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Opinioni

Se le fabbriche chiudono la colpa non è della “follia Green” o della Cina, ma di decenni di politiche miopi

L’annuncio della chiusura dello stabilimento Magneti Marelli di Crevalcore ha riacceso i riflettori sul futuro dell’industria automobilistica in Italia. Della crisi in molti danno la colpa alla transizione all’auto elettrica, ma la vera colpa è di decenni di politiche miopi che non hanno preparato il settore al cambiamento. La colpa non è della Cina né della “follia green”.
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Di Giorgio De Girolamo e Ferdinando Pezzopane

Chiude lo stabilimento Magneti Marelli di Crevalcore. Con 230 dipendenti e 6 milioni di perdite lo stabilimento bolognese della multinazionale della componentistica per auto, annuncia la chiusura per il prossimo anno. Con esso rischiano anche gli altri dei 10 stabilimenti italiani, tra cui Venaria Reale, Sulmona e Bari, toccati da notevoli esuberi. Da molte parti si invoca come causa la transizione all’auto elettrica. Ma la causa principale è invece l’impreparazione con cui il settore della componentistica italiano, e l’automotive dominato oggi da Stellantis e un tempo da Fiat, si trovano ad affrontare questo enorme processo trasformativo.

Lo stabilimento di Crevalcore ad esempio, producendo collettori di aspirazione aria e pressofusi di alluminio, entrambi componenti di motori endotermici, è inadeguato alla transizione. Ma da una simile constatazione verrebbe da dire che più che la transizione stessa, il problema è dato da scelte imprenditoriali sbagliate e dalle strategie poco lungimiranti, come quella di Sergio Marchionne di circa un decennio fa, che decise di accontantare l’elettrico e di puntare sul metano (“Spero che non compriate la 500 elettrica, perché ogni volta che ne vendo una perdo 14.000 dollari” dichiarava nel 2014). Una scelta che ha travolto anche la filiera della componentistica, i cui ordini in Italia provengono quasi interamente da Stellantis (a Crevalcore ad esempio pesano per il 95 per cento).

Il settore italiano dell’automotive risulta ancora oggi in forte ritardo rispetto alla produzione di veicoli elettrici. Secondo un report stilato da Transport and Environment il gruppo leader nella produzione elettrica è attualmente la Volkswagen che al 2025 dovrebbe avere in attivo una produzione di circa 50 modelli elettrici, mentre il gruppo FCA si fermerebbe a poche unità. Il tutto si tradurrebbe così in una produzione di auto elettriche – al 2025 – tra le 2 e le 6 ogni 1000 abitanti nel caso italiano, mentre gli altri partner europei vanterebbero volumi produttivi di gran lunga maggiori, come la Germania con circa 19 veicoli elettrici prodotti per 1000 abitanti e la Francia con circa 14.

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L’Italia sembrerebbe dunque essere diretta verso un lento declino di uno dei settori traino del boom economico del secolo scorso. Infatti, negli ultimi 30 anni la produzione di veicoli si è ridotta di circa il 66.5% passando da 1.410.459 veicoli nel 1999 a 473.194 nel 2022.

Numeri che non devono scandalizzare, ma sono frutto di politiche pubbliche miopi, tutte orientate verso la domanda attraverso il meccanismo dei bonus (vedasi il caso degli incentivi). Così, si opera a valle dando la possibilità ai consumatori di vedere ridotto il costo delle auto, senza però costruire delle discriminanti che facciano propendere verso l’elettrico, ma dando la possibilità di acquistare a prezzo ridotto anche auto a combustione interna considerate “meno inquinanti”. E anche quando durante la pandemia è stato erogato un prestito garantito dallo stato a favore della FIAT, non sono state inserite condizionalità tali da garantire un rilancio del settore. Non agendo strutturalmente e consequenzialmente a monte – sulla produzione -, come invece avremmo dovuto fare seguendo in parte l’esempio della Germania e della Francia – azionista al 6% del gruppo Stellantis -, il sistema Italia è rimasto ancorato ad un tipo di produzione che dovrà essere abbandonato a favore della transizione ecologica.

Ciò detto una sostituzione uno a uno tra auto a combustione interna e auto elettrica non è certo una scelta sostenibile per ridurre le emissioni – in Italia quelle del settore dei trasporti sono tra le poche che continuano ad aumentare – e lo sfruttamento di risorse nel lungo periodo. È necessario immaginare e costruire senza ritardi imperdonabili una transizione del settore dei trasporti che guardi anche alla mobilità pubblica, alla produzione di bus elettrici o ad idrogeno, cargo bike ed altri mezzi pubblici su cui investire.

Ciononostante lasciare uno spazio aperto nel settore dell’auto elettrica, e soprattutto  nella fascia di costo medio-bassa e numericamente più significativa, significa fare un regalo ai paesi che si stanno muovendo in anticipo, come la Cina, e che possono presentarsi sul mercato europeo con veicoli elettrici a basso costo e quasi senza trovare concorrenza. Dalla Magneti Marelli passa quindi la sorte di decine di migliaia di lavoratori italiani ma anche quella della governance di un pezzo importante della transizione. Per una transizione ecologica che assuma queste proporzioni serve una completa ristrutturazione del comparto dell’automotive di cui il settore privato non sembra volersi far carico, preferendo – chiaramente – un aumento dei profitti a breve-termine, possibile attraverso la riduzione dei costi e dunque le progressive delocalizzazioni. Di fronte a uno scenario di questo tipo l’Italia si trova a non avere significative leve di azione perché tanto l’attuale governo quanto quelli precedenti hanno deciso di abbandonare la possibilità di un qualunque intervento pubblico in economia e di definizione di una solida politica industriale.

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