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“Siamo andati a combattere in Siria per un ideale: non siamo mercenari”

Hanno rischiato la vita per sconfiggere il Califfato nero. Alcuni di loro sono morti, come Lorenzo Orsetti, ucciso ieri dai jihadisti a Baghouz. Ma i volontari italiani che hanno combattuto lo Stato islamico adesso rischiano di essere considerati “socialmente pericolosi”. A Torino, il prossimo 25 marzo, i giudici dovranno decidere se far scattare contro cinque di loro misure di sorveglianza speciale. “Ci batteremo contro questa criminalizzazione – ha detto Davide Grasso a Fanpage.it – per la memoria dei nostri compagni caduti nella guerra contro l’Isis”.
A cura di Mirko Bellis
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Davide Grasso, l'attivista piemontese andato in Siria a combattere contro l'Isis
Davide Grasso, l'attivista piemontese andato in Siria a combattere contro l'Isis

“Molti di noi hanno dato la vita per combattere lo Stato Islamico. Ma in Italia vogliono trattarci come criminali”. Davide Grasso, cuneese di 38 anni, è andato a combattere l'Isis nel Kurdistan siriano. Come lui, sono una dozzina i volontari italiani che in questi anni si sono arruolati nelle fila delle Unità di protezione del popolo (Ypg), le milizie curde in prima linea contro il Califfato nero. Provengono dai centri sociali, dai movimenti No Tav o per il diritto alla casa. Alcuni hanno perso la vita nella battaglia per sconfiggere l'estremismo islamico, come Lorenzo Orsetti, ucciso dall’Isis ieri a Baghouz, l’ultima roccaforte jihadista in Siria. Lo stesso destino di Giovanni Francesco Asperti, il bergamasco di 51 anni morto il 7 dicembre scorso.

Una volta tornati in Italia, la maggior parte degli ex combattenti ha ripreso il lavoro che aveva prima di partire per la Siria. “C’è chi era operaio edile e continua a lavorare nei cantieri – racconta Davide – oppure c’è chi fa l’insegnante o sta concludendo gli studi”. Ad attenderli, insomma, non ci sono state celebrazioni né onori. Anzi. Davide Grasso e altri quattro volontari italiani, infatti, rischiano adesso di essere considerati “socialmente pericolosi”. A Torino, il prossimo 25 marzo, i giudici dovranno decidere se sottoporli a “sorveglianza speciale”, una misura indiziaria di pubblica sicurezza, proposta dal questore. Fanpage.it ha intervistato Davide per capire cosa ha significato per lui e gli altri andare in Siria e schierarsi al fianco dei curdi nella lotta contro lo Stato islamico.

Cosa vi ha spinto ad andare a combattere l'Isis?

Se avessimo voluto solo lottare contro l'Isis, lo avremmo potuto fare con l’esercito iracheno o siriano. Noi lo abbiamo fatto entrando nelle Unità di protezione del popolo curde (Ypg). Crediamo che il fondamentalismo islamico non si combatta solo con i bombardamenti aerei ma sia necessario costruire un altro tipo di società. Non deve essere solo la violenza a prevalere. Si devono dare risposte politiche e sociali, altrimenti l’estremismo dell’Isis è destinato a risorgere. La nostra è stata prima di tutto una decisione politica.

In questa decisione quanto è importante la lotta del popolo curdo?

I curdi siriani non chiedono l’indipendenza. Vogliono un’autonomia all'interno dell’unità territoriale della Siria. Cercano di costruire una nuova convivenza, un progetto confederale che comprenda tutte le popolazioni di quella regione. Un’idea di socialismo democratico che si contrappone in maniera netta alla mentalità settaria che ancora imperversa in Medio Oriente. Se non ci fosse questo ideale, non saremmo mai andati a combattere al loro fianco. Questo non vale solo per gli italiani, ma riguarda anche gli altri volontari da tutto il mondo che sono andati in Siria. E sono gli stessi valori che hanno spinto anche Lorenzo.

Che ricordo ha di Lorenzo?

Lorenzo non era un militante di alcun gruppo politico. Si definiva un libertario. Non si è limitato a fare discorsi astratti sulla rivoluzione ma ha voluto andare in prima persona a combattere per un'idea di socialismo. Era così forte il sentimento che lo legava a quella terra che voleva essere seppellito lì nel caso non fosse sopravvissuto. L’ultima volta che ci siamo sentiti, pochi giorni fa prima che fosse ucciso, mi ha detto che se avessi bisogno di qualsiasi cosa lui mi avrebbe aiutato. Ecco, Lorenzo vorrei ricordarlo così, come una persona dalla generosità straordinaria.

Cosa vi aspettavate al vostro ritorno in Italia?

Immaginavamo che qualcuno, nella magistratura e nella polizia, cercasse di gettare una macchia sul nostro operato. Ma noi non abbiamo commesso alcun reato. Il decreto Alfano è stato pensato per chi è andato a combattere nelle fila dello Stato islamico. Era cioè diretto a chiunque si fosse unito ad un’organizzazione terroristica. E le Ypg non sono mai state dichiarate un gruppo terroristico dall'Italia, né dall'Unione europea e neppure dalle Nazioni Unite. Solo la Turchia le considera un’organizzazione terrorista, per ovvi motivi.

Cosa succederà adesso?

La procura di Torino e di Cagliari non potendo accusarci di nulla ha scelto una strada molto più grave che è quella di rispolverare misure di prevenzione degne di uno Stato totalitario. Voglio sottolineare che quello che si aprirà il 25 marzo a Torino non è un processo. Non siamo imputati per alcun reato. Siamo “proposti” per le misure di sorveglianza speciale. Non ci sarà una sentenza ma solo un decreto che ci verrà notificato entro 15 giorni dalla polizia.

In cosa consistono queste misure di sorveglianza speciale?

Ci toglieranno il passaporto, la patente e dovremmo allontanarci dal luogo di residenza. Ma non solo: dovremmo rincasare obbligatoriamente alle 19 fino alle 7 del giorno dopo. Avremmo il divieto a riunirci con più di due persone, divieto di parlare in pubblico o partecipare ad iniziative politiche.  Tutte misure che richiamano l’epoca fascista e che credevamo superate.

Con quale stato d’animo affrontate la decisione dei giudici?

Al di là della nostra libertà personale ne va della reputazione delle forze siriane democratiche che in questi anni hanno pagato un tributo di migliaia di vite per sconfiggere lo Stato islamico. Per proteggere non solo sé stessi ma anche noi. Abbiamo intenzione di batterci contro questa criminalizzazione. Lo facciamo per la memoria dei nostri compagni caduti nella guerra contro l'Isis.

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