
L’unica cosa che conta è vincere. Vincere aiuta a vincere. Chi vince festeggia, chi perde spiega. Quando bastano slogan motivazionali di quart’ordine per spiegare il complesso delle scelte di partiti e coalizioni, evidentemente siamo in presenza di tempi eccezionali. Quelli in cui le contingenze ti costringono a mettere da parte qualunque ragionamento di ampio respiro, ad abbandonare qualunque ambizione di rinnovamento radicale e, nella sostanza, a rinunciare a parte di quello che sarebbe il tuo vero compito, la trasformazione della società in direzione dei riferimenti politico-ideologici della tua parte politica, per il tramite di una gestione amministrativa che tenga conto di programmi e promesse elettorali.
Ecco, una simile premessa serve a darvi uno strumento preliminare con cui leggere le dichiarazioni dei partiti dopo le Elezioni Regionali, non solo quelle degli esponenti del cosiddetto campo largo. Leggerete di tutto: polemiche, rimpalli di responsabilità, interviste sibilline e commenti al veleno. Contributi da cui emergeranno essenzialmente due questioni: l’amarezza per scelte conservative e di compromesso operate da leader che pure avevano promesso cambiamenti radicali e l’accantonamento di “un certo modo di fare politica”; la perplessità per la tenuta di coalizioni ampie ed eterogenee, guidate da esponenti politici che a stento si sopportano. Come bonus, il solito ritornello sull'astensionismo.
Certo, si tratta comunque di consultazioni locali, che seguono dinamiche specifiche e non sempre sovrapponibili a quelle nazionali, ma è innegabile che il risultato delle Elezioni Regionali nelle Marche non può essere interpretato in modo "riduzionista". Sia il centrodestra che il centrosinistra avevano infatti investito molto in termini di credibilità e prestigio nel voto del 28 e 29 settembre. Le Marche, del resto, erano una delle poche (se non l'unica) Regioni contendibili in questa tornata elettorale. Contavano doppio, lo ripetiamo ancora una volta, anche al netto dei fattori strettamente locali e di un'astensione ancora una volta mostruosa.
Giorgia Meloni si è spesa in prima persona per supportare il governatore uscente, utilizzando anche la macchina governativa in modo spregiudicato. Ha il potere e non si fa problemi a esercitarlo, come ha mostrato con la Zes, una vera e propria mancia elettorale che ha spiazzato l'opposizione, che si è ritrovata nell'oggettiva difficoltà di schierarsi contro un provvedimento potenzialmente utile per il territorio. La presidente del Consiglio, inoltre, era perfettamente consapevole dello scenario che si sta puntualmente verificando in queste ore: una vittoria locale come strumento per invertire una narrazione pubblica che la vuole in grande difficoltà, soprattutto a causa delle (non) scelte in politica estera e della grande mobilitazione popolare per Gaza (su cui torneremo).
Tutti i partiti di opposizione, in un certo qual modo, avevano operato delle rinunce, pur di provare il ribaltone. Schlein aveva accettato un candidato non esattamente allineato (per quanto di grande spessore politico), Conte aveva preventivato l'ennesimo scivolone nel consenso per il M5s (in una fase non semplice per il partito), le forze di sinistra avevano rinunciato a scalare nelle gerarchie, magari chiedendo un proprio candidato. Contava vincere, mettere in difficoltà la maggioranza, spingendo su una polarizzazione, governo – alternativa, che alla fine si è rivelata un boomerang.
È andata molto male e nel campo largo si è di nuovo all'analisi della sconfitta. Anche perché, mai come stavolta, l'astensione sembra essere la conseguenza di scelte timide e poco coraggiose, di posizionamenti sempre incerti e spesso costruiti, di contraddizioni latenti mai risolte.
Già, perché alla fine resta questo: la traslazione sul livello nazionale di una competizione locale, nella convinzione che qualcosa si stesse muovendo e che la luna di miele col Paese di Giorgia Meloni fosse finita. Nell'illusione che la contromobilitazione di parte della società civile, su questioni di enorme rilevanza, potesse tradursi nell'adesione al progetto politico del campo largo.
Dalle urne marchigiane, test piccolo ma significativo (ancora una volta), un ulteriore segnale del fatto che le cose non stiano così. Come indicano i sondaggi, il consenso per Giorgia Meloni è ancora alto, una vera anomalia nella storia repubblicana con cui toccherà fare i conti, più prima che poi.
Partendo da una considerazione, che, lo dico per inciso, stranamente non entra mai nel dibattito pubblico: l'enorme difficoltà che qualunque, dico qualunque e con qualunque leader, programma o missione, progetto progressista (globalista o diversamente radicale cambia poco) è destinato a incontrare. Questo è il tempo della destra, forse il momento di massima crisi del pensiero progressista. Sulle democrazie liberali soffia il vento dello spontaneismo, dell'egoismo e del cinismo, precondizione per una trasformazione in chiave autocratica dei vecchi meccanismi della democrazia. Insomma, una strada in salita. Affrontarla con mille zavorre e contraddizioni non è la migliore delle soluzioni.
