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Guerra in Ucraina

Quali prodotti rischiamo di non trovare al supermercato a causa della guerra in Ucraina

La guerra in Ucraina sta provocando un aumento dei prezzi di pane e pasta, dovuto anche al blocco dell’export di cereali dall’Ucraina e dall’Ungheria. Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti, in un’intervista a Fanpage.it, spiega quali sono i rischi per i consumatori e per i produttori.
A cura di Annalisa Cangemi
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A causa della guerra in Ucraina, iniziata due settimane fa, è scoppiata la psicosi nei supermercati ed è partita la corsa alle scorte di prodotti alimentari. Unicoop Firenze ha fissato dei limiti per l'acquisto di olio di girasole, farina e zucchero, specificando però che "al momento non emerge alcun rischio relativo alla mancanza di prodotti nei propri supermercati", ma l'iniziativa è solo un modo per arginare gli episodi di accaparramento che si sono verificati in alcuni punti vendita, da parte di alcuni operatori commerciali. Si potranno comprare massimo 4 pezzi per carta socio per olio di semi di girasole, farina e zucchero. Una contromisura simile è stata presa ieri in supermercato all’ingrosso a Ventimiglia, che ha imposto ai suoi clienti un limite di acquisto di 50 litri d’olio a base di semi. Sono gli effetti collaterali di un conflitto che pur essendo per il momento circoscritto all'Ucraina ha ripercussioni dirette sulla disponibilità di materie prime e sul livello dei prezzi, che continua a salire. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti.

La guerra in Ucraina inizia ad avere i primi effetti sulla disponibilità di prodotti alimentari nei supermercati. Quali prodotti potrebbero mancare nei prossimi mesi?

I limiti all'acquisto che sono stati imposti nei supermercati sono solo un modo per evitare una corsa accaparramento, che in questo momento è assolutamente ingiustificata, più che un'effettiva indisponibilità. Non c'è una carenza dei prodotti. Ad esempio Unicoop ha messo un limite ad alcuni prodotti che sono tipicamente provenienti dall'Ucraina: olio di girasole, farina di frumento tenero e zucchero. Noi importiamo da Kiev l'80% dell'olio di semi di girasole, mentre il frumento tenero non viene solo dall'Ucraina, che è il settimo o ottavo produttore di frumento tenero per l'Italia. Ma c'è un problema complessivo di frumento tenero generato dalla limitazione all'export dell'Ungheria, che è invece il principale fornitore di frumento tenero in Italia. Questo potrebbe portare a una carenza della fornitura. Lo zucchero proviene da diverse parti del mondo, in buona parte dall'Unione europea, anche dall'Est europeo.

C’è il rischio che i supermercati debbano razionare alcuni prodotti, se si protrae questa situazione di instabilità?

Noi come Italia abbiamo una produzione di prodotti da forno, da frumento tenero, e di pasta, fortemente orientata all'esportazione. Noi facciamo molto di più di quello che ci serve, come produzione nazionale. Circa il 45-50% dei prodotti da forno, cioè pane biscotti, grissini, dolci da ricorrenza, e circa il 50% della pasta sono destinati all'esportazione. Quindi produciamo più di quello che consumiamo. In quest'ottica, se dovessimo esportare tutto quello che esportiamo solitamente, potremmo avere delle difficoltà. Questo è il ragionamento che ha spinto per esempio l'Ungheria a mettere uno stop all'export di frumento tenero, cioè la paura di non averne abbastanza per la domanda interna, un modo per evitare di avere problemi nell'approvvigionamento. Se la fornitura di grano dovesse essere interrotta o ridotta, è chiaro che anche la nostra produzione di conseguenza ne risentirebbe.

Quanto siamo dipendenti dalle esportazioni dall’Ungheria, Ucraina e Russia?

Per quanto riguarda le due filiere destinate all'alimentazione umana, noi importiamo circa il 60-65% di frumento tenero, rispetto al totale che ci serve. Produciamo il 35-40% del frumento tenero che trasformiamo. Per il frumento duro abbiamo una produzione nazionale che copre circa il 45%, e quindi circa il 55% è prodotto di importazione. Poi abbiamo un deficit relativo al mais, che riguarda però la filiera zootecnica, per cui circa il 50% del prodotto destinato all'alimentazione animale è di importazione. Questo è un dato che fino a 10 anni fa ci vedeva sostanzialmente autosufficienti, però l'abbassamento del prezzo del mais ha fatto sì che ci fosse una riduzione della coltivazione di questo cereale e di conseguenza un aumento della nostra dipendenza dall'estero. Per la soia, destinata anch'essa all'alimentazione animale, per più del 60-70% è di provenienza estera.

Ci dobbiamo quindi aspettare un'ulteriore impennata dei prezzi, oltre a quello che abbiamo già visto?

È tutto da vedere. Bisogna capire se la guerra durerà ancora molto e quale sarà la situazione sui mercati internazionali. Come Coldiretti stiamo dicendo in queste ore che è strategico diventare il più autosufficienti possibile. Il prezzo dei cereali è cresciuto ancora prima della guerra, perché la Cina stava facendo accaparramento di scorte, e questo ha generato delle tensioni sui mercati internazionali. Per questo noi riteniamo che si debba lavorare per fare in modo che si mettano in coltivazione con dei prezzi ragionevoli quelle superfici che negli anni sono state abbandonate. Per esempio la proliferazione di cavallette che abbiamo visto l'anno scorso in Sardegna è figlia della non coltivazione dei terreni, perché non sufficientemente remunerativi: le cavallette che avevano deposto le loro ovature nel terreno sono riuscite così a riprodursi perché appunto il terreno non era coltivato. Purtroppo i prezzi troppo bassi e la ricerca sui mercati internazionali di cereali a basso costo ha fatto sì che ci fosse l'abbandono di queste coltivazioni, con una nostra maggiore dipendenza dalle importazioni dall'estero.

Come si può invertire la tendenza? In che modo l’Italia potrebbe iniziare a rendersi indipendente dal punto di vista degli approvvigionamenti di materie prime?

Con un investimento, realizzato attraverso contratti di filiera, che sono uno strumento previsto dalla nostra legislazione, in modo che ci sia una programmazione e un prezzo che viene concordato prima. Così chi coltiva un cereale saprà esattamente qual è il prezzo che otterrà per il prodotto, e potrà coprire i costi di produzione, come prevede comunque la norma sulle pratiche sleali, evitando che ci sia un prezzo troppo basso come è successo in passato.

Coldiretti ha lanciato un allarme: c’è il pericolo concreto di non riuscire a garantire l'alimentazione del bestiame, per la mancanza di mais e soia. Cosa può succedere? 

Rischiamo di avere una riduzione di produzione di latte, carne e uova, e di andare a intaccare il nostro patrimonio zootecnico. Perché questo potrebbe portare alla necessità di eliminare un certo numero di capi, perché non siamo in grado di alimentarli. È un problema molto grosso. Possiamo parzialmente risolverlo sempre con i contratti di filiera, visto che la semina del mais verrà fatta da fine marzo in poi: in un momento di emergenza si può programmare un aumento delle superfici, recuperando quelle che nel corso degli anni sono state abbandonate per motivi economici. È chiaro che non abbiamo la bacchetta magica, e non possiamo recuperare all'istante 500mila ettari di superficie coltivata a mais che abbiamo perso in 10 anni.

Se non si risolve il problema tempestivamente potremmo quindi avere nei prossimi mesi una carenza di latte, uova e carne?

Sì, se non dovessi avere la quantità necessaria di mais a coprire l'alimentazione, è chiaro che questo si tradurrebbe in una riduzione della produzione. Sul latte siamo autosufficienti per l'86%, poi c'è una quota di esportazione, penso per esempio al formaggio. Bisogna vedere insomma il mix tra quello che autoconsumiamo e ciò che esportiamo. Per le uova sostanzialmente in base ai dati saremmo autosufficienti. L'incognita è però determinata dall'influenza aviaria che ha colpito alcune zone d'Italia, provocando danni sugli allevamenti.

Ci sono da questo punto di vista territori più esposti di altri?

Ci sono degli allevamenti che producono buona parte di quello che serve per l'alimentazione del bestiame, sono allevamenti a ciclo chiuso, che hanno anche terreni a sufficienza per la produzione di foraggi. Ci sono invece aziende che sono più dipendenti dall'approvvigionamento di mangimi. Più che la zona territoriale è più un problema legato alla strutturazione dell'azienda.

State continuando a registrare negli ultimi giorni un ulteriore aumento del prezzo dei cereali?

Il trend è comunque di crescita. Però negli ultimi giorni ci sono stati dei movimenti, sia in crescita sia in discesa, e questo fa pensare che ci siano alcuni investitori che stanno spostando risorse dalla borsa ai cosiddetti ‘future' dei prodotti cerealicoli. Si tratta di movimenti speculativi che possono fare improvvisamente schizzare verso l'alto il prezzo internazionale dei prodotti e poi magari potremmo vederlo calare in poco tempo.

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