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Referendum 2025

Tutto quello che c’è da sapere sui quesiti sul lavoro per i referendum dell’8 e 9 giugno

In vista del referendum dell’8 e 9 giugno, un’analisi tecnica per votare con consapevolezza sui diritti di lavoratrici e lavoratori: dalla tutela contro i licenziamenti ingiustificati alla responsabilità solidale del committente negli appalti, fino all’obbligo di motivare il ricorso ai contratti a termine.
A cura di Roberta Covelli
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Con l’invito all’astensione da parte del ministro Tajani, il governo Meloni ha finalmente rotto il silenzio sui referendum dell’8 e 9 giugno. Alla dichiarazione del leader di Forza Italia hanno fatto seguito Salvini, La Russa e pure Donzelli, che ha bollato la consultazione come una "resa dei conti a sinistra". Ma davvero si tratta di questo? Decisamente no.

Un referendum è sempre un’opportunità di espressione della volontà popolare sull’abrogazione di determinate norme. Più che in altre occasioni, quindi, non basta la fiducia in un leader o in un partito, ma è necessario essere correttamente informati, nel merito, sui quesiti a cui si è chiamati a dare una risposta, così da potersi esprimere con consapevolezza.

I quesiti sono cinque. Uno riguarda il diritto alla cittadinanza e propone di dimezzare da dieci a cinque anni il periodo di residenza ininterrotta necessario per richiederla. Gli altri quattro intervengono su altrettanti aspetti del diritto del lavoro, e richiedono un approfondimento tecnico per comprendere le implicazioni dell’abrogazione proposta.

Primo quesito: resuscitare l’articolo 18 (o quel che ne resta)

Il primo quesito mira ad abrogare per intero il decreto legislativo 23 del 2015. Si tratta di uno dei decreti attuativi del Jobs act. Con questa riforma del governo Renzi si è istituito il cosiddetto contratto a tutele crescenti che si applica ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Il contratto a tutele crescenti è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato per nulla diverso dal normale rapporto di lavoro dipendente, se non per la disciplina sul licenziamento ingiustificato. Senza toccare direttamente l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, infatti, il Jobs act ha disposto la sua disapplicazione progressiva: man mano che il tempo passa, infatti, ci saranno sempre più lavoratori assunti dopo il 2015, a cui si applica il contratto a tutele crescenti, e sempre meno dipendenti assunti in precedenza, con il conseguente graduale abbandono del pur vigente articolo 18.

20 maggio 1970: la Costituzione entra nelle fabbriche

Ma che cosa prevedeva l’articolo 18? La norma è contenuta nella legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori, che risponde a un’esigenza che Giuseppe Di Vittorio aveva sollevato già nel 1952: era necessaria una carta dei diritti per i luoghi di lavoro, uno statuto tramite cui la Costituzione entrasse in fabbrica. In questo senso, lo Statuto dei Lavoratori rappresenta una pietra miliare nella storia del diritto del lavoro italiano: la prima parte del provvedimento riguarda la libertà e la dignità dei lavoratori, e si applica quindi a tutti, mentre le parti successive disciplinano l’esercizio di particolari prerogative sindacali, e si applicano alle unità produttive con più di 15 dipendenti e in ogni caso alle imprese con più di 60 dipendenti.

L’articolo 18 è collocato nella seconda parte della L. 300/1970 e si applica quindi alle imprese medio-grandi. Nella sua versione originaria, questa norma poneva una regola semplice e chiara: in caso di licenziamento ingiustificato, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro da cui è stato illegittimamente escluso, oltre al risarcimento del danno patito.

Una distinzione civilistica: ripristinare la situazione o dare del denaro?

Per comprendere l’importanza di un rimedio simile, bisogna conoscere una differenza posta dal diritto civile, quella tra risarcimento in forma specifica (o tutela reale) e risarcimento per equivalente (o tutela monetaria). Nel primo caso, il danno viene riparato ripristinando la situazione di fatto precedente all’atto illecito: un bene illegittimamente sottratto viene restituito, un immobile costruito abusivamente viene abbattuto. Il ripristino della situazione precedente all’illecito non esclude comunque il risarcimento dell’ulteriore danno patrimoniale o non patrimoniale eventualmente subito. Con la tutela per equivalente, invece, si rimedia al pregiudizio subito attraverso una somma di denaro.

Nel nostro ordinamento, il risarcimento in forma specifica è in linea di principio preferito perché consente di ristabilire direttamente il bene o il diritto leso, cioè di riportare la realtà materiale alla situazione che esisteva prima dell’illecito. In questo modo, la riparazione è piena, perché restituisce esattamente ciò che è stato ingiustamente tolto: la cosa, la posizione, il diritto. D’altro canto, il risarcimento per equivalente resta una soluzione per i casi in cui il ristoro in forma specifica sarebbe impossibile o troppo oneroso. Ma, proprio perché si limita a monetizzare la perdita, si configura come una forma meno intensa di tutela.

La versione originaria dello Statuto dei lavoratori prevedeva quindi una tutela in forma specifica, perché, di fronte a un atto illecito (cioè la violazione della L. 604/1966, che prevede la necessità di una giusta causa o di un giustificato motivo alla base del licenziamento), ne eliminava gli effetti, ristabilendo il rapporto di lavoro illegittimamente terminato.

Il governo Monti e la riforma Fornero: l’articolo 18 cambia faccia

L’articolo 18 ora vigente non è però quello del 1970. Dopo la crisi finanziaria del 2008, il dibattito sul diritto del lavoro si è intrecciato ancor di più con la politica economica e con le retoriche su competitività e modernizzazione. In questo contesto, è cresciuta la pressione per ridurre le cosiddette rigidità del mercato del lavoro, in particolare sul versante dei licenziamenti. In questo scenario si colloca la riforma Fornero, la legge 92 del 2012, varata dal governo Monti, che segna un primo, sostanziale arretramento della tutela reale.

Con la L. 92/2012, l’articolo 18 viene modificato, diversificando i rimedi contro il licenziamento ingiustificato, che possono riassumersi in quattro tipi di tutela.

  • La tutela reale piena, prevista per i casi considerati più gravi (licenziamenti discriminatori o nulli), prevede la reintegrazione nel posto di lavoro, il versamento dei contributi per il periodo tra il licenziamento e il rientro e un’indennità risarcitoria comunque non inferiore a 5 mensilità.
  • La tutela reale attenuata, nel caso in cui non ricorra il giustificato motivo per l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, prevede comunque la reintegrazione e il versamento dei contributi, ma l’indennità risarcitoria può arrivare a un massimo di 12 mensilità.
  • La tutela indennitaria forte, negli altri casi in cui non ricorra il giustificato motivo, lascia validi gli effetti del licenziamento, pur illegittimo; il rapporto di lavoro è quindi risolto ma il datore di lavoro condannato al versamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva fissata tra un minimo 12 e un massimo 24 mensilità.
  • La tutela indennitaria debole, nei casi di vizio di motivazione o di mancato rispetto delle procedure, prevede soltanto un’indennità omnicomprensiva determinata tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità.

Se al referendum dell’8 e 9 giugno il primo quesito ottenesse una maggioranza di sì, questa disciplina sarebbe applicata a tutti i dipendenti di imprese medio-grandi e non più soltanto a quelli assunti prima del 7 marzo 2015.

Il calcolo automatico (incostituzionale) della riforma renziana

La riforma Fornero ha quindi modificato profondamente l’articolo 18, ridimensionando il ricorso alla tutela in forma specifica e affiancandole dei rimedi meramente monetari nei casi considerati meno gravi. Questa modifica non è stata esente da critiche ed è stata corretta anche dalla Corte Costituzionale, sebbene non rispetto all’intento principale di riduzione delle ipotesi di reintegra: la Consulta, infatti, non può sindacare la discrezionalità delle scelte legislative, che possono anche peggiorare la tutela nei confronti dei lavoratori, purché non giungano al punto di contrastare direttamente i princìpi costituzionali.

In palese contrasto con questi princìpi era invece buona parte del decreto legislativo 23/2015, uno dei provvedimenti attuativi del Jobs act. Come già spiegato, istituendo il contratto a tutele crescenti, il governo Renzi stava riscrivendo la disciplina sul licenziamento ingiustificato, con l’intenzione di rendere quanto più prevedibile, per le imprese, il cosiddetto “firing cost”, ossia il peso economico derivante dal licenziamento di un dipendente.

In base alla versione originaria del Jobs act, salvo nei casi di licenziamento discriminatorio o nullo, al lavoratore ingiustamente licenziato sarebbe spettata un’indennità omnicomprensiva automaticamente calcolata sulla base dell’anzianità di servizio: due mensilità per ogni anno di servizio, comunque entro un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità (poi aumentate da 6 a 36 mensilità con il cosiddetto Decreto Dignità).

La libertà di licenziare già esiste, purché ci sia una giustificazione

Sul punto occorre chiarire un dettaglio tutt’altro che trascurabile: quando si discute di tutela contro il licenziamento, non ci si riferisce a un qualunque recesso datoriale dal contratto di lavoro, ma all’espulsione illegittima del lavoratore. Il licenziamento giustificato è perfettamente legale e non dà luogo a reintegrazioni o risarcimenti. Il licenziamento contro il quale sono previste tutele è quello illegittimo, in quanto nullo o ingiustificato: si tratta di un fatto illecito e proprio su questo si è soffermata la Corte Costituzionale con la sentenza 194 del 2018, la prima di una lunga serie di pronunce contro il decreto legislativo 23 del 2015.

La Consulta ha infatti sottolineato come il licenziamento ingiustificato sia un atto illecito. L’ordinamento può eccezionalmente prevedere che un atto illecito produca effetti ed è quel che è stato fatto con la riforma Fornero e con il Jobs act: dichiarando risolto il rapporto di lavoro nei casi in cui non è prevista la reintegrazione, il giudice dà seguito alla volontà illegittima del datore di lavoro. Sebbene questa scelta rientri nella discrezionalità del legislatore, la sanzione contro tale atto illecito deve almeno essere effettiva. L’indennità standardizzata prevista dalla riforma renziana non lo era: né era idonea al ristoro del danno subito dal lavoratore né aveva un effetto dissuasivo per orientare il comportamento dei datori di lavoro.

Che cosa resta del Jobs act dopo gli interventi della Consulta

La sentenza 194/2018 ha quindi abrogato il meccanismo cardine del contratto a tutele crescenti, ossia l’automatismo di calcolo dell’indennità. Pur restando vigenti i limiti minimi e massimi dell’indennità, torna al giudice il compito di determinare la misura dell’indennità, così potendo tener conto di altri fattori oltre all’anzianità di servizio, come la condotta datoriale, le dimensioni dell’impresa, la gravità dell’atto illecito.

A questa sentenza ne sono seguite altre, che hanno abrogato altri pezzi del decreto legislativo sulla base dei ricorsi arrivati. Di particolare interesse, almeno alla luce dell’imminente referendum, risulta essere la sentenza 183 del 2022, con cui la Consulta, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate, ha richiamato il legislatore alla necessità di armonizzare il quadro normativo, alla luce della coesistenza di diverse forme di tutela contro il licenziamento ingiustificato. Già nel comunicato stampa, la Corte spiegava come fosse "indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti, materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo".

Questo ufficiale invito a una riforma normativa sul punto rivela quanto la semplificazione della disciplina, prevista come obiettivo dalla legge delega alla base del Jobs act, sia stata tutt’altro che perseguita. La riforma renziana non solo non ha risolto le ambiguità esistenti, ma ha creato nuove complicazioni. L'attuale disciplina sulle sanzioni in caso di licenziamento ingiustificato è infatti tutt'altro che lineare: convivono negli stessi tribunali, così come nelle sedi di conciliazione, differenti procedure e diverse norme di riferimento, a seconda della data di assunzione del lavoratore ingiustamente licenziato.

Instabilità e minor potere negoziale: gli effetti logico-sociali del Jobs act

Sostanzialmente, poi, l’ulteriore riduzione dello spazio per la reintegrazione ha un impatto logico anche sulle prospettive di difesa e di esercizio dei diritti da parte dei lavoratori. Tutti i rimedi illustrati fin qui, infatti, non sono applicati d’ufficio, ma dipendono dai ricorsi giudiziari: il lavoratore che ritiene di essere stato ingiustamente licenziato impugna il provvedimento entro 60 giorni e deposita poi il ricorso in tribunale. Da lì, in caso di mancato successo della procedura di conciliazione, ha inizio il giudizio, al termine del quale arriva la sentenza.

Di fronte a questo scenario, bisogna mettersi nei panni della parte debole del rapporto: un lavoratore appena licenziato deve decidere se fare causa. La scelta dipende anche dalle possibilità di successo e da quale risultato si possa ottenere: meno forte è la tutela, meno la vittima di un atto illecito sarà indotta a chiedere giustizia, magari finendo per ottenere al massimo un’indennità di qualche mensilità, con la quale, in caso di compensazione delle spese di lite, dovrà anche retribuire chi gli ha garantito l’assistenza legale.

Queste riflessioni riguardano anche la possibilità di raggiungere o meno accordi stragiudiziali: se il datore di lavoro che ha ingiustamente licenziato teme di dover reintegrare il lavoratore, l’ex dipendente avrà una posizione negoziale più solida e maggiori probabilità di ottenere un accordo equo. Al contrario, se l’esito prevedibile è un’indennità contenuta, il margine per rivendicare i propri diritti, anche al di fuori del processo, si restringe.

La tutela ridotta ha un impatto anche sull’esercizio dei diritti durante il rapporto di lavoro e a sostenerlo è persino la Cassazione, che negli ultimi anni ha chiarito come la prescrizione per i crediti da lavoro non possa più decorrere dal momento in cui sorgono i diritti, bensì dal momento in cui termina il rapporto di lavoro. Questo perché, con la progressiva compressione della tutela reintegratoria, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è più considerato stabile e il lavoratore può quindi non essere in grado di esercitare i propri diritti al meglio durante il rapporto professionale, per il timore di ritorsioni che lo porterebbero a perdere l'impiego.

Che cosa succede se al primo quesito vince il sì

In questo scenario, se dovesse vincere il sì al primo quesito, l’intero decreto legislativo 23 del 2015 sarebbe abrogato. L’effetto sarebbe, per tutti i lavoratori impiegati nelle imprese medio-grandi, il ritorno all’articolo 18 come modificato dalla riforma Fornero, quindi con un maggiore spazio alla reintegrazione, prevista per licenziamenti nulli, discriminatori e privi di giustificato motivo (per insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento o perché il fatto avrebbe richiesto sanzioni conservative del posto di lavoro), e con ipotesi di tutela economica, nei restanti casi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o qualora ci siano vizi di motivazione o di procedura.

Se invece vince il no, o il referendum non raggiunge il quorum, la proposta di abrogazione non è approvata, quindi la disciplina resta quella attuale, risultante dalla combinazione tra legge 604/1966, legge 300/1970 come modificata dalla legge 92/2012, e decreto legislativo 23/2015, come modificato dalle abrogazioni operate dalla Corte Costituzionale, soprattutto con le sentenze 194/2018, 150/2020, 22/2024, 128/2024 e 129/2024, ossia un quadro normativo complesso e disorganico che la stessa Consulta, con la sentenza 183/2022, ha suggerito di riformare.

Secondo quesito: tutelare i lavoratori delle piccole imprese

Il secondo quesito riguarda sempre il licenziamento, ma impatta solo sui lavoratori impiegati in imprese più piccole. La norma da abrogare, anche se solo parzialmente, è l’articolo 8 della legge 604 del 1966.

Questa legge disciplina i licenziamenti individuali ed è la fonte dell’obbligo di giustificazione del licenziamento: nei primi articoli, infatti, chiarisce le definizioni di giusta causa e di giustificato motivo, tuttora necessari perché il datore di lavoro possa legittimamente recedere dal contratto di lavoro e quindi licenziare il dipendente senza incorrere in sanzioni.

L’articolo 8 prevede una forma di tutela contro il licenziamento, con la riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato o, a scelta del datore di lavoro, il versamento di un’indennità monetaria. Questo rimedio è stato in parte superato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che però non si applica a tutti i lavoratori, ma solo a quelli impiegati in unità produttive con più di 15 dipendenti o in imprese con più di 60 dipendenti. Di conseguenza, al momento, la tutela prevista dall’articolo 8 della legge 604 del 1966 riguarda i lavoratori nelle imprese più piccole, sia quelle che occupano meno di 15 dipendenti, sia quelle con più di 15 dipendenti (ma meno di 60) frammentate in piccole unità produttive.

Dal 1966 al 2015: sempre la stessa tutela massima

Il quesito non intende abrogare per intero la norma, ma si limita a proporre di cancellare il tetto massimo dell’indennità prevista in caso di licenziamento ingiustificato. Al momento infatti l’articolo 8 prevede che il risarcimento sia compreso tra 2,5 e 6 mensilità (che possono aumentare, se il datore di lavoro occupa più di 15 dipendenti, fino a 10 mensilità, se l’anzianità è superiore a dieci anni, o fino a 14, con anzianità superiore a vent’anni).

Il massimo di 6 mensilità per le piccole imprese è previsto anche dal Jobs act, che, pur citando esplicitamente i lavoratori delle imprese di dimensioni ridotte (all’art. 9 d.lgs. 23/2015), non aumenta le tutele, ma le mantiene sostanzialmente sovrapponibili all’art. 8 L. 604/1966. Parte di quest’ultima norma sarebbe abrogata in caso di vittoria del sì al secondo quesito, mentre la medesima tutela prevista dal Jobs act sarebbe travolta dall’abrogazione dell’intero d.lgs. 23/2015, in caso di approvazione del primo quesito.

Che cosa succede se al secondo quesito vince il sì

Al di là della sovrapposizione e confusione della regolamentazione, la proposta abrogativa è piuttosto semplice: in caso di vittoria del sì al secondo quesito, i lavoratori delle piccole imprese ingiustamente licenziati avrebbero diritto a un risarcimento minimo di 2,5 mensilità, aumentabile in base alla libera e prudente valutazione del giudice. Il giudice valuta quindi in concreto la situazione del lavoratore, facendo riferimento al "numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti".

Le ragioni alla base della proposta di eliminazione del massimo di 6 mensilità dipendono certamente dalla esiguità di un simile risarcimento, ma anche dalla consapevolezza che un’impresa che occupa pochi dipendenti non necessariamente è anche un’impresa povera. Prevedere un tetto massimo così basso rischia di permettere a imprese piccole ma con volumi d’affari rilevanti di licenziare i dipendenti sgraditi con un impatto trascurabile sulle proprie casse e quindi con una sanzione che, oltre a non riparare il danno subito dalla persona ingiustamente licenziata, non è nemmeno idonea a dissuadere il datore di lavoro dal procedere in questo modo.

Terzo quesito: regolare il contratto a termine

Il terzo quesito riguarda il contratto a tempo determinato, e in particolare la necessità che un simile rapporto di lavoro sia stipulato sempre indicando la causale giustificatrice. Per arrivare a questa disciplina, il quesito propone l’abrogazione di diverse parti dell'art. 19 del d.lgs. 81/2015, anche nelle parti modificate dal governo Meloni.

Secondo la legge italiana, almeno in teoria, la forma comune del contratto di lavoro è quella a tempo indeterminato. Lo stabilisce l’articolo 1 del decreto legislativo 81 del 2015, uno dei provvedimenti attuativi del Jobs Act, ma lo affermavano già norme precedenti. La centralità del contratto stabile risponde a una logica di tutela del lavoratore, della sua continuità occupazionale e progettualità di vita, ed è coerente con l’impianto costituzionale fondato sul diritto al lavoro e sulla sua funzione sociale.

Perché servono limiti al contratto a termine?

Tanto il contratto a tempo indeterminato quanto quello a termine sono rapporti di lavoro subordinato, cioè una forma di occupazione alle dipendenze e sotto la direzione altrui. A questo sacrificio della propria autonomia, con il rispetto degli obblighi di diligenza, fedeltà e obbedienza, corrisponde un sistema di protezione che prevede anche la tutela contro il licenziamento ingiustificato, per quanto, come si è visto, progressivamente ridotta alla luce delle ultime riforme.

L’unica differenza strutturale tra i due rapporti risiede nella durata: mentre il contratto a tempo indeterminato prosegue fino a recesso di una delle parti (e, nel caso del datore, richiede una giusta causa o un giustificato motivo), il contratto a termine si estingue automaticamente alla scadenza. Questa apparente semplicità può rappresentare una minaccia ai diritti dei lavoratori: aggirando l’obbligo di motivare un licenziamento, il datore può non rinnovare un contratto a termine senza fornire alcuna giustificazione, anche per ragioni discriminatorie o arbitrarie. Il termine diventa così un meccanismo per eludere il sistema di tutele contro il licenziamento illegittimo. Il lavoratore a termine, pur soggetto agli stessi doveri di obbedienza, fedeltà e diligenza del collega a tempo indeterminato, può essere espulso dall’impresa con la sola accortezza di lasciar scadere il contratto, senza incorrere nei vincoli propri della cessazione di un rapporto stabile.

Proprio perché consente di aggirare le tutele contro il licenziamento, il contratto a termine ha da sempre avuto una disciplina speciale, che lo configura come un’eccezione e impone condizioni precise per il suo utilizzo. Fin dalle sue origini, il legislatore ha cercato di limitarne l’uso (e l’abuso), vincolandolo alla presenza di esigenze specifiche e temporanee.

Dai casi tassativi del 1962 al causalone del 2001

Questo intento si traduce per la prima volta in modo organico con la legge 230 del 1962, che ammetteva la stipula del contratto solo in casi tassativi: attività stagionali, sostituzioni di lavoratori assenti, lavori straordinari o occasionali, fasi particolari della produzione o impieghi nel settore dello spettacolo.

Sul finire degli Anni Settanta, di fronte alle pressioni verso una maggior flessibilità del mercato del lavoro, si è allargata la possibilità di ricorrere al contratto a tempo determinato nei settori del turismo e del commercio o per altre ipotesi eventualmente disciplinate dalla contrattazione collettiva.

La prima vera liberalizzazione arriva all’inizio del nuovo millennio con il cosiddetto "causalone". La legge 368 del 2001 permetteva infatti la stipula di rapporti di lavoro a tempo determinato purché, nel contratto individuale, fossero previste le esigenze tecnico-produttive alla base della scelta di ricorrere a questo tipo di contratto.

L’acausalità del contratto a termine da Renzi a Meloni

Una decina di anni dopo diverse leggi, in sequenza, hanno modificato la disciplina delle causali.

Prima la riforma Fornero, la L. 92/2012, aveva previsto la possibilità della stipula di un contratto acausale di massimo 12 mesi. Di fatto, per il primo anno, non occorreva giustificare con una causale il ricorso al contratto a termine.

Due anni dopo, il decreto Poletti (D.L. 34/2014) sarebbe arrivato all’acausalità totale: il governo Renzi elimina del tutto l’obbligo di indicare le ragioni giustificatrici nella scelta del contratto a termine.

Con il cosiddetto Decreto Dignità (D.L. 87/2018) si reintroduce l’obbligo di indicare la causale, con l’esclusione per i primi 12 mesi. Si ritorna quindi a una disciplina molto simile a quella prevista dalla legge Fornero, con l’acausalità il primo anno e la necessità di giustificare proroghe e rinnovi.

Anche il governo Meloni ha modificato la materia, con quella che sembra un’implicita reintroduzione della acausalità. In linea con le dichiarazioni della ministra Calderone, infatti, si mantiene il primo contratto privo di causale e, per gli anni successivi al primo, occorre esplicitare le causali, che sono però ben più ampie delle precedenti. Oltre alla tradizionale sostituzione di altri lavoratori e alle esigenze previste dai contratti collettivi, infatti, il decreto legge 48 del 2023 ammette come causali anche quelle individuate dalle parti nei contratti applicati in azienda.

Che cosa succede se al terzo quesito vince il sì

Qualora il terzo quesito fosse approvato con il referendum anche quest’ultima ipotesi introdotta dal governo Meloni verrebbe travolta. Il quesito in questione cancellerebbe infatti sia le parti dell’articolo 19 del decreto legislativo 81 del 2015 che prevedono ipotesi di acausalità, come quelle relative ai primi dodici mesi di contratto a termine, sia quelle che permettono alle parti di individuare ulteriori causali in ambito aziendale.

Se vince il sì con il terzo quesito, quindi, si potranno ancora stipulare contratti a tempo determinato, ma con l’obbligo di motivare, fin dall’inizio, il ricorso a questo tipo di contratto, tramite causali quali la sostituzione di lavoratori o altre ragioni individuate dalla contrattazione collettiva.

Quarto quesito: sicurezza e responsabilità negli appalti

Il quarto quesito riguarda il sistema degli appalti e, in particolare, intende abrogare una norma che limita la responsabilità del committente per le obbligazioni del proprio appaltatore, escludendola in relazione ai "rischi specifici" di quest’ultimo. Si tratta probabilmente della materia più tecnica tra quelle oggetto del referendum, perché richiama concetti giuridici (come la responsabilità solidale e i rischi interferenziali) che non fanno parte dell’esperienza quotidiana, ma che hanno effetti molto concreti nella vita dei lavoratori.

Nella catena degli appalti e subappalti, la frammentazione delle responsabilità può generare situazioni di vulnerabilità. Quando un’impresa affida a un’altra l’esecuzione di opere o servizi, si crea una distanza tra il soggetto che trae beneficio economico dal lavoro e chi quel lavoro lo svolge concretamente. In questo contesto, è possibile (e fin troppo frequente) che l’impresa appaltatrice non sia strutturalmente solida o venga costituita per operazioni isolate, e che in caso di violazioni, come il mancato pagamento dei salari, omissioni contributive, si renda irreperibile o fallisca. Per evitare che i costi sociali di questi fenomeni ricadano sui lavoratori, l’ordinamento riconosce loro la possibilità di agire anche nei confronti del committente, che risponde in solido insieme all’appaltatore per i crediti retributivi e previdenziali dei lavoratori in appalto.

Gli incidenti sul lavoro tra rischi interferenziali e specifici

Oltre che per i crediti retributivi e previdenziali, il committente risponde in solido anche per i danni da infortunio o malattia professionale non coperti dall’INAIL o dall’IPSEMA. Tuttavia, la norma oggi esclude questa responsabilità nei casi in cui il danno sia riconducibile a "rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici" — un’espressione ambigua, priva di una definizione normativa, e per questo affidata all’interpretazione della giurisprudenza. Il quesito mira ad abrogare proprio questa esclusione, rafforzando il principio di tutela del lavoratore anche in presenza di appalti formalmente regolari ma concretamente rischiosi.

Nel sistema degli appalti, la distinzione tra rischi specifici e rischi interferenziali è rilevante: i primi attengono strettamente alla natura dell’attività svolta dall’appaltatore, mentre i secondi derivano dall’interazione tra più soggetti operanti nello stesso luogo di lavoro. Ma nella pratica i confini sono incerti, e la clausola di esclusione finisce per indebolire la responsabilità del committente anche in situazioni dove un controllo più attento avrebbe potuto prevenire il danno. L’abrogazione proposta intende riaffermare una logica di responsabilizzazione del committente, non solo in termini di sicurezza propria, ma anche per quanto riguarda l’affidabilità delle imprese a cui esternalizza fasi produttive.

La differenza tra colpa e responsabilità

L’idea che il committente debba rispondere, insieme all’appaltatore, dei danni subiti dal lavoratore, anche quando non ha colpe dirette, può sembrare ingiusta a prima vista. Bisogna però ricordare che la responsabilità solidale non è una sanzione: non serve a punire chi non ha rispettato una regola, ma è invece uno strumento di tutela della parte debole del contratto, cioè del lavoratore, che non ha alcun potere decisionale né sulla scelta dell’appaltatore né sull’organizzazione generale dell’appalto.

Il lavoratore subisce il danno, come un infortunio o una malattia professionale, senza aver avuto alcun controllo su ciò che lo ha provocato. La legge, prevedendo la possibilità di rivolgersi anche al committente, garantisce che almeno uno dei soggetti beneficiari del suo lavoro (il committente) possa essere chiamato a rispondere, offrendo una rete di sicurezza. In questo modo, il sistema non scarica interamente sul lavoratore le conseguenze di una catena produttiva frammentata.

La responsabilità solidale inoltre, sia rispetto ai crediti retributivi e contributivi, sia rispetto ai danni non indennizzati dall’INAIL, non rappresenta soltanto un meccanismo di tutela per il lavoratore, ma costituisce anche uno strumento per incentivare la selezione di imprese affidabili, scoraggiando l’uso opportunistico dell’appalto come strumento di risparmio sul costo del lavoro.

Che cosa succede se al quarto quesito vince il sì

Se il quarto quesito venisse approvato, verrebbe abrogata la parte dell’articolo 26 del decreto legislativo 81/2008 che oggi esclude la responsabilità del committente per i danni derivanti da “rischi specifici” dell’appaltatore o del subappaltatore. Questo significherebbe che, anche in presenza di rischi legati all’attività tipica dell’impresa appaltatrice, anche il committente, insieme all'appaltatore, potrebbe rispondere dei danni non coperti dall'INAIL. Non si tratterebbe di attribuire una colpa automatica al committente, ma di garantirgli un ruolo di presidio e vigilanza, riconoscendo il suo coinvolgimento economico nell’appalto. Per i lavoratori si tradurrebbe in una maggiore tutela nei casi di infortuni o malattie professionali non indennizzati, soprattutto in quelle situazioni in cui l’appaltatore si riveli inadempiente o non solvibile.

La perfezione non è dei referendum

Dopo aver analizzato e approfondito le questioni alla base dei quattro quesiti sul lavoro, si può concludere che sbaglia sia chi descrive le modifiche proposte con questi referendum come un’apocalisse annunciata, sia chi le presenta come la soluzione a ogni male del lavoro. In mezzo a queste due caricature, c’è la realtà di uno strumento che per sua natura non può essere perfetto: il referendum abrogativo elimina, ma non può proporre. Non riscrive le leggi, non riforma il sistema. Eppure, proprio in questa sua semplicità risiede una forza che nessun altro strumento ha: il potere diretto del popolo di intervenire sulle norme.

Appaiono allora prive di senso anche le obiezioni benaltriste che criticano i quesiti referendari perché non sarebbero in grado di garantire soluzioni ai problemi del diritto e del mercato del lavoro. È una critica che manca il bersaglio: il referendum non sostituisce una politica del lavoro, ma può correggere le storture puntuali del sistema normativo.

Di fronte a una legge elettorale inadatta a garantire la rappresentanza dell’elettorato, davanti a una classe politica che ha aumentato il numero dei reati ma non è stata in grado di garantire né diritti civili, dalla cittadinanza al fine vita, né diritti sociali, come il lavoro e la sicurezza, il referendum abrogativo rappresenta l’unica forma di espressione democratica diretta rimasta al popolo.

Dal tecnico al politico: perché votare al referendum

Votare al referendum allora non è solo una scelta tecnica, fondata sul merito dei quesiti. È anche, e forse soprattutto, un atto politico.

Questo voto ha un impatto sull'esecutivo in carica. Da un lato, quello più evidente, perché, invitando all’astensione, gli esponenti della destra al governo si sono schierati, senza peraltro argomentare nel merito, così scommettendo su un risultato e rischiando di essere considerati sconfitti nel caso in cui avessero sbagliato i pronostici. Dall’altro, su un piano profondamente politico, perché, dei quattro quesiti sul lavoro proposti, uno riguarda direttamente una misura introdotta dal governo Meloni, e nessuna delle altre norme a rischio di abrogazione è stata modificata dalla maggioranza attualmente in carica, nonostante i richiami della Corte costituzionale. Votare, e soprattutto votare sì, è allora anche un modo per criticare l’inazione su temi centrali come il diritto al lavoro e la sicurezza negli appalti.

Il segnale che arriva dal voto al referendum è anche rivolto all’opposizione: che cosa pensa il popolo sul lavoro? Intendiamo chiedere una discontinuità rispetto alle politiche in materia? È un tema per il quale siamo disposti a rinunciare a qualche minuto di un weekend di giugno, pur esprimere un’opinione, qualunque essa sia, in un seggio? Dimostrare interesse ai quesiti sul lavoro (e a quello sulla cittadinanza), significa indirizzare chi ambisce a rappresentarci verso le questioni che più ci stanno a cuore e di cui riteniamo la politica debba occuparsi.

Ma, soprattutto, votare è un esercizio di partecipazione che vale di per sé. Non si tratta di un invito retorico e l’astensione attiva in considerazione del quorum non è una buona scusa: fissando un minimo di votanti per il referendum abrogativo, i costituenti volevano evitare che una minoranza, facendo leva sull’indifferenza o sull’ignoranza popolare, avesse il potere dirompente di abrogare le leggi. Il quorum nasce quindi per tutelare la volontà popolare, non per scoraggiarla.

Se troppo spesso le proposte elettorali non sono convincenti, e spingono moltissimi cittadini all’astensione, quando non al disinteresse, i referendum offrono invece sempre occasioni concrete per esprimere un’opinione su temi specifici, nel merito. E quando, come in questo caso, i quesiti toccano questioni come il lavoro, o la cittadinanza, partecipare significa contribuire a decidere insieme il futuro dei diritti sociali e civili, dando forma alla comunità che vogliamo essere.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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