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Adriano Pantaleo: “Noi ce la siamo cavata, ma credevamo che Paolo Villaggio fosse solo Fantozzi”

Intervista all’attore Adriano Pantaleo, storico bambino prodigio protagonista di “Io speriamo che me la cavo” che ha ideato il documentario “Noi ce la siamo cavata” che risponde alla domande delle domande: che fine hanno fatto i bambini del film di Lina Wertmüller?
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Ma che fine hanno fatto i bambini di Io speriamo che me la cavo? Questa è una delle domande che persino Adriano Pantaleo, indimenticabile Vincenzino del film tratto dal bestseller di Marcello D'Orta, si è posto per tanto tempo. Dall'incontro con il regista Giuseppe Marco Albano, nasce quindi "Noi ce la siamo cavata", docu-film sulle vite dei ragazzi del film di Lina Wertmüller con la colonna sonora di Roberto G. Pellegrino, disponibile on-demand sulle principali piattaforme in collaborazione con CG Enternainment. Adriano Pantaleo ha raccontato la genesi di questo documentario a Fanpage.it.

Ex bambino prodigio, oggi attore tra i più presenti tra teatro, cinema e tv – dal Natale in casa Cupiello di Edoardo a La vita bugiarda degli adulti, fino all'imminente Mixed by Erry di Sydney Sibilia –, Adriano è anche regista e imprenditore teatrale. È infatti tra i fondatori del Nest – Napoli Teatro Est, un'oasi nel deserto culturale dell'area industriale di Napoli (dove esordirà a breve con una nuova produzione: "Il berretto a sonagli ‘a nomme ‘e Dio", tratto dall'opera di Luigi Pirandello). L'attore, in una gradevole intervista, si mette a nudo e racconta quello che quel film ha rappresentato per lui e per i ragazzi che ne hanno fatto parte. Un'opera che ha segnato una generazione, che è diventata un classico e che ancora oggi crea interesse e seguito: "È un grande classico, un film che ancora oggi è attuale perché riabilita la filosofia del sud". 

"Noi ce la siamo cavata" risponde alla domanda che tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo posti: che fine hanno fatto i ragazzi di Io speriamo che me la cavo. 

È partito assolutamente così. E, adesso che mi ci fai pensare, voi siete tra quelli che hanno provato a dare questa risposta negli anni. È una domanda che mi ha accompagnato quasi quotidianamente. Ogni qual volta mi riconoscevano, mi chiedevano che fine avevano fatto i ragazzi di quella 3a B di Corzano. Me lo chiesto anche Giuseppe Marco Albano, il regista del docufilm. Ci siamo incontrati per caso a un festival dove io presentavo un mio corto e ci siamo continuati a sentire, fino a decidere di unire i fili, raccontare queste storie di uomini e donne a trent'anni di distanza. Storie che sono anche di una città, di un paese, di una società che è cambiata. Sono stati quattro anni di lavoro molto intensi.

Adriano Pantaleo mostra una copertina di "Io speriamo che me la cavo" in una scena del docufilm.
Adriano Pantaleo mostra una copertina di "Io speriamo che me la cavo" in una scena del docufilm.

È un documentario su cosa vuol dire essere bambini prodigio. 

È complicatissimo attraversare tutte quelle fasi che una vita ti mette davanti, è difficile diventare uomini portando avanti il talento e la passione. Da bambino prodigio che ce l'ha fatta, io penso che la maggior parte di quelli che si fermano non è per l'affievolirsi di quel talento che prima c'era, ma soprattutto perché la vita ti mette di fronte a bivi, scelte e complicazioni, di momenti in cui tenere la bussola diventa complicato.

Qual è la storia che ti piace di più dei ragazzi di Io speriamo che me la cavo? 

La storia che mi piace di più è quella di Mario Bianco, che è l'ex bambino cicciottello della classe, Nicola. Tutti si ricordano di lui per essere il bambino della "prima brioche", della "seconda brioche" e la cosa più divertente è che la sua vita è rimasta nella brioche. Ha aperto due cornetterie, esportando di fatto il concetto dei cornetti di notte, e un ristorante a Torino.

Paolo Villaggio e i bambini del film. A destra di Paolo Villaggio, Mario Bianco.
Paolo Villaggio e i bambini del film. A destra di Paolo Villaggio, Mario Bianco.

Nel docu-film rivediamo anche Ciro Esposito, anche lui oggi attore apprezzato. 

Ciro Esposito è un grande amico che ho incontrato più volte artisticamente, poi c'è un'altra bella storia che è quella di Dario Esposito con cui sono diventato parente. Perché mia madre e sua madre sono diventate molto amiche negli anni di Io speriamo che me la cavo e lui ha finito per innamorarsi di mia cugina Alessia. Oggi sono sposati, vivono a Piacenza, lui è un militare, lei è un'ostetrica, hanno due figli fantastici, i miei nipoti.

Con gli altri, invece? 

Con tanti altri non mi vedevo da trent'anni e i nostri incontri registrati nel documentario sono tutti sinceri, le reazioni sono vere, sono reali. Andavo a trovarli ma non gli dicevo che c'era con me una troupe, quella è una parte sincera e onesta del documentario.

Ci sono invece tre ragazzini che in età adulta hanno incontrato il carcere. Come avete scelto di raccontare queste storie? 

Quelle storie un po' difficili le abbiamo raccontate con grande tatto. A noi non interessava né avere uno scoop né raccontare morbosamente un incidente di percorso. La vita è fatta di questo. Loro sono stati molto gentili a raccontarci le loro storie e la cosa più bella è che adesso sono andati avanti, si sono messi alle spalle quegli incidenti, hanno pagato le loro pene e oggi ognuno sembra aver trovato una nuova strada.

La cosa più divertente che emerge dal documentario è il fatto che voi bambini vi aspettavate la maschera Fantozzi e invece avete conosciuto il rigoroso e severo Paolo Villaggio. 

Noi eravamo quasi scioccati. Immagina noi bambini tra i sette e i dieci anni, vedevamo Fantozzi in televisione e per noi esisteva solo lui. Pensavamo di incontrare una persona che ci parlava come parla Fantozzi (imita la voce di Fantozzi, ndr). Invece, troviamo un grande professionista. Si era proposto lui al produttore Ciro Ippolito, dopo quarant'anni di carriera si sentiva pronto a un film del genere: "Ho saputo che state lavorando su questa storia, datemela perché la voglio fare". Quindi, puoi immaginare quanto lui fosse concentrato sul set. Però, con noi è sempre stato molto carino e a fine giornata, se eravamo stati buoni, ci faceva sempre Fantozzi.

Tua figlia ha visto Io speriamo che me la cavo?

2100 volte. Ha visto tutti i film che ho fatto da piccolo, ma Io speriamo che me la cavo è il suo preferito. È un cult, un classico. È un film senza tempo e che ha anche battute che ritornano, come quella dell'anziano che ospita il personaggio di Paolo Villaggio, che dice alla bambina di un anno che inizia a camminare: "Ma che ti credi che la vita è questo? Un passettino avanti e uno indietro? La vita è cacamiento ‘e cazzo". Che se ci pensi è una cosa tremenda da dire a un bambino, che però racchiude dentro un'amarezza che la vita ti dà.

Adriano Pantaleo e Lina Wertmüller in una sequenza del docu-film "Noi ce la siamo cavata".
Adriano Pantaleo e Lina Wertmüller in una sequenza del docu-film "Noi ce la siamo cavata".

Nel finale, un po' a sorpresa, c'è anche Lina Wertmüller, credo sia l'ultimo documento video che ce la mostra in vita. 

È stata un'ultima chiacchierata bellissima. Lina è tra le persone che mi porto nel cuore. Oltre ad averla incontrata e reincontrata più volte professionalmente, è stata una persona che ho frequentato periodicamente nella mia vita. Avevo il privilegio di avere il suo numero diretto, di salire spesso su a Roma, nella sua casa di Piazza del Popolo, e ci siamo sempre fatti delle bellissime chiacchierate. Per me, è sempre stata un punto di riferimento importante. Basti pensare che appena ho scoperto di aspettare la mia prima bambina, Margherita, una delle prime persone a cui l'ho fatto sapere è stata lei.

Cosa ti disse? 

Una cosa bellissima. Questa cosa che ti sta succedendo è favolosa, ti cambierà la vita ma soprattutto ti cambierà il modo di vedere e intendere il tuo lavoro.

Ma Adriano Pantaleo, alla fine, se l'è cavata?

A me piace dire: me la sto cavando, voglio ancora cavarmela a lungo. La vita ci mette continuamente davanti a delle sfide e il nostro compito è affrontarle nel miglior modo possibile. Me la voglio cavare per molto, molto tempo.

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