Tasse, pressione fiscale e promesse mancate: cosa (non) ha fatto il governo Meloni

Durante la campagna elettorale che ha portato al potere l'attuale maggioranza, una delle promesse più forti e ripetute era quella di ridurre le tasse. Meno pressione fiscale, più soldi in tasca agli italiani. Ma da quando Giorgia Meloni è diventata presidente del Consiglio, nel lontano ottobre 2022, il peso del fisco non è sceso, è salito. E non di poco.
Secondo gli ultimi dati disponibili, nel secondo trimestre del 2025 la pressione fiscale ha toccato il 42,8% del PIL: un livello tra i più alti degli ultimi dieci anni. Il governo, però, continua a rivendicare di aver ridotto le tasse. A parole, le imposte sarebbero diminuite; nei fatti, il carico fiscale complessivo è cresciuto. Non si tratta di una svista, ma di una contraddizione evidente, che trova spiegazione non solo nei limiti del sistema fiscale italiano, ma anche in precise scelte politiche. Il governo, in sostanza, ha deciso di non aggiornare soglie e scaglioni per compensare l'inflazione: ha incassato di più, e al tempo stesso ha continuato a parlare di tagli.
Cos'è davvero la pressione fiscale (e perché importa)
La pressione fiscale è uno degli indicatori più usati per capire quanto lo Stato incassa, attraverso tasse e contributi, rispetto a quanto l'economia produce; include le imposte dirette, come l'IRPEF sui redditi, quelle indirette, come l'IVA sui consumi, e i contributi sociali che servono a finanziare pensioni, maternità, disoccupazione. Esclude invece altre voci di entrata come le multe, i proventi da concessioni o le vendite di beni pubblici: entrano comunque nel bilancio dello Stato, ma non derivano direttamente dalla pressione fiscale, cioè dall'azione fiscale vera e propria del governo. Per essere letta correttamente, la pressione fiscale viene sempre rapportata al PIL, il Prodotto Interno Lordo, cioè il valore complessivo dei beni e servizi prodotti in un anno; in questo modo si può misurare quanto, in proporzione alla ricchezza generata dal Paese, finisce nelle casse pubbliche. Nel caso dell'Italia, la pressione fiscale è da sempre più alta della media europea. Ma questo, di per sé, non è necessariamente un problema: in parte serve a finanziare un welfare ampio, con una sanità pubblica universalistica e un sistema pensionistico generoso.
Il punto critico è un altro: a fronte di un prelievo fiscale così alto, la qualità della spesa pubblica è spesso giudicata insoddisfacente. E oggi, a questa storica pesantezza del fisco, si sono aggiunti nuovi fattori che hanno spinto il carico fiscale ancora più in alto.
Le promesse fiscali del governo di Giorgia Meloni
Negli ultimi due anni il governo guidato da Meloni ha introdotto alcune misure che, almeno formalmente, avrebbero dovuto ridurre le tasse. Le due principali sono il taglio del cuneo fiscale e la riforma dell'IRPEF.
Il primo, cioè la riduzione della distanza tra il costo del lavoro per le imprese e lo stipendio netto dei lavoratori, era stato avviato dal governo Draghi per compensare l'inflazione, e l'attuale esecutivo lo ha reso permanente. Il passaggio da misura temporanea a strutturale non ha però portato benefici a tutti: anzi, per alcuni lavoratori lo sconto si è ridotto, e la busta paga è risultata più leggera rispetto all'anno precedente.
La seconda misura riguarda invece l'IRPEF, e cioè l'imposta sui redditi delle persone fisiche. Il governo ha ridotto da quattro a tre gli scaglioni e ha abbassato l'aliquota per i redditi fino a 28mila euro. Nel 2025 è entrata in vigore anche un'altra riduzione per i redditi compresi tra 28mila e 50mila euro, con l'aliquota che è scesa dal 35% al 33%.
Sulla carta, questi interventi rappresentano un taglio delle tasse. Ma nella realtà, non hanno prodotto una riduzione del carico fiscale complessivo. Al contrario: la pressione fiscale è aumentata, e il gettito incassato dallo Stato è cresciuto. In altre parole, il governo ha sì adottato misure che sembrano riduzioni fiscali, ma non ha mantenuto la promessa di alleggerire davvero il peso del fisco sugli italiani. Anzi.
Il nemico invisibile: il drenaggio fiscale
Per capire cosa è successo bisogna parlare di quello che viene chiamato fiscal drag, in italiano drenaggio fiscale. È un meccanismo insidioso che si attiva nei sistemi fiscali progressivi, come quello italiano, quando c'è inflazione. Significa che, anche se il reddito reale di una persona (cioè quello corretto per l'aumento dei prezzi) resta uguale o quasi uguale, si finisce col pagare più tasse semplicemente perché lo stipendio nominale aumenta – magari con un piccolo rinnovo contrattuale – e sfora le soglie previste per bonus, detrazioni o scaglioni IRPEF. È un po' come se lo Stato dicesse: "Vedo che guadagni un po' di più, quindi paghi di più", senza però considerare che quel "di più" spesso non basta neppure a coprire l'aumento del carrello della spesa o della bolletta.
Va detto che questo meccanismo è del tutto diverso dalla legittima progressività fiscale, come avviene ad esempio con l'IRPEF a scaglioni o con una patrimoniale ben strutturata: in quei casi chi ha di più paga di più. Il drenaggio fiscale, invece, è un aumento implicito delle tasse che colpisce anche chi non ha visto migliorare la propria situazione economica.
Ma non finisce qui: a peggiorare la situazione c'è anche l'aumento dell'IVA, cioè l'imposta sui consumi, che cresce automaticamente quando i prezzi salgono, perché si paga una percentuale sul prezzo finale dei beni. Secondo le stime dell’osservatorio lavoce.info, nel solo 2024 il drenaggio fiscale ha fatto incassare allo Stato 17 miliardi di euro in più. Una cifra enorme, che non deriva da nuove tasse deliberate in Parlamento, ma da una mancata riforma, e cioè quella che avrebbe dovuto adeguare scaglioni, detrazioni e soglie al nuovo livello generale dei prezzi e dei redditi.
Le scelte politiche del Governo e il racconto che non torna
Il governo, di fronte a questo incremento di gettito "silenzioso", ha fatto una scelta politica precisa: non restituirlo ai contribuenti. Non ha cioè adeguato le soglie IRPEF all'inflazione, né ha aggiornato in modo sufficiente i parametri dei bonus. Ha invece destinato queste risorse a contenere il deficit, finanziare altre misure o, in generale, tenere i conti pubblici in ordine. Una scelta legittima, ma che smentisce tutta quanta la narrativa delle "tasse più leggere". Nel frattempo, alcuni aumenti delle imposte sono stati introdotti, più o meno esplicitamente: ad esempio, le accise sui carburanti, che erano state abbassate temporaneamente durante la crisi energetica, sono state rialzate, e lo saranno ancora nel 2025. Alcuni bonus edilizi sono stati rimodulati, e una nuova tassazione colpirà banche e assicurazioni.
Ciò che ha contribuito a confondere ulteriormente il quadro è il modo in cui il governo comunica e presenta i dati. Diverse istituzioni, tra cui l'Ufficio Parlamentare di Bilancio e l'Osservatorio sui Conti Pubblici, hanno denunciato l'uso ampio e poco trasparente di alcune voci "residuali" nel bilancio statale. Queste voci vengono escluse dal calcolo della pressione fiscale ufficiale, che è l’indicatore ufficiale con cui si misura il peso delle tasse in rapporto all’economia, alterando così la lettura dell'andamento complessivo del carico fiscale. In pratica, diventa difficile anche per gli addetti ai lavori capire se e quanto le tasse stiano realmente cambiando.
Facciamo un esempio: immaginiamo che lo Stato, invece di aumentare direttamente le tasse come l'IVA o l'IRPEF (le imposte più conosciute), elimini un bonus fiscale che permetteva a tante famiglie di pagare meno tasse, oppure decida di non aggiornare le soglie di reddito che danno diritto a detrazioni o sconti. Cosa succede? Che molte persone, senza che le aliquote fiscali siano cambiate, si ritrovano a pagare di più. Però, siccome tecnicamente non è stata introdotta una nuova tassa, quel maggiore incasso per lo Stato non viene registrato come un aumento della pressione fiscale. Finisce dentro voci di bilancio più vaghe, chiamate "altre entrate" o "entrate in conto capitale", che non vengono considerate nel calcolo ufficiale della pressione fiscale. Il risultato? Il governo può dire che la pressione fiscale è stabile o addirittura in calo, ma nella realtà concreta le tasse che i cittadini pagano sono aumentate. E diventa difficile, anche per chi analizza i conti pubblici, capire esattamente quanto e dove stia crescendo il carico fiscale. In pratica: lo Stato incassa di più, ma senza che questo appaia chiaramente nei numeri ufficiali. È un po' come se si facesse salire il prezzo di un biglietto del bus eliminando lo sconto per gli studenti, senza cambiare il prezzo stampato sul cartello.
Lavoro e occupazione: la narrazione smentita dai numeri
Un altro punto spesso ripetuto dal governo Meloni è che l'aumento della pressione fiscale sarebbe un segnale positivo, perché significherebbe che ci sono più persone che lavorano, e quindi più contribuenti che versano tasse allo Stato. In altre parole, si dice: "Se lo Stato incassa più soldi, è perché c'è più lavoro e l'economia funziona meglio". Ma non è proprio così: a smentire questa interpretazione sono stati gli stessi economisti, perché i numeri dimostrano che il lavoro in più registrato non basta a giustificare un aumento così forte delle entrate fiscali. Il problema, cioè, è altrove.
Quando si dice che "aumenta il gettito fiscale", si intende che lo Stato incassa più soldi dalle tasse: dai lavoratori, dalle imprese, dai consumatori. È come se lo Stato avesse un grande salvadanaio, e ogni euro versato sotto forma di tasse o contributi ci finisse dentro. Se il gettito cresce, vuol dire che quel salvadanaio si sta riempiendo più velocemente. Ora, è vero che se aumentano i lavoratori, più persone versano contributi e tasse. Ma negli ultimi anni il gettito è aumentato molto di più rispetto all'aumento dell'occupazione. Quindi, insomma, c'è qualcosa che non torna.
Per capire meglio perché il solo aumento dell'occupazione non basta a spiegare questa crescita, immaginiamo una situazione concreta: mettiamo che, in un anno, 300 mila persone trovino lavoro. È un dato positivo, certo: ogni nuovo lavoratore inizia a versare contributi e a pagare le imposte sul reddito. Questo porta a un aumento del gettito, ma entro limiti prevedibili: ognuno contribuisce con una cifra media, e la somma finale – pur utile – non è enorme. Parliamo di qualche miliardo di euro in più.
Ma nello stesso periodo può succedere qualcos'altro, molto più impattante: l'inflazione. I prezzi quindi salgono, il costo della vita aumenta e gli stipendi, per cercare di tenere il passo, vengono ritoccati verso l'alto; questi aumenti salariali non sono però reali miglioramenti del tenore di vita, perché vengono "mangiati" dagli aumenti dei prezzi. Nonostante ciò, il fisco li considera come "redditi più alti". Ed è proprio qui entra in gioco il meccanismo del drenaggio fiscale. Con uno stipendio un po' più alto, molte persone finiscono per superare la soglia che dà diritto a certi bonus o detrazioni, oppure entrano, anche solo per una piccola parte del loro reddito, in uno scaglione IRPEF più elevato. Il risultato è che pagano più tasse. A questo si aggiunge l'IVA, che cresce automaticamente quando i prezzi aumentano: se oggi il pane costa più di ieri, l'IVA su quel pane è più alta, anche se l'aliquota è rimasta la stessa. E così si paga di più anche per i consumi quotidiani.
Tutto questo fa sì che anche chi lavorava già, e magari guadagna solo un po' di più per stare a galla, finisca per contribuire in modo molto maggiore al gettito fiscale. Non perché è diventato più ricco, ma solo perché il sistema fiscale non è stato aggiornato per proteggere i redditi reali dalla crescita dei prezzi.
È qui sostanzialmente che si concentra il grosso dell'aumento delle entrate dello Stato: non tanto dai nuovi lavoratori, ma dalla massa di lavoratori esistenti che si ritrovano a versare più soldi, senza che la loro condizione economica sia migliorata.
Eppure, la narrazione politica è rimasta sostanzialmente la stessa. Nel 2019 Giorgia Meloni denunciava su Twitter una pressione fiscale al 48% e accusava i governi di allora di spremere gli italiani come bancomat, chiedendo a gran voce uno “choc fiscale subito”. Le tasse erano il cuore della sua battaglia politica, il simbolo di una promessa di svolta. Ma oggi, con la pressione fiscale tornata proprio su quei livelli, non si grida più allo scandalo. Si tace, si sfuma, si riformula. La narrazione si adatta, i numeri restano. E raccontano una realtà che fa fatica a conciliarsi con la coerenza politica promessa e rivendicata.