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Siria: ricostruire le origini della rivolta quasi un anno dopo

A quasi un anno di distanza, ripercorriamo le tappe fondamentali della rivolta in Siria, tra repressione, propaganda di regime e “speranza”. Dalle prime manifestazioni a Damasco fino ai cruenti episodi degli ultimi giorni.
A cura di Enrico De Angelis
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Un dissidente siriano una volta mi ha detto che da quando le rivolte sono cominciate in Siria il tempo passa più velocemente che nel resto del mondo. Se al di fuori è passato un giorno, all’interno dei confini è come se fosse passata una settimana. È difficile pensare che un anno fa quello siriano fosse uno dei regimi più stabili del Medio Oriente. Il presidente Bashar al-Assad sembrava godere di un consenso che altri dittatori mediorientali, a cominciare da Hosni Mubarak, non avevano. Il disagio economico non aveva ancora raggiunto il limite massimo di sopportazione come in Egitto. E infine, la posizione geopolitica della Siria poneva più di un ostacolo a una possibile rivolta. Per anni il regime siriano aveva costituito la sola certezza in un’area percorsa di incognite e problemi: il caos dell’Iraq dopo l’occupazione americana, la fragilità del Libano con le sue intermittenti guerre civili, Israele e l’occupazione della Palestina. Nessuno voleva, e per molti versi nessuno ancora vuole, una caduta improvvisa e violenta del regime siriano, neanche tra le potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Impossibile pensare a un passaggio di regime “calcolato”, impossibile prevedere cosa succederebbe se il regime quarantennale regime degli Assad dovesse crollare.

Queste certezze sono crollate una a una. Nessuno si aspettava che la rivoluzione siriana potesse raggiungere simili proporzioni e svilupparsi in questo modo. A un anno dallo scoppio delle rivolte, cominciate nel Marzo del 2011, la Siria appare oggi sull’orlo di una guerra civile. La repressione del regime nei confronti dell’insurrezione in questi ultimi giorni ha raggiunto il suo apice. Il bombardamento prolungato della città di Homs, una delle roccaforti dei “ribelli”, sta mietendo centinaia di vittime. Pochi giorni prima, l’insuccesso e il ritiro degli osservatori della Lega araba, dopo aver ammesso la propria incapacità ad arginare le violenze. Poi il mancato accordo per una risoluzione ONU su iniziativa della Lega araba che chiedeva le dimissioni di Bashar al-Assad e l’inizio di un processo di transizione verso la democrazia. Risoluzione che, pur escludendo l’intervento armato, viene bloccata senza mezzi termini dal doppio veto di Russia e Cina.

Mai come oggi gli occhi sono puntati sul lato armato della rivolta, quell’esercito siriano libero (ESL) costituito prevalentemente di disertori dell’esercito regolare che dal luglio 2011 si oppongono militarmente alla repressione. Gli Stati Uniti, pur escludendo un intervento armato diretto, pare comincino a pensare di sostenere l’ESL con armi e finanziamenti, con l’aiuto di Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Dall’altra parte, Russia e Iran continuano a sostenere il regime e a rifornire le armate di Bashar al-Assad. Insomma si sta profilando una sorta di “guerra per procura”, con dinamiche simili a quella del Vietnam negli anni sessanta o, per restare nel Vicino Oriente, sullo stile delle guerre civili in Libano.

La rivolta armata e la propaganda del regime – Quella che oggi si dispiega sotto i nostri occhi ha l’aria di una “profezia che si autoadempie”. Il regime ha sostenuto fin dall’inizio che la rivolta fosse armata, pilotata da elementi stranieri, frutto di un complotto internazionale e mossa da ragioni etniche: sunniti contro alawiti. Anche quando evidentemente non era così. Nella versione del regime, la repressione contro i manifestanti è sempre stata presentata come una lotta a degli invisibili “terroristi” e a non ben identificate bande armate. È stato lo stesso Bashar al-Assad, in un discorso tenuto al Consiglio del Popolo alla fine del marzo scorso, a fissare questa narrazione degli eventi, deludendo non pochi siriani che speravano almeno in un parziale riconoscimento del dissenso crescente nel paese e nell’apertura verso una via d’uscita pacifica che al tempo appariva ancora realistica. Oggi alcuni degli elementi che costituiscono la propaganda del regime sono divenuti realtà: è vero che la rivolta armata ha assunto un peso importante. È vero che l’intervento straniero è sempre più pressante, prima sotto forma di pressioni economiche e diplomatiche e forse da ora in poi anche sotto forma di aiuti militari. È vero anche che gli aspetti etnici dello scontro sono divenuti più evidenti. Gli alawiti, gruppo minoritario cui appartiene la famiglia di Bashar al-Assad, si sono quasi tutti schierati dalla sua parte, anche come risultato  dell’abile propaganda del regime che ha sempre dipinto la rivolta come diretta alla creazione di uno stato islamico al cui interno gli esponenti di altre confessioni religiose sarebbero marginalizzati o, peggio, perseguitati. Alcune delle bugie del regime si sono trasformate in, almeno parziali, verità.

Il vento della Primavera araba – Ma non è sempre stato così. La rivolta siriana è iniziata spontaneamente ed è ancora prevalentemente una rivolta autentica, portata avanti da cittadini siriani senza l’aiuto di nessuno. Le richieste dei manifestanti sono per lo più estranee a discorsi di tipo religioso: si chiedono libertà, democrazia, giustizia sociale. E, nonostante tutto, i manifestanti pacifici continuano a costituire il vero motore della rivolta. Tutto ha avuto in inizio in Tunisia ed Egitto. La rivolta siriana non sarebbe probabilmente mai avvenuta senza le precedenti Primavere Arabe. L’effetto domino in questo caso è lampante. Quando la cosiddetta Primavera Araba è cominciata nel Nord Africa, in Siria scatta qualcosa. Piccoli dettagli, ma che insieme disegnano un deciso cambio d’atmosfera. Quando ero a Damasco, nell’inverno del 2010, la trasformazione era evidente. È sufficiente guardare ai dibattiti che affollano i siti d’informazione in quel periodo: si commentano le notizie sulle insurrezioni contro Mubarak e Ben Ali, ed è facile passare da questi argomenti alla situazione in Siria. Quasi non te ne accorgi. In fondo i problemi sono e restano gli stessi in tutti i paesi arabi: corruzione, crescente differenza tra ricchi e poveri, umiliazioni quotidiane, mancanza di libertà, un’economia che declina apparentemente in modo inarrestabile. Si parla di Egitto e Tunisia, e in realtà si parla di Siria.

Il fenomeno non riguarda solo internet. Anche al di fuori della rete l’atmosfera sta visibilmente cambiando. La tradizionale remissività e apoliticità che ha sempre caratterizzato la popolazione sembra cominciare a sbriciolarsi. Atti di bullismo e prepotenza che prima erano tollerati a testa bassa sono ora accolti con crescente insofferenza. A febbraio vengono organizzate le prime manifestazioni, davanti alle ambasciate egiziana e libica, per esprimere solidarietà alla Primavera Araba. Poi è accaduto qualcosa che era impensabile fino a qualche mese prima: decine di persone a Damasco scendono in piazza a protestare contro la violenza di un poliziotto nei confronti del figlio di un negoziante. I manifestanti gridano “il popolo siriano non sarà umiliato”, che successivamente diverrà uno degli slogan più diffusi nelle proteste successive. Damasco è quindi la prima a muoversi, cosa che oggi può sembrare incredibile. Il 15 marzo gruppi di giovani si riuniscono al suq (mercato) Hamidiya: è la prima volta che vengono girati e sono diffusi in rete i filmati realizzati con telefoni cellulari. Al-Jazeera, la rete pan-araba del Qatar, uno dei canali più visti del mondo arabo, comincia immediatamente a trasmetterli, permettendo anche a chi non ha una connessione internet di sapere cosa sta succedendo. Il 16 marzo i parenti di alcuni prigionieri politici si riuniscono di fronte al ministero dell’interno. Le forze di sicurezza intervengono duramente, colpendo con forza i manifestanti e arrestandoli a decine. Piccoli gruppi di oppositori continuano a scendere in piazza, ma si tratta di un fenomeno ancora limitato. Finora a muoversi è stata unicamente la “società civile” damascena: una classe medio-alta di intellettuali e giovani che lavorano nel campo della cultura come giornali, organizzazioni civili, gruppi di diritti umani.

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La dinamica delle proteste è cambiata in quegli stessi giorni. Nella piccola città di  Deraa, nel sud del paese, un gruppo di bambini muniti di bombolette spray scrive sui muri slogan contro il regime. L’emulazione della rivolta egiziana è fin troppo chiara: le scritte sono copiate da slogan anti-Mubarak usati dai giovani egiziani del 25 gennaio. I bambini le hanno copiate direttamente dai report di Al-Jazeera. La reazione del regime è immediata: i bambini vengono arrestati. Il giorno successivo i genitori e le famiglie dei bambini scendono in piazza a protestare, incoraggiati da quella stessa atmosfera che si era materializzata qualche giorno prima a Damasco. Le forze di sicurezza intervengono, sparando: ci sono i primi morti. I funerali divengono occasione per manifestazioni ancora più ampie, e una repressione ancora più feroce. I villaggi vicini corrono a sostegno di Deraa. I manifestanti si contano a migliaia. È cominciata la rivolta siriana.

L'evoluzione della rivolta – Da Damasco l’insurrezione si sposta alla provincia, e alle elite si sostituiscono ceti medio-bassi. Si tratta molto spesso di quegli stessi settori della popolazione che prima costituivano il pilastro di sostegno del regime: contadini, operai, impiegati e piccoli commercianti che negli ultimi quindici anni sono stati abbandonati e penalizzati dalle riforme di liberalizzazione. Sono loro che hanno maggiormente risentito della crescente corruzione dei circoli di potere che gravitano intorno al regime e del taglio progressivo degli aiuti statali. Altre città e regioni si uniscono progressivamente alle proteste: Banyas, Nawa, Homs, Latakia, Idlib, Qamishli, Hama e tante altre. All’inizio le proteste nascono da esigenze diverse, localizzate: ogni regione ha le proprie richieste e le proprie lamentele contro il regime. Soprattutto, all’inizio non si chiede la caduta di Bashar al-Assad: gli slogan domandano la fine della corruzione, riforme, più libertà.

È la repressione feroce del regime a dare unitarietà a questa catena frammentata di sollevamenti. Ed è la repressione del regime a radicalizzare le richieste dei manifestanti. Man mano che i morti arrivano a decine, poi centinaia di manifestanti, la legittimità del presidente si sgretola progressivamente, e le manifestazioni divengono un’aperta rivolta contro Bashar al-Assad e il suo regime. Si tratta di un’insurrezione pacifica: nessuno all’inizio pensa di poter usare le armi contro l’esercito e le forze di sicurezza. Il controllo dell’esercito da parte del regime è totale, quasi tutti gli ufficiali sono alawiti e di fedeltà assoluta.

Ma anche questa storia comincia a cambiare: qualcuno comincia a prendere le armi per vendetta, cominciano le prime diserzioni individuali e la formazione di gruppi armati anti-regime. La profezia del regime diviene realtà e la guerra civile sembra avvicinarsi, anche se è ancora evitabile. Ma nel guardare la situazione attuale non bisogna dimenticare mai come la rivolta è cominciata e di chi è la responsabilità della sua parziale degenerazione.

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Enrico De Angelis è un ricercatore di comunicazione politica internazionale. Si occupa da anni di media (vecchi e nuovi) nel mondo arabo. Attualmente vive al Cairo, Egitto.
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