi che tra una cosa e l'altra mi portano via 10 ore al giorno.

La peculiarità di "Finché la barca va" è che il format è quello che si vede, quello che c'è davanti alla telecamera, ma soprattutto quello che c'è dietro e che c'è intorno. Come si gestisce tutto questo?

È tutto sufficientemente imprevedibile e fuori da un sistema ormai fin troppo collaudato della televisione. La mattina, la prima cosa che faccio è chiamare la capitaneria di porto per sapere il meteo, perché il programma potrebbe andare in onda sul fiume, ma potrebbe andare in onda anche sul ponte. Il fiume è inaccessibile quando ci sono le piene e quindi devi fare il programma diverso da quello che hai immaginato, ma senza perdere di vista il fiume che è il fil rouge di tutta la trasmissione. Il meteo non è il solo problema.

Qual è l'altro?

Girare di sera con quelle che sono le normali difficoltà di un programma qualunque, che però non ha uno studio riscaldato, ma ha un freddo certe volte anche sufficientemente umido da mettere in difficoltà anche gli ospiti. È un programma sofferto, però c'è una soddisfazione massima nel progetto.

Hai aperto questa stagione con Don Filippo Di Giacomo. 

È la seconda voce della Chiesa. Un personaggio di grande spessore, sconosciuto al grande pubblico. Ci sono due grandi rappresentanti delle telecronache e delle dirette papali e lui è uno di questi due, ma ovviamente compaiono pochissimo in video, li senti come voci. Quindi partire con uno sconosciuto, seppur di grande qualità, poteva risultare anche un rischio. Io invece l'ho voluto giocare perché innanzitutto per i valori del programma, per il momento storico della vita di ognuno di noi, partire con Eraclito e portare un prete che ci spiega che cosa vuol dire il senso della vita è perfettamente sintonizzato a quello che viviamo al di là del programma. Questo è la cosa decisiva, secondo me, della sintonia tra programma e attualità.

Una sequenza della prima puntata della nuova edizione di Finché la barca va (Rai3, 2025)
Una sequenza della prima puntata della nuova edizione di Finché la barca va (Rai3, 2025)

C'è un filo rosso ecclesiastico nelle prime puntate delle due stagioni: nella scorsa avevi aperto con Monsignor Paglia. È casuale?

No, non è un caso. Io mi ero reso conto che forse sono influenzato da due cose che non c'entrano nulla, ma c'entrano molto. Sulla barca c'è un ulivo. Questo è l'anno santo. Viaggiamo sul Tevere e passiamo davanti a San Pietro che viene citato e sottolineato ogni volta a fine del nostro percorso. E a fine del nostro percorso in barca c'è anche il metaforico fine percorso di tutti noi, perché nell'ultima parte della trasmissione si parla soltanto di cosa succederà di là, o come immaginiamo il di là, o quanto vogliamo stare ancora di qua. Quindi tutto questo viene corroborato, ovviamente, con la presenza della fede. Nella prima puntata la fede è protagonista più di altre puntate dove invece, come stasera, arriva Clemente Mastella che ha la fede politica, ma è pur sempre un cristiano, è un laico. Quindi non è un caso.

Il programma tecnicamente come funziona? È in diretta?

È in una diretta differita perché io l'avrei voluto fare anche in diretta, ma non c'era la garanzia che sotto i ponti il segnale non sganciasse. Quindi lo facciamo nelle condizioni di una diretta, poi qualche piccolo ritocco lo faccio perché quando una domanda o una risposta sono lunghe o non sono precise e chirurgiche preferisco alleggerirle. È soltanto un aggiustamento di pulizia, ma non certo un montaggio vero. Il montaggio vero lo facciamo nella diretta e in una scaletta fluida di domande che ci portino comunque verso il finale seguendo un percorso.

Tra le novità di quest'anno c'è Patrick Facciolo che analizza le strategie comunicative dei politici. È l'ultimo "personaggio chiambrettiano"?

Non fa parte del circo mediatico di un tempo, ma certamente fa parte di quella nuova generazione di figure che attraverso il web, attraverso lo studio, ha preso spazio. Non è l'influencer che ti dice come comprare la marmellata o non usare gli zuccheri. Facciolo è un professore, innanzitutto, competente, che in pochi minuti ti riesce a dire quelle cose che sono davanti agli occhi di tutti, ma che nessuno riesce a tradurre. Non sarà l'unica sorpresa di quest'anno. Ce n'è anche un'altra che entra questa sera: l'utilizzo dell'intelligenza artificiale. Non ti dico come, ma la vedrai.

Patrick Facciolo in un momento di Finché la barca va.
Patrick Facciolo in un momento di Finché la barca va.

Come scegli gli ospiti, giorno per giorno?

Un giorno prima, due giorni prima, cerco di individuare quello che potrebbe essere un ospite che allo stesso tempo possa essere curioso, attuale, ironico, autorevole.

In questi giorni c'è stato un marasma televisivo con ospiti che si alzano e abbandonano gli studi. Sulla barca non può succedere, ma cosa ne pensi di questa tensione?

Penso che ci sia una tensione molto forte nel paese che si trasmette ovviamente sia all'automobilista che ti manda a quel paese solo perché gli hai preso il parcheggio, sia a cose più drammatiche, gente che spara, gente che perde completamente la bussola. E quindi anche la televisione, che è uno specchio rotto della realtà, porta a dei gesti che sono indubbiamente ingiustificati ma che rappresentano perfettamente la nevrosi del momento.

Facciamo i nomi a questo punto: vorresti Francesca Albanese sulla barca?

Ma perché no? Il problema è che se vuole andarsene prima che noi abbiamo attraccato sarebbe un problema perché dovremmo chiamare la capitaneria di porto per andare a raccoglierla. Il fiume non è ancora, come diceva il sindaco Gualtieri, pronto per i tuffi. Quindi è pericoloso buttarsi nel fango.

E gli altri protagonisti dei dibattiti televisivi degli ultimi giorni? 

Capezzone potrebbe andar bene, tra l'altro lui ha cominciato con me quando ancora lavorava al Partito Radicale, quando era ancora un radicale. Faceva il cabaret con me, della satira politica divertentissima. Quando lui non diventa acido è un personaggio assolutamente brillante. Le puntate di Markette fanno da testimone.

Daniele Capezzone negli anni di Markette (La7, 2004–2008)
Daniele Capezzone negli anni di Markette (La7, 2004–2008)

E oggi?

Oggi è diventato un direttore di giornale, ovviamente difende le posizioni del giornale, difende le sue posizioni e lo fa alzando sempre un po' la voce. E invece secondo me bisogna abbassarla. Cioè bisogna avere contenuti forti con voce bassa.

Si parla tanto di Pippo Baudo, ma anche tu hai scoperto e lanciato molti personaggi che oggi sono protagonisti. In tv o altrove.

Sì, ce ne sono diversi, però sai che la riconoscenza in questo mondo, nel mondo nostro, non è riconosciuta. Ma non è un problema perché in realtà io non voglio sentirmi l'inventore di niente. Anzi, tutti quelli che sono partiti con me in qualche modo hanno fatto un piacere a me perché lavorando bene ed essendo bravi hanno migliorato i programmi che ho fatto. Quindi la riconoscenza è pari: io riconosco il loro talento, loro hanno riconosciuto in me un possibile mentore sui loro inizi, ma questo fa parte del gioco.

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