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Perché il numero record di dimissioni nel 2022 è colpa soprattutto delle aziende italiane

Secondo gli ultimi dati del ministero del Lavoro, da gennaio a settembre 2022 ci sono state 1,6 milioni di dimissioni dal proprio posto di lavoro in Italia. In un’intervista a Fanpage.it, il segretario confederale Cisl Giulio Romani ha spiegato cosa vuol dire questo dato per le imprese italiane.
A cura di Luca Pons
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Nei primi nove mesi del 2022, sono state date più di 1,6 milioni di dimissioni dal lavoro. È il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021, quando erano state 1,3 milioni. Lo ha comunicato il ministero del Lavoro: le dimissioni sono state il motivo principale per la fine dei rapporti di lavoro, dopo la scadenza dei contratti a tempo determinato. Giulio Romani, segretario confederale della Cisl, ha spiegato a Fanpage.it cosa potrebbe aver portato così tante persone a lasciare volontariamente la propria occupazione.

Perchè, secondo voi, c'è stato un numero così alto di dimissioni?

I temi sono due. Innanzitutto queste non sono tutte persone che hanno deciso di smettere di lavorare, anzi. Spesso trovano lavori più qualificati. Un problema del mondo del lavoro in Italia è la mancanza di lavoro qualificato, per le aziende che lo cercano, e quindi quei lavoratori diventano particolarmente ambiti. Così ‘migrano' verso lavori a più alta qualifica.

E il secondo tema qual è?

Il post-pandemia. Il periodo della pandemia è stato anche un momento di riflessione sul rapporto tra qualità della vita e del lavoro. Non è solo questione di stare a casa o di avere un pendolarismo meno faticoso, anche se quello incide. È questione di priorità delle persone.

La scorsa estate, sul tema, dissi una cosa che penso ancora: se un criceto usa la ruota nella sua gabbia per tutta la vita, e poi gli si toglie la ruota per un anno, non è detto che poi quando si rimette la ruota il criceto ci risalga sopra.

Vuol dire che si cerca un lavoro più ‘comodo'?

No no, tanti di quelli che si dimettono non è detto che restino neanche in Italia. E magari sono disposti ad affrontare ben altro che il pendolarismo che gli chiede la loro azienda italiana. In cambio cercano un riconoscimento professionale, ancor prima che economico.

Quindi non è neanche una questione di stipendi troppo bassi?

Quello è un punto finale. Il punto centrale è la qualità del lavoro. E quella allontana anche lavoratori ben pagati, li convince a dimettersi per cercare soluzioni che diano più prospettiva e permettano di conciliare meglio vita e lavoro.

In Italia la qualità del lavoro è bassa?

Una ricerca dell'Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche, ndr) sulla qualità del lavoro in Italia, pubblicata la settimana scorsa, è disarmante. C'è una minoranza di imprese che fanno qualità, per chi ci lavora, e una maggioranza di imprese che non lo fa. Ma la cosa più significativa è che il dato corrisponde perfettamente alle ricerche sulla produttività.

In che senso?

Le aziende italiane dai 10 ai 250 dipendenti, le piccole e medie imprese, secondo dati di Assolombarda, sono le più produttive d'Europa. Più della Germania, e di parecchio. Le due ricerche osservano fattori completamente diversi, eppure i risultati combaciano. Il problema è che le piccole e medie imprese sono il 5% del totale, in Italia. Il 95% invece sono microimprese, quelle con meno di 10 dipendenti. E sono le meno produttive d'Europa.

Ci sono troppe microimprese? Per chiarire, sono ‘microimprese' anche i negozi…

È inevitabile che il numero di imprese micro sia molto più alto di quelle piccole e medie, perché i salumieri saranno sempre più delle fabbriche, e un barbiere non arriverà ad avere 30 dipendenti. Ma mentre da noi le microimprese sono il 95% delle imprese, in Germania sono l'82%. Tra l'82% e il 95% la differenza è molto rilevante.

Qual è il punto, cosa ci dicono queste due ricerche?

Che le piccole e medie aziende in Italia producono molto e danno un'ottima qualità del lavoro, mentre le microimprese sono deboli su entrambi i fronti. Perché qualità del lavoro e produttività non si cancellano a vicenda, come si pensa a volte. È il contrario.

Cioè?

Quando investo in qualità del lavoro, ho maggiore produttività. La maggior parte delle politiche aziendali vanno in senso contrario a questo dato oggettivo: per aumentare la produttività si taglia sulla qualità del lavoro, ed è paradossale.

E la cosa vale soprattutto per le imprese più piccole, con meno di 10 dipendenti.

Sì, la maggior parte delle microimprese non investono in qualità, quindi non sono produttive, e non essendo produttive non riescono neanche a pagare salari soddisfacenti. Questo crea tante insoddisfazioni diverse: lavoro male, lavoro senza formazione e senza prospettive, e per di più vengo pagato poco. E così ci sono moltissime dimissioni. Un problema è il modello della microimpresa familiare.

Cosa c'è che non va nella classica azienda a conduzione familiare?

È un modello che tende a non reinvestire i profitti nell'azienda. È un approccio poco efficiente, a partire dalla quantità di profitti in grigio e in nero che non emergono. Le imprese così piccole, in Italia, sono molte di più e molto più opache che in altri Paesi.

Ricapitolando: ci sono troppe aziende troppo piccole, che non investono sul lavoro qualificato e sulla qualità del lavoro, e questo porta a molte dimissioni. Come si cambiano le cose?

Non bisogna pensare solo al collocamento: non basta trovare un lavoro alle persone, se poi queste danno le dimissioni perché la qualità del lavoro è scarsa. Servono interventi sulle politiche industriali e finanziarie.

Che tipo di interventi?

Se l'Italia vuole crescere deve investire. E non sto pensando a un modello in cui tutto va in mano a fondi stranieri, perché altrimenti andiamo dalla padella nella brace, e abbiamo altri casi come GKN. Bisogna stimolare l'investimento delle risorse interne – l'Italia è il Paese con il più alto risparmio in Europa, quindi i soldi ci sarebbero.

L'obiettivo concreto quale sarebbe?

Far crescere imprese sane a livello finanziario, oltre che con maggiore capacità di investire in innovazione, formazione e qualità del lavoro. Avremmo lavoratori più soddisfatti e una produttività più alta, quindi anche salari più elevati. E allora il fenomeno delle dimissioni si attenuerebbe.

Da un governo di centrodestra ci si aspetta che, a livello economico, sia molto attento allo sviluppo delle aziende. Nel governo Meloni è addirittura stato inserito il ministero delle Imprese. Pensate che le cose cambieranno?

Qui rispondo a titolo personale. Questo è un governo che dovrebbe stare più vicino alle imprese di altri, ma ci sono diversi modi per farlo. Per stare vicino ai figli, io li posso difendere sempre e comunque – anche quando non studiano, fanno i bulli, fanno le peggiori porcherie – oppure posso educarli. Ma per educarli, a volte bisogna anche metterglisi contro. Questo è stato un problema di tutti i governi degli ultimi anni.

La politica è troppo indulgente con le aziende perché non vuole perdere consenso, quindi?

Secondo me sì. Credo che, negli ultimi trent'anni, la politica si sia preoccupata di curare il proprio elettorato per prevalere su quello degli altri, piuttosto che di curare politiche per il resto del Paese. Non c'è stata continuità nelle politiche, uno faceva la buca e l'altro la tappava. Invece noi avremmo bisogno di imprese che sappiano ammettere la necessità di essere trasparenti, di pagare le tasse regolarmente, di reinvestire i profitti nell'attività e distribuirli. Non so se questo ci sia nel 95% di microimprese italiane, e non so se nel governo ci sia la volontà di spingerle ad essere così.

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