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Per coprire il flop dei centri in Albania, Giorgia Meloni trova un altro nemico: la Corte di Giustizia UE

La decisione sui Paesi sicuri non dovrebbe sorprendere: ribadisce soltanto princìpi giuridici consolidati. Preoccupa casomai la frequente incapacità del governo di produrre atti legittimi, sempre che quelli che sembrano errori non siano una strategia eversiva contro i giudici e il diritto.
A cura di Roberta Covelli
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Giorgia Meloni si è detta sorpresa dalla sentenza della Corte di Giustizia UE, secondo cui spetta ai giudici valutare, in concreto, l’effettiva sicurezza di un Paese inserito in un elenco governativo. Delle due l’una: o la Presidente del Consiglio ignora i principi di base del diritto, oppure li conosce e intende scardinarli. Come già scritto mesi fa, siamo di fronte a una prova di incompetenza o di eversione. Vediamo perché.

Che cosa dice la sentenza della Corte di giustizia UE

La Corte non afferma nulla di anomalo o sorprendente: si limita a ribadire principi giuridici consolidati, già chiariti in precedenza e validi anche per le procedure accelerate di frontiera. Queste procedure, introdotte dal decreto Cutro, puntano a velocizzare (e spesso respingere) le domande di protezione internazionale di chi proviene da un "Paese sicuro".

La Corte di giustizia UE, rispondendo a un rinvio pregiudiziale italiano, ha chiarito che nulla vieta a un governo di stilare una lista di Paesi sicuri. Ma questa etichetta non può essere un dogma: la sua correttezza va verificata caso per caso. La sicurezza di un luogo è un dato fattuale, e nel momento in cui si decide il rimpatrio di una persona, dev’essere accertata in concreto l’effettiva sicurezza di quel Paese. In sintesi: nessuna scorciatoia normativa può cancellare il diritto a una valutazione individuale e a una protezione effettiva.

La nota mistificatoria di Palazzo Chigi

La reazione del governo è preoccupante, nel metodo e nel merito. Sul piano formale, la nota di Palazzo Chigi, rilanciata da Giorgia Meloni in prima persona sui social, usa un tono polemico e propagandistico, segnando il definitivo cortocircuito tra comunicazione politica e ruolo istituzionale: la posizione espressa è dell'estrema destra in perenne campagna elettorale o di un governo democratico?

Nel merito, la distorsione è ancora più grave.

Secondo Palazzo Chigi, "ancora una volta la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche". Ma la competenza a interpretare il diritto UE spetta alla Corte di giustizia, non ai governi. E la valutazione dei ricorsi contro i dinieghi di protezione è compito dei giudici, che devono verificare in concreto le condizioni del rimpatrio.

Ma la mistificazione non si ferma qui. Il comunicato prosegue accusando la Corte di "far prevalere la decisione del giudice nazionale, fondata perfino su fonti private, rispetto agli esiti delle complesse istruttorie condotte dai ministeri interessati e valutate dal Parlamento sovrano". In realtà, come afferma la Corte stessa, la designazione di un luogo come "sicuro" deve fondarsi su fonti affidabili, aggiornate, accessibili. Non è sufficiente evocare "complesse istruttorie": occorre indicare chiaramente le fonti su cui si basano. Il diritto alla protezione internazionale non può fondarsi su atti di fede nei confronti di un governo. È materia di diritto, non di lealtà politica.

C'è poi il consueto vittimismo. Secondo il governo Meloni, la sentenza "riduce ulteriormente i già ristretti margini di autonomia dei Governi e dei Parlamenti nell’indirizzo normativo e amministrativo del fenomeno migratorio", ostacolando "le politiche di contrasto all’immigrazione illegale di massa e di difesa dei confini nazionali". Sullo sfondo, però, c’è anche quell’idea eversiva di sovranità assoluta, in cui la legge può essere solo al servizio del governo.

Chi contrasta con chi: il diritto viene prima del governo

Stiamo assistendo a un rovesciamento delle accuse, a un ribaltamento dell'ordine logico. Non è la giurisprudenza, italiana o europea, ad attaccare il governo, sono gli esponenti di un'ideologia politica incapace di concepire il limite a porsi in contrasto con i princìpi di base del diritto, per poi reagire alle prevedibili correzioni con toni da scontro istituzionale.

In una democrazia degna di questo nome il potere non è mai assoluto. Non lo è nemmeno se ottenuto plebiscitariamente alle urne: resta soggetto alle garanzie, ai contrappesi, alle regole. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, cioè nel rispetto del diritto e dei diritti.

È curioso che questa pronuncia della Corte di giustizia UE riesca ancora a cogliere di sorpresa il governo Meloni, vista la frequente incapacità di produrre atti legittimi: quante volte è già accaduto? Dal caso Humanity, con lo "sbarco selettivo" e il "carico residuale", alla cauzione per evitare i Cpr, l’elenco delle barbarie giuridiche promosse dal governo Meloni racconta una disarmante ignoranza del diritto, difficile da giustificare in chi ricopre funzioni istituzionali di tale rilievo.

L’alternativa, però, è ancora più inquietante, anche se rimane un’ipotesi: era già tutto previsto. Una simile sequenza di errori e bocciature, se non frutto di incompetenza grave, può essere spiegata solo come scelta consapevole di produrre atti pensati per essere respinti. Ogni bocciatura diventa così un’occasione, non un problema: un pretesto per accusare la magistratura, la Corte di giustizia e le istituzioni di garanzia di interferire, ostacolare il governo e bloccare la volontà popolare.

È un copione già visto, il manuale dei governi autoritari, dove la legge è un ostacolo da aggirare e la giustizia un nemico da delegittimare. Si legifera ai margini della legalità, si attende la censura prevista, poi si grida allo scandalo, si scaglia la furia contro i giudici e si invoca una sovranità intesa come potere senza limiti. In questo schema, la violazione della legge non è più un errore casuale, ma un mezzo per logorare lo stato di diritto, fornire pretesti alla propaganda e consolidare un potere che vuole sottrarsi a ogni vincolo.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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