Pierfrancesco Favino: “Il film Il Maestro è arrivato quando pensavo di essere in un punto morto della mia carriera”

Pierfrancesco Favino a Fanpage.it: “Viviamo in un Paese ossessionato dal vincere, ma noi siamo bravi soprattutto a stare insieme da sconfitti”. Poi confessa: “Il film Il Maestro è arrivato quando mi stavo chiedendo se ero ancora capace di fare questo mestiere e ne avevo ancora voglia”. Un attore per il biopic di Sinner, andando oltre il meme di Will Smith? “Al di là della diversità fisica, Massimiliano Caiazzo. Ha un futuro davanti”.
A cura di Eleonora D'Amore
1 CONDIVISIONI
Immagine

Pierfrancesco Favino è al cinema con il nuovo film di Andrea Di Stefano, dal titolo Il Maestro. Ospite a Fanpage.it, ha dichirato: "Viviamo in un Paese ossessionato dal vincere, ma noi siamo bravi soprattutto a stare insieme da sconfitti". Raul Gatti, il protagonista di questo road movie, è un ex tennista irrisolto e ammette che il ruolo è arrivato in un momento critico della sua vita: "Mi stavo chiedendo se ero ancora capace di fare questo mestiere e se ne avevo ancora voglia".

Scherza sul suo amore non ricambiato per il tennis — "Io al tennis voglio un bene dell’anima, ma lui mi stima" — e, proprio come i grandi tennisti come Jannik Sinner, affronta il peso delle aspettative: "Non dormo la notte prima di un film. È il desiderio di far bene e la paura di non essere all’altezza. Ma il pubblico questo non lo vede ed è giusto così". E sul biopic di Sinner, oltre il meme della scelta di Will Smith, dice la sua su l'attore che potrebbe interpretarlo: «Massimiliano Caiazzo. Al di là della diversità fisica, è uno che ha un futuro davanti".

Nel nuovo film di Andrea Di Stefano interpreti “il Maestro”, un ex tennista irrisolto. Ma nella vita vera tu ami il tennis, mentre lui ti stima. Come vivi questo “amore non corrisposto”?

Eh, un po’ ne soffro! (ride, ndr) Il tennis sa che esisto, ma non mi dà le stesse soddisfazioni che io do a lui. Nella scena tagliata giocavo pure bene, Andrea mi disse che dovevo avere uno stile da anni ’80 e non ho dovuto fare alcuna fatica perché io lì ero rimasto.

Il Maestro Raul Gatti è un uomo fragile, depresso, lontano dall’immagine del mentore perfetto. C’è l’affondo sulla depressione e la salute mentale. Quanto è difficile oggi guardarsi allo specchio e dirsi davvero felici?

Lo è in generale. Il film è ambientato nel 1989, prende in prestito l’esperienza di un bambino e uno sport che ti mette sempre di fronte a te stesso. Lui è un uomo che ha perso qualcosa, che non si accorge che il tempo è passato, che sicuramente ha dei grandi up and down e delle fragilità che appartengono un po’ a tutti. Il film si propone di raccontarlo senza cadere nel dramma, riuscendolo a fare mettendo l’accento sul fatto che queste due persone pensano che la felicità si possa trovare in una vittoria e invece probabilmente si può trovare anche in un incontro fortuito tra due poli opposti che si scoprono capaci di manifestare all’altro una parte di sé che li farà vivere meglio.

Il tennis, come la recitazione, è anche solitudine in un gioco corale. È una condizione che prediligi o a volte ti sta stretta?

La solitudine è un po’ codarda, te le aggiusti quando stai da solo le cose ma devi stare attento che non diventi una specie di culla nella quale ti puoi riparare. A me monologare non piace proprio, quello che amo moltissimo del mio mestiere è che si fa insieme. Il tennis invece è più spietato, hai sempre due avversari: quello dall’altra parte e quello dentro di te. In campo ci vai da solo, lo stesso succede nella vita, poi però ti rendi conto che davvero solo non sei.

Immagine

Ti è mai capitato di sentire la stessa pressione di un atleta?

Sempre. Non dormo le notti prima di iniziare un film. Pensavo che col tempo sarebbe passato, invece peggiora. È il desiderio di fare le cose bene, ma anche la paura di non essere all’altezza. Quando metti tanto di te in un progetto, è inevitabile. Non esiste una classifica, nello sport questo c’è invece.

Tu però hai le tue occasioni di competizione durante l'anno, come premi e concorsi.

Esiste il gusto delle persone, non è detto che il miglior film è quello che poi alla fine prende più premi o incassa di più. Puoi dire pure mi piace di più Alcaraz di Sinner, ma se Sinner vince, vince, non si può discutere.

La nuova promessa del tennis italiano è il piccolo Felice Menighella. Il vostro rapporto sul set si muove sull’asse padre – maestro. Nella vita giochi uno schema in difesa o in attacco?

Come uomo sono sempre stato ‘serve and volley’. La verità è che mi sono sempre preso i rischi del caso e quando ho sbagliato, mi son sempre detto che cosa non ho fatto per acchiapparla quella palla lì. Ci sono dei momenti in cui invece senti che energeticamente è bene che stai a fondo campo, ci sono pure dei momenti in cui in cui devi aspettare che l'altro si sfoghi e altri in cui decidi che è meglio non giocare la partita.

Immagine

E come padre?

Come padre, credo di voler lavorare perché le mie figlie prendano la strada loro, non la mia. Devo dire che le volte che che le vedo andare sulle loro gambe voltandomi le spalle non ho nostalgia di loro. Ho piacere di vedere che, insieme alla mia compagna, stiamo costruendo delle personalità che sono le loro nel desiderio che è quello per loro.

André Agassi, che nel suo libro, Open, afferma: “Vincere non cambia niente. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo". Sei d’accordo?

Vincere non cambia niente se poi non hai una sfida successiva, lo ha detto Sinner ultimamente quando ha dichiarato di sentirsi sempre il numero 2. Io prima di fare questo film sono arrivato a un punto in cui mi sembrava di essere arrivato a un punto morto, da un paio di anni. Mi ero sentito che quello che avevo fatto mi avevano portato riconoscimenti talmente importanti che mi sono dovuto domandare veramente perché lo faccio questo mestiere. Una volta che ti hanno detto bravo e ti hanno dato il premio, cosa c’è? Quella cosa che ha detto Agassi la capisco, la vittoria è quella cosa che poi col premio in mano torni a casa, lo appoggi sulla tua mensola, chiudi la porta e tu sei quello di prima, svuotato di quel desiderio. Ho incontrato il personaggio di Raul Gatti quando mi stavo domandando: sono ancora capace? Ho ancora voglia? Cosa c’è di me adesso che mi porta ancora di desiderare ad andare sul set?

E cosa ti sei detto?

Che mi piace tanto andare sul set e attraverso la vita di qualcun altro, mettere sempre più in discussione le mie certezze e fare scivolare qualche cosa di me a volte anche in maniera molto involontaria. E mi piace tanto quando qualcuno di sconosciuto per strada mi ferma mi dice mi sono tanto emozionato oppure soltanto divertito, ecco quella cosa lì per me è un po la vera vittoria.

La stessa cosa me l’ha detta Paolo Sorrentino quando mi ha parlato della vittoria dell’Oscar con La grande bellezza e della vertigine che poi ha faticato a tornare in quello che è venuto dopo.

Vabbè, Paolo sta su un altro livello (ride, ndr)

Però è un concetto che prima o poi appartiene a tutti in forme diverse, no?

Ma sai, soprattutto in una società come la nostra che ci sta spingendo sempre di più in maniera ineffabile verso l'idea del fatto che tu o vinci o non ci sei, sarebbe meglio guardarsi intorno per vedere che le persone capaci di di saper gestire la vittoria sono molto poche, sono molto sole e di secondi terzi quarti quindi siamo molto di più e probabilmente ci possiamo riconoscere gli uni negli altri più di quanto non possano valere i numeri uno. Resta questa ossessione per il fatto che si debba essere vincenti, cosa che poi secondo me culturalmente non ci appartiene.

Perché non ci appartiene?

Perché noi siamo bravi a stare insieme da sconfitti e i film più grandi che abbiamo fatto, che ancora sono nella memoria collettiva, sono film di perdenti, di persone che nelle difficoltà si sanno aiutare. Questo è il racconto dell'Italia. Non vuol dire che siamo degli scalcagnati e che non è non vinciamo mai. Vuol dire però che abbiamo secondo me come imprinting nazionale la solidarietà, che è una cosa che io non scambierei mai con l'idea di essere un Paese di spietati vincenti.

E dalla parte dei vincenti cosa vedi?

Ci sono grandissimi campioni che sono numeri uno e che lo sono da tanto tempo. Guarda Djokovic, la rabbia e la capacità di stare lì a 38 anni a vincere. Ecco quella cosa lì è una cosa che io non non conosco. Lo ammiro ma non mi fa pensare che potrei essere lui, ma non come vincente, proprio come approccio alla vita.

Novak Djokovic, Jannik Sinner
Novak Djokovic, Jannik Sinner

Simone Vagnozzi, coach di Jannik Sinner, ha detto che “Sinner gioca contro le aspettative di un Paese intero” e ancora “Tutti vedono la sconfitta, ma non vedono le notti in cui piangeva”. Quando hai una grande platea, come si gestiscono le aspettative e quanto se ne diventa schiavi?

Il pubblico non lo devi ingannare. Se hai messo tutto te stesso in un film, si sente. Se sei stato onesto costruisci un rapporto di fiducia. Io faccio un mestiere in cui lo sforzo non si deve vedere, come vale per Sinner. Da questo punto di vista, tantissime persone non hanno visto le volte in cui non mi hanno preso, le notti insonni e le volte in cui ho pensato di smettere.

A proposito di Sinner, ha scelto Will Smith come attore per il suo biopic. In un mondo dove ‘fa tutto Favino', come hai preso questa nomina? (ironica, ndr)

Ha fatto bene! (ride, ndr) Io posso fare solo Cahill, mi metto là col berretto e lo osservo per tutto il tempo. Andando oltre la somiglianza fisica, ti direi Timothée Chalamet, ma mi piacerebbe un italiano e allora Massimiliano Caiazzo, penso sia molto bravo, è uno di questa generazione che ha da dirci qualcosa. Ha un futuro davanti.

Woody Allen in Match Point dice: “La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo”. È davvero così? l’imprevedibilità della fortuna terrorizza?

La vita ti viene incontro se tu le vai incontro. La fortuna non ti dico che te la puoi creare ma puoi stare nei paraggi se passa. Ci credo nella fortuna però, perché se non fossi stato in alcune stazioni dove si sono fermati dei treni pronto a salire e a fare il viaggio bene, non staremo qui a parlare.

E ti terrorizza pensare che ha un’incidenza sugli eventi?

No perché non ci posso fare niente. Di fondo penso che te la costruisci tu un po’, ma lo dici a una persona che non ha mai avuto grandi “botte di fortuna”.

Ah no?

Beh no, mi sono costruito pezzo pezzo, sono 36 anni e i passaggi che ho fatto li ho fatti sempre come si facevano una volta. Ci sono state tante volte in cui alla stazione nemmeno ci arrivavo. La prima fortuna, quella vera, è che ho passione per quello che faccio.

Immagine

Guardando indietro, qual è stato il tuo match più importante? 

Ci sono stati tanti momenti in cui io avrei potuto abbassare la testa e dire basta. Quando si doveva fare Romanzo criminale, io stavo facendo un piccolissimo spettacolo a teatro in una di queste cantine romane. E mi dicevano: "Deve venire Michele Placido". Alla fine venne, stava preparando Romanzo criminale, e io ebbi la sensazione che proprio non gli era piaciuto lo spettacolo. E alla fine mi arrabbiai moltissimo con me stesso, pensai di aver sbagliato tutto. Poi mi chiamò dopo, ma io rimasi arrabbiato con me stesso perché in quell'occasione avevo perso la lucidità, avevo perso la misura di chi ero. Ho risposto?

Non proprio. Ti chiedevo del match più importante che senti di aver vinto nella vita, anche contro te stesso.

C'è stato un momento in cui, contrariamente a tutto quello che c'era intorno, sentivo che io potevo fare di più, cioè mi sentivo pronto per fare dei ruoli che non mi venivano mai offerti. Non avevo una lira, facevo altri mestieri per vivere, dal buttafuori al cameriere alle consegne. Però capii che se non avessi smesso di aver paura di rimanere senza soldi, pur di far capire agli altri che avrei potuto affrontare un ruolo più importante, mi avrebbero sempre proposto ruoli secondari. E quindi la più grande sfida è stata non avere come pagare l'affitto e come pagare le bollette e credere nel fatto che avrei potuto convincere qualcuno di fare ruoli più importanti.

1 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views