
Leoncavallo, Askatasuna. E ora si passa a Roma, con Spin Time. Negli ultimi giorni uno degli argomenti più dibattuti è quello degli sgomberi delle occupazioni storiche nelle città italiane. Dai centri sociali che hanno segnato gli anni della politica milanese e torinese, a quelli romani. Spin Time, nella capitale, è un nome noto: ci vivono 300 persone in emergenza abitativa, famiglie con bambini, e all’interno vi sono attivi progetti di solidarietà e mutuo soccorso. Anni fa balzò all’onore delle cronache per il fatto che addirittura l’elemosiniere del Papa, il Cardinale Konrad Krajewski, si calò nel vano del contatore elettrico per riaccendere la luce al palazzo, dopo che gli era stata staccata. Oggi Spin Time è nuovamente a rischio sgombero: si parla di un’operazione imminente, che potrebbe essere eseguita prima del 30 gennaio. Un’operazione che, secondo quanto emerge, riguarderebbe anche un altro stabile: quello occupato da CasaPound.
Il fatto che oggi lo sgombero di Spin Time venga accostato a quello di CasaPound non nasce dal nulla, ma è il prodotto di una retorica che si è sedimentata negli anni, portata avanti anche da una parte della sinistra. Una retorica che non è mai riuscita a costruire un vero ragionamento politico sul tema delle occupazioni, e che soprattutto non ha mai avuto la forza di difendere quelle esperienze. Tanto che, durante questi anni, di fronte agli sgomberi di spazi sociali o ai provvedimenti repressivi del Governo Meloni, la risposta di larga parte della sinistra è stata: “E allora quando sgomberate CasaPound?”. Questa domanda, posta sicuramente con le migliori intenzioni e con l'obiettivo di mettere in crisi le scelte governative, in realtà ha avuto l'effetto contrario. Perché implicitamente si è fatta passare l’idea che il problema sarebbe l’occupazione in sé. E oggi che lo sgombero di CasaPound sembra effettivamente possibile, emerge con chiarezza tutto il limite di quella impostazione. Che non ha mai messo in discussione la legittimità degli sgomberi, né ha aperto un conflitto politico sul loro significato. Al contrario, ha contribuito a rafforzare l’idea che tutte le occupazioni siano uguali e quindi ugualmente illegittime.
C’è poi un problema culturale e politico che da anni attraversa una parte significativa della sinistra: la sua deriva giustizialista ha portato con sé un'idea di ‘legalità' intesa come rispetto formale di regole e leggi che prescinde la riflessione politica su di esse e la possibilità di metterle in discussione, fino a disobbedire quando sono ingiuste o inique. Un'idea che sacralizza la forma ma che poi si perde la sostanza del discorso. Ed è proprio qui che si crea il cortocircuito, perché a costo di rispettare la regole senza nessuna riflessione a monte, si rinuncia a una linea politica di merito. Al contrario, se si parte dalla sostanza — ossia dai diritti primari e dalla tutela delle persone — è possibile fissare priorità politiche chiare senza restare intrappolati nell’ossessione per le norme, soprattutto quando sono ingiuste.
Eppure il nodo non è mai stato l’occupazione come pratica. CasaPound non dovrebbe essere sgomberata perché occupa uno stabile, ma perché è un’organizzazione con una matrice neofascista esplicita, che pratica e legittima la violenza e che, per questo, dovrebbe essere illegittima. Invece i suoi militanti hanno agibilità nel dibattito pubblico e spesso sono considerati anche interlocutori politici. I loro leader organizzano addirittura dibattiti razzisti con il patrocinio del municipio senza che si riesca a impedire loro l’uso di una sala pubblica. Confondere questi piani è stato grave e ha avuto conseguenze concrete: ha reso più facile legittimare lo sgombero di centri sociali e occupazioni abitative che, per anni, hanno prodotto cultura, costruito reti di solidarietà e animato il conflitto e il dibattito politico nelle città. Se l’obiettivo di chiedere lo sgombero di CasaPound era difendere queste esperienze beh, mi permetto di dire che non è stato centrato.
Ma l’organizzazione — che negli anni ha certamente perso smalto e che oggi tenta di riciclarsi aderendo alle teorie della deportazione di massa ormai diffuse nell’estrema destra internazionale — non scomparirà certo per questo. Il problema non è mai stato il palazzo di via Napoleone III, bensì le idee che CasaPound continua a promuovere. È su quella legittimazione politica e culturale che bisogna intervenire. Altrimenti parliamo del nulla.