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Opinioni
Elezioni politiche 2022

Perché il centrosinistra può provare a vincere unito (spiegato a chi preferisce perdere)

Questo editoriale è dedicato a chi pensa sia meglio perdere bene che vincere male. Cinque ottimi motivi per dissentire da questa visione. E per sfuggire a un destino che sembra ineluttabile.
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Questo editoriale è dedicato a chi pensa che non possa esistere un’alleanza larga di centrosinistra in grado di contrapporsi all’asse di destra di contendere loro la vittoria elettorale. O meglio ancora, a chi pensa che sia meglio andare divisi e perdere, anziché governare con un fronte eterogeneo che vada da Calenda a al Movimento Cinque Stelle (sì, il Movimento Cinque Stelle).

Questo editoriale è dedicato a loro, perché sono loro i migliori alleati di Salvini e Meloni. E no, non ha lo scopo di far cambiare loro idea. Ma, più modestamente, quello di invitarli a una riflessione, se è vero che il loro obiettivo è quello di evitare con tutte le loro forze che al governo ci vadano gli amici di Orban e di Putin.

Andiamo con ordine. Il primo argomento è puramente numerico. Con l’attuale legge elettorale, divisi si perde. L’abbiamo già detto, lo ripeteremo ancora: con il 35% dei seggi assegnati attraverso una sfida uninominale, in cui viene eletto il candidato che prende un voto in più, correre divisi vuol dire regalare almeno un quarto del parlamento alla destra unita. Che con il 45% scarso dei consensi potrebbe arrivare a prendersi il 60% delle poltrone di Camera e Senato.

Il secondo argomento è dedicato a chi pensa che un buon risultato di lista sia il viatico di futuri successi politici, indipendentemente dalla vittoria elettorale. Valgano, per loro, le storie di Francesco Rutelli, che nel 2001 decise di correre senza Rifondazione Comunista e che perse rovinosamente contro il centrodestra guidato da Berlusconi, pur superando il muro dei 12 milioni di voti, colonne d’ercole del centrosinistra riformista. O la storia di Walter Veltroni, che in nome della “vocazione maggioritaria” nel 2008 fece raggiungere al Partito Democratico la soglia del 33% dei consensi, ma regalò a Berlusconi una schiacciante maggioranza parlamentare. In entrambi i casi, quelle vittorie nella sconfitta furono il tramonto delle leadership dei due sindaci di Roma, e aprirono la strada a coalizioni larghe (che poi vinsero, o quasi). Calenda e Letta avvisati, mezzi salvati.

Il terzo argomento è dedicato a chi pensa che vincere con una coalizione eterogenea sia sinonimo di un fallimento di governo. Il ricordo vivido dell’Ulivo e dell’Unione guidate da Romano Prodi sono lì a ricordarlo, dicono. Vero. Ma è vero anche che comunque, dopo la caduta di Prodi, la legislatura resse fino a naturale scadenza coi governi D’Alema e Amato. E che nel 2008, la caduta dell’esecutivo dell’Unione – che aveva una maggioranza troppo esigua, più che troppo eterogenea – fu causato soprattutto dalla nascita del Pd e dall’ascesa di Veltroni, desideroso di misurare la nuova formazione politica alla prova delle urne. In entrambi i casi, il centrosinistra riuscì comunque a raggiungere importanti risultati: valgano su tutti l’ingresso nell’Unione Europea del 1997 o la riforma federale dello Stato nel 2001. Così come del resto il riassetto dei conti dello Stato del 2007, con il debito pubblico che scese per l’ultima volta sotto il 100% del Pil.

Il quarto argomento è per chi dice che non c’è una base programmatica comune che possa tenere assieme un centrosinistra largo. Niente di più falso: in realtà quella piattaforma c’è e si chiama lotta al cambiamento climatico, e a ben vedere “dovrebbe essere” – virgolette d’obbligo – il vero discrimine tra le due forze che si contrapporranno alle urne il prossimo 26 settembre. Da un lato ci sono i negazionismi e i “minimizzatori” del cambiamento climatico, quello che il nostro Fabio Deotto definisce come il “partito fossilsta italiano”. Dall’altro lato c’è invece chi, con diverse opinioni in merito, ha la consapevolezza che l’emergenza climatica sia al centro di tutto, molto più dell’emergenza immigrazione, o dell’emergenza sicurezza, o dell’emergenza gender. Magari siamo ingenui noi, ma su questa base, una mediazione tra Calenda, Letta, Fratoianni, Bonelli e Conte non sembra così impossibile, se solo la si vuole.

L’ultimo e quinto argomento, infine, è per chi pensa che questa mediazione sia meno onorevole di una sconfitta nel nome della propria ortodossia. Per chi la pensa così, esiste solo una medicina: cinque anni di Giorgia Meloni al governo, di presidenzialismo e flat tax, di blocchi navali e visite di stato di Orban e Putin. È davvero così meglio essere complici di questo destino? Pensateci.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro. 15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019)
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