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Mario Martone a Fanpage: “Mimmo Jodice figura carismatica e speciale, il prossimo film su Goliarda Sapienza”

Mario Martone è autore del documentario su Mimmo Jodice, in onda in seconda serata su Rai3. Un racconto per immagini di un grande artista, un fotografo, che è riuscito a raccontare Napoli “portando sé stesso dentro la città”. Il regista racconta in questa intervista come l’idea di un film parta da un’immagine “capace di convincermi a partire per un nuovo viaggio”.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Mario Martone e Mimmo Jodice, foto da Un ritratto in movimento
Mario Martone e Mimmo Jodice, foto da Un ritratto in movimento

A Mario Martone interessano le immagini. Se ne trova una che lo convince, che riesce a dirgli qualcosa, allora si prepara per partire per un altro viaggio e per girare un nuovo film. Non cerca il semplice gesto; cerca il contenuto e la sostanza delle cose e del mondo che lo circonda.

Con Un ritratto in movimento, il 22 dicembre in seconda serata su Rai3, ha messo insieme la storia e le immagini della vita e della carriera del fotografo Mimmo Jodice creando qualcosa di totalmente diverso. Più puro, in un certo senso, e più sincero. Un racconto pieno di silenzi e pause, di lunghe inquadrature e di movimenti leggeri, impercettibili, che rendono tutto – anche la scena più lineare – più profondo e ricco di significato. Il cinema, dice Martone, è una questione di studio, proprio come la fotografia. E non si smette mai di imparare, mai. Perché finché c’è curiosità, c’è voglia di proseguire e di andare avanti.

Nelle fotografie di Mimmo Jodice, ci sono tante cose. E in qualche modo c’è pure Martone, con la sua giovinezza, la sua adolescenza, gli amici di sempre e una Napoli che mutava, si trasformava, mossa dalla voglia di essere altro: non migliore, ma più intimamente sé stessa. Il suo documentario su Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama, resta un’eccezione: qualcosa che voleva fare e che, per essere terminato, ha richiesto l’abilità artigianale di assemblare, dividere e rimodellare. Il prossimo film è in dirittura d’arrivo, le riprese sono previste per la fine dell’estate. Lo sguardo di Martone si posa tutt’intorno e non si ferma mai.

Un ritratto in movimento, racconta, "è partito da una proposta di Roberto Koch, il direttore di Contrasto, la casa editrice specializzata in fotografia" e ancora: “Ha curato una mostra a Torino, alle Gallerie d’Italia, e voleva che ci fosse un dialogo tra un regista e le fotografie di Mimmo Jodice. E così mi ha chiamato. Non le nego che mi ha fatto molto piacere. Conosco il lavoro di Jodice e lo seguo da tanti anni. Mi ricordo ancora quando, da ragazzino, lo vedevo alla galleria di Lucio Amelio a Napoli".

Quindi il primo passo è stato l’invito di Koch. 

Nel documentario, lo spazio che riguarda l’esposizione alle Gallerie d’Italia dura circa un quarto d’ora, non di più. C’è solo la parte in cui ho filmato Mimmo. Per andare avanti con il resto del film ho deciso di sentire Luciano Stella, che ha prodotto Nostalgia con Mad Entertainment, e di proporgli di approfondire ulteriormente la storia e la carriera di Jodice. Quando alla squadra produttiva si è aggiunta anche Rai Documentari, questo viaggio è finalmente cominciato.

Facciamo un passo indietro e torniamo per un momento al primo incontro tra lei e Jodice.

Già nel ‘77, quando avevo 16-17 anni, frequentavo le gallerie in cui Mimmo Jodice esponeva le sue opere. Eravamo giovani, io, Toni Servillo e altri amici, e ci piaceva interessarci di queste cose ed essere parte di questa realtà. Andavamo a scuola ed eravamo attratti dal fermento che c’era nella Napoli di quegli anni. Spesso capitava di incontrare grandi artisti come Jodice.

Lei da che cosa era incuriosito?

Gli anni in cui ho conosciuto Jodice e in cui ho avuto modo di vedere per la prima volta le sue immagini erano anni di impegno politico. Trovavo affascinante questo fotografo che, da artista, fotografava altri artisti. Era una cosa che mi attraeva. Anche io volevo avere lo stesso sguardo. Condividevamo, se vuole, lo stesso DNA: quello di chi si avvicina a una determinata disciplina spinto dal desiderio di ricerca e dalla voglia di mettersi in discussione e di rifiutare qualunque omologazione. Ecco, tutto questo per me era affascinante. Mimmo era una figura carismatica e speciale. E anche questo ha contribuito alla mia decisione di filmarlo.

È importante, ha detto, raccontare chi fa fotografia come Mimmo Jodice in un momento in cui siamo sommersi da immagini svuotate del loro senso. Crede che lo stesso discorso possa adattarsi anche al cinema?

Certamente. Il nodo per chiunque si occupi di immagini oggi, dal cinema alla fotografia fino alla pittura, è lo stesso. Siamo passati da un tempo in cui l’immagine poteva letteralmente esplodere e un artista non voleva altro che crearne di nuove e potenti a un tempo in cui c’è una democratizzazione estrema dei mezzi.

In che senso?

Nel senso che oggi chiunque, se vuole, può produrre un’immagine. E quindi è chiaro che viviamo in un tempo diverso. A me non piacciono le sentenze, e non voglio certamente dire che questo tempo sia peggiore del precedente. I tempi sono sempre in evoluzione e le cose cambiano costantemente; bisogna capire il tempo in cui si vive, o anche non capirlo, perché no, e in qualche modo farne parte.

Qual è, allora, la sfida?

Trovare il modo per creare un’immagine con un senso e un significato assoluti. Guardare il lavoro di Mimmo Jodice, che fotografava prendendosi tutto il tempo di cui aveva bisogno, significa fare i conti con un tempo lontano rispetto al nostro e con noi stessi. È fondamentale arrivare alla consapevolezza che un’immagine non è solo una sintesi estetica di qualcosa, ma che è anche portatrice di un valore preciso. Dobbiamo chiederci perché, ecco la sfida.

Per scattare una fotografia, a volte, possono volerci settimane intere, come faceva Jodice, oppure pochi secondi. Perché interviene l’istintività.

Non mi pare però che questa cosa si adatti alla seconda parte della carriera di Jodice. Certo, in quanto artista può essere preso dal furore creativo e dunque può arrivare anche il momento in cui le immagini si presentano in maniera più vorticosa. In ogni caso, c’è sempre un grande studio che sconfina quasi nella meditazione. E questo credo che renda abbastanza speciali le foto di Mimmo Jodice. Perché si possono guardare a lungo e invitano a trovare un tempo interiore.

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E nel suo caso, per quanto riguarda l’immagine del cinema, dove si trova l’equilibrio tra il furore del momento e lo studio del set?

È difficile dare una risposta razionale a questa domanda. Diciamo che non comincio un film se dentro di me non si forma un’immagine capace di convincermi a partire per un nuovo viaggio. E se non si forma la possibilità di questo viaggio, e anche se magari mi viene proposto un bel soggetto o un libro che apparentemente si adatta a quello che sono, diventa tutto più difficile. Con Morte di un matematico napoletano, sono partito dall’immagine della porticina della casa di Caccioppoli, a Palazzo Cellamare, dove vivevo da ragazzo.

Che cosa la colpiva di questa porticina?

La vedevo dalla mia stanza. Ma non aveva nessun valore estetico: era piccola, di legno e marrone. Probabilmente, però, per me aveva una grande risonanza fantasmatica, perché dietro a questa porta aveva vissuto un uomo che mi incuriosiva e che volevo raccontare. E poi perché quella stessa porticina rappresentava un periodo preciso della mia vita.

Che cosa significa partire per un viaggio?

Per chi fa cinema, significa inanellare immagini. Spesso si parla del rapporto che il cinema ha con la letteratura, ma si dovrebbe parlare anche del rapporto che il cinema ha con la fotografia. Dopotutto, il cinema è una sequenza di fotografie, una dietro l’altra.

Solo pochi mesi fa, ha firmato il bellissimo Laggiù qualcuno mi ama dedicato a Massimo Troisi. In Italia, il documentario come sta?

Mi sembra che stia bene. Non riesco a seguire con attenzione tutto quello che succede. Lavoro molto e il mio tempo come spettatore è estremamente ridotto. Ma nel documentario, in Italia, ci sono sicuramente delle eccellenze straordinarie. Penso a Gianfranco Rosi, Gianfranco Pannone, Costanza Quatriglio, a Sophie Chiarello che l’anno scorso ha fatto Il cerchio… Le sto facendo dei nomi a caso, manca certamente qualcuno. E poi non dimentichiamoci una cosa.

Mi dica.

Alcuni dei nostri registi, come Matteo Garrone e Leonardo Di Costanzo, nascono proprio come documentaristi. E questo tratto, nei loro lavori, si riconosce ancora. Anche per me, se vuole, c’è un aspetto documentario che conta molto. Teatro di guerra è un film di diversi anni fa: era narrativo, è vero, però aveva a che fare, come si dice oggi, con il cinema del reale. Mescolava la finzione e il documentario.

Nel documentario esiste una verità assoluta e oggettiva? O è impossibile non essere di parte quando si racconta?

Secondo me, c’è una parzialità assoluta. Il lavoro di un documentarista, dopotutto, è il lavoro di un regista. Ed è comunque un lavoro che richiede una scelta. Laggiù qualcuno mi ama è un documentario molto particolare. Sono stato costretto ad assemblare la mia presenza con i materiali che avevo a disposizione e quelli che ho ottenuto grazie ad Anna Pavignano. È stato un lavoro di evocazione. E l’immagine stessa di Massimo Troisi che alla fine viene fuori coincide con la mia visione.

La sua presenza non è stata anche un modo per partecipare in prima persona al racconto?

Mi sono messo in gioco perché non c’era Massimo. E visto che questo film avrei voluto farlo con lui, è stato importante essere presente. Ci tengo a dire una cosa, però: di solito non è così che mi muovo; è stata una decisione presa unicamente per questo film.

Una delle scene più belle del documentario su Jodice è quella in cui lo riprende mentre coccola la sua macchina fotografica, in cui sembra quasi un bambino che gioca.

Qualunque artista è come un bambino. Dovessi darle una definizione, le direi che un artista è qualcuno che non ha perso la propria infanzia e che continua a coltivarla dentro di sé. E quindi anche se questo artista ha 90 anni, come Mimmo, intorno a lui resiste una dimensione di gioco. I nostri stessi strumenti, nel mio caso il cinema, nel caso di Mimmo la fotografia, sono come dei giocattoli.

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E questo che significa?

Significa che, come i bambini, abbiamo sia il desiderio di averne cura sia il desiderio di volerli capire. E per capirli, a volte, siamo quasi portati a distruggerli, a scassarli. In questo modo, possiamo vedere come sono fatti dentro. Per non parlare, poi, della serietà che i bambini mettono nel gioco.

Che tipo di serietà è?

Una molto più grande di quella che possono avere gli adulti per le cose di ogni giorno.

Prima o poi, si arriva a un punto in cui si smette di imparare, in cui la propria materia, il proprio strumento, sono chiarissimi?

Se cominci a provare questa sensazione, vuol dire che non hai più niente da dire e da fare. Lavori perché c’è un confine che puoi spostare, un territorio che puoi esplorare o qualcosa che ancora ti incuriosisce e che vuoi capire. Non credo che questo momento arrivi mai per un artista. Nessuno, secondo me, può dirsi completamente soddisfatto e arrivato.

Non si mette mai un punto?

Il punto conclusivo lo mette la vita. Tutto, inevitabilmente, finisce. Come dice anche Mimmo Jodice nel documentario, però, si ha sempre voglia di ricominciare e di ripartire da zero.

Secondo lei, nelle immagini di Mimmo Jodice cos’è che ritorna sempre? Napoli?

Devo dirle la verità, non sono un appassionato di questa immagine di Napoli che viene vista e ammirata. A me interessa lo sguardo da Napoli e non quello su Napoli. È una posizione diversa. Mimmo Jodice ha sì esercitato uno sguardo su Napoli, e ci mancherebbe, ma ha soprattutto avuto uno sguardo da Napoli, portando sé stesso dentro la città. E in questo si riconoscono la sua unicità, il suo mondo e ciò che ha creato con le sue fotografie.

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Crede che la stessa cosa valga anche per lei?

Mah, guardi, non lo so. Non faccio il critico di me stesso. (ride, ndr)

Prima mi diceva che lei parte sempre da un’immagine per un nuovo film. Ha già trovato la prossima?

Sì, certo. E infatti in questi giorni sto facendo i primi sopralluoghi. Dovrei cominciare le riprese entro l’estate.

Può dirmi qualcosa di questo nuovo progetto?

È un film che ha a che fare con un episodio della vita di Goliarda Sapienza, alla quale io e Ippolita Di Majo avevamo già dedicato uno spettacolo teatrale, Il filo di mezzogiorno. Questo film, però, riguarda una storia completamente differente.

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