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Tutto quello che non funziona nel sistema che divide l’Italia in zone rosse, arancioni e gialle

La decisione con cui il governo ha diviso l’Italia in zone rosse, arancioni e gialle ha lasciato uno strascico di polemiche. Molti governatori protestano per le restrizioni imposte ai propri territori, giudicate eccessive. Il braccio di ferro tra Stato centrale e regioni mette a rischio il funzionamento del sistema di chiusure differenziate, l’ultimo argine del Paese prima del lockdown. E la trasparenza dei dati su cui si basano le scelte per ora rimane un miraggio.
A cura di Marco Billeci
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Nelle ore successive al varo del Dpcm del governo e dell’ordinanza del ministero della Salute che divide l’Italia in tre aree di rischio per l’emergenza Covd, il dibattito si sta concentrando soprattutto sulla posizione delle diverse regioni. Perché la Campania è solo zona gialla, pur con dati dei contagi molto alti? E la Liguria si “merita” di stare al livello più basso della scala? La Sicilia sta davvero peggio del Lazio? E così via.

Sono domande legittime, che però ci distraggono dalla questione principale. Questo meccanismo di chiusure differenziate è l’ultimo argine che abbiamo prima di piombare nel lockdown generalizzato. Nella migliore delle ipotesi, ci accompagnerà per i prossimi mesi. Al di là delle classifiche di oggi, è importante capire come funziona questo sistema e da quali dati è alimentato.

Come dovrebbe funzionare il sistema di monitoraggio?

In prima battuta, la risposta sembra abbastanza semplice. Il meccanismo si basa su ventuno parametri usati dalla cabina di regia del ministero della Salute per valutare lo stato dei singoli territori. I dati – forniti ogni settimana dalle regioni – vanno dall’indice di trasmissione, l’ormai famoso Rt, al numero dei ricoveri fino alle cifre che fotografano la tenuta dei sistemi sanitari regionali. Su questa base, ogni quindici giorni il ministero della Salute disegnerà la situazione dei singoli territori, spostandoli nelle diverse fasce.

Questo schema presenta in realtà diversi punti critici. Il primo riguarda la trasparenza dei dati che alimentano le decisioni. Il premier Conte ha detto di aver chiesto al ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sanità di rendere accessibili gli indicatori del monitoraggio “alla comunità scientifica e a tutti i cittadini”. Purtroppo, nel momento in cui scriviamo, questa condivisione ancora non è avvenuta e anzi nella conferenza stampa dei tecnici che ha preceduto il varo delle misure, il direttore generale della Prevenzione del ministero Giovanni Rezza ha fornito solo indicazioni generiche e parziali. Senza un’adeguata pubblicità non solo dei numeri, ma anche dei processi per cui partendo da quei numeri si arriva a fare certe scelte, le polemiche sulla classificazione delle diverse regioni rischiano di ripetersi ogni due settimane.

La trasparenza è quindi un presupposto fondamentale per far girare la macchina, ma non basta. Quanto accaduto negli ultimi giorni ha reso evidente che l’idea di un meccanismo automatico, chiaro e accettato da tutte le parti in causa, per adesso è solo un’illusione. Eppure, i ventuno parametri di misurazione sono stati definiti dall’Iss già dall’aprile scorso. E il sistema di chiusure differenziate è scritto nero su bianco nel documento “Prevenzione e risposta al Covid 19”, messo a punto il 12 ottobre scorso da tutti i vertici della sanità italiana, con l’accordo dei rappresentanti delle regioni. Il testo definisce quattro scenari di rischio in base alla diffusione del contagio e le restrizioni che ne conseguono. Lo abbiamo spiegato in dettaglio qui.

Dal governo invitano a leggere quel documento come la bussola che orienta tutte le decisioni. Le cose però non sono così semplici. Intanto, viene da chiedersi perché se lo schema era stato deciso già a metà ottobre, sia stato messo in moto solo adesso, con venti giorni di ritardo. In secondo luogo, la sequenza dei fatti dimostra che quando si è trattato di tradurre in concreto linee guida teoricamente condivise, qualcosa è andato storto.

La battaglia con le regioni

Conte è andato in parlamento a illustrare le nuove misure nella giornata del 2 novembre. La firma sul nuovo Dpcm, però, è arrivata oltre 24 ore dopo, la notte tra il 3 e il 4 novembre. Il decreto, ricordiamolo, definisce le restrizioni imposte su tutto il territorio nazionale e quelle valide solo nelle aree arancioni e rosse. Prima di sapere in quali fasce fossero le diverse regioni, è passata un’altra giornata, fino all’annuncio del premier in conferenza stampa la sera del 4 novembre e alla successiva ordinanza del ministro Speranza che ha certificato le scelte. Il ritardo ha fatto slittare a venerdì 6 novembre l’entrata in vigore del nuovo regime.

Dal primo annuncio di Conte all’effettivo avvio delle misure, passeranno insomma cinque giorni, decisamente troppi per un sistema di risposta immediata all’emergenza. Perché è andata così? Detta semplice, le regioni si sono messe di traverso, al punto di arrivare a chiedere “un contraddittorio per l’esame dei dati”, con una lettera ufficiale firmata del presidente delle Conferenza delle Regioni Bonaccini, la sera del 3 novembre. Proteste e resistenze ancora più forti sono arrivate in pubblico e in privato dai diversi governatori, che fino all’ultimo hanno provato a contrattare un colore “migliore” per i propri territori.

Eccoci quindi al cuore della questione, che si trascina ancora in queste ore. Per il ministero della Salute il meccanismo di collocazione nelle diverse fasce è praticamente automatico: una volta che ci sono i dati e che la cabina di regia ministeriale li ha esaminati, l’assegnazione avviene di conseguenza. Per molti governatori, evidentemente, le cose non stanno così. Le valutazioni dell’Iss rappresentano solo un punto di partenza, su cui innescare un secondo livello di confronto – o di trattativa a volerla dire in modo più brutale – tra Stato ed enti locali. Questo confronto può portare anche a modificare le classifiche stilate dai tecnici.

La risposta di Conte

Interpellato da Fanpage in conferenza stampa, Conte ha provato a tagliare il nodo. “Le regioni hanno contribuito a definire il sistema, ne sono parte integrante”, ha detto. E ha spiegato che nel valutare gli esiti del monitoraggio, il ministro Speranza “non si è riservato una discrezionalità politica, a seconda della negoziazioni con la regioni. Una volta condiviso l’impianto tripartito di restrizioni, le conseguenze sono automatiche perché sono basate su criteri predefiniti e oggettivi, che sfuggono a qualsiasi contrattazione”. Il premier ha concluso la sua risposta in modo ancora più duro: “Non è possibile mettersi a negoziare e contrattare sulla pelle dei cittadini”.

Le parole di Conte, però, non hanno fermato le polemiche. Dal presidente della Lombardia Fontana a quello della Sicilia Musumeci, in molti continuano a contestare le decisioni del governo. La Calabria minaccia addirittura di impugnare l’ordinanza che la fa diventare zona rossa. Chiarire una volta per tutte come funziona il meccanismo, quanto c’è di scientifico e quanto invece è affidato a trattative politiche, diventa allora decisivo. Il pericolo altrimenti è che a ogni aggiornamento del monitoraggio, si torni ad assistere a questo braccio di ferro e rimpallo di accuse. Così le scelte che dovrebbero essere immediate ed efficaci arriveranno in ritardo, fuori tempo massimo.

Giocare coi dati?

C’è un ultimo rischio che va evidenziato. Come già ricordato, il sistema dei ventuno indicatori su cui si fondano le valutazioni dell’Iss è nutrito dai dati forniti dalle stesse regioni. Qualcuno ha sostenuto, dunque, che la battaglia dei governatori si possa spostare su questo campo. Ad esempio, il professor Andrea Crisanti ha avanzato l’ipotesi che gli enti locali possano aggiustare i dati per restare aperti. “Non ci vuole molto a fare questi piccoli aggiustamenti – ha detto Crisanti – basta non ricoverare o rimandare a casa persone che sono border line”. Oppure fornire numeri incompleti o aggiornati a seconda delle convenienze. È forse alludendo a questa ipotesi, che davanti ai giornalisti, Conte ha ricordato come i dirigenti dei dipartimenti di prevenzione regionali incaricati di alimentare il sistema dei dati sono pubblici ufficiali. E quindi responsabili penalmente di eventuali azioni dolose.

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