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Opinioni

La rabbia, l’orgoglio e l’inganno: Oriana Fallaci aveva torto, è ora di spiegare il perché

Dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, il Corriere ospitava l’invettiva della giornalista da New York, diventata di fatto un manifesto contro l’islam. Vent’anni più tardi, è il caso di rileggere quell’articolo e notare scorrettezze logiche e furbizie dialettiche, profezie irreali ed errori nel merito, punto per punto.
A cura di Roberta Covelli
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Ferruccio De Bortoli, nell'introdurlo, l'aveva definito "straordinario". In effetti, l'articolo "La rabbia e l'orgoglio" di Oriana Fallaci, pubblicato dal Corriere della Sera il 29 settembre 2001, a pochi giorni dall'attentato alle Torri gemelle di New York, non era certo normale. Il linguaggio spietato aumentava la carica emotiva e l'autorevolezza della firma dava legittimità a un testo che, negli anni, è divenuto un manifesto contro l'Islam.

A vent’anni di distanza si può però ammettere che quel lungo articolo era scorretto, nella forma e nei contenuti. E se neppure le limpide risposte di Tiziano Terzani bastarono al tempo a mostrarne gli errori, è il caso di non indagare nemmeno le motivazioni, politiche o cliniche, alla base di quell'ostentazione di rabbia e orgoglio: è, anzi, necessario slegare quello scritto dalla sua autrice, analizzare il testo punto per punto, sottolineando le scorrettezze, logiche e non solo, di cui è pieno.

Scorrettezze logiche, dialettiche e retoriche

Una fallacia logica è un espediente retorico, un trucco usato, consapevolmente o inconsapevolmente, in un discorso. Dal latino fallere, che significa ingannare, le fallacie sono appunto delle truffe dialettiche, inquinano il dibattito perché svicolano dai percorsi logici, proponendo ragionamenti invalidi ma apparentemente condivisibili.

Non è un caso che quell’articolo di Oriana Fallaci, pur riferendosi all’attentato alle torri gemelle, venga citato a ogni notizia e a ogni polemica relativa non solo al terrorismo ma anche a Islam e immigrazione. Il perché è presto detto: quel lungo testo è infarcito di fallacie, trucchi retorici peraltro in questo caso facilmente individuabili.

Stimolare l’emozione per tacitare il ragionamento

Uno dei più diffusi nel testo in questione è l’argumentum ad passiones o, in inglese, appeal to emotion. Consiste nello spostamento dell’argomentazione al registro emotivo, tralasciando la trattazione razionale. Nell’articolo della Fallaci sono presenti tutti gli appelli alle emozioni fondamentali (anger, fear, pity). Il registro della pietà (pity) è usato per descrivere gli effetti dell’attentato, con dettagli strumentali, aventi il solo fine di impressionare il lettore: "Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. – scrive Fallaci, e prosegue – Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è materia organica". Il riferimento a nasi, dita, orecchi, al caffè macinato torna più e più volte, come se fosse necessario indugiare sul tema, per riattizzare il turbamento emotivo del lettore. Anche la paura (fear) è ampiamente rappresentata, indotta ad esempio da narrazioni di una Firenze islamizzata, piena di "arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani", contro i quali nemmeno i vigili possono niente, perché se qualcuno dice loro qualcosa questi "Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie", così come sulla paura si punta quando si garantisce che i nemici "si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra". Per non parlare della rabbia (anger). La rabbia è ovunque, a partire dal titolo, per proseguire con tutte le volte in cui la giornalista usa frasi come "glielo urlerei sul muso".

Saltare i nessi, falsificare le tesi: le fallacie di presupposizione

Ma l’articolo La rabbia e l’orgoglio non comprende solo riferimenti emotivi, ci sono anche ragionamenti: peccato siano invalidi, viziati da fallacie di presupposizione. Ad esempio, quando l’autrice se la prende con il governo italiano, reo di non aver arrestato "alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden" all’indomani degli attentati: si tratta di un non sequitur, ossia di una fallacia con cui si afferma un rapporto causa-effetto che nella realtà non sussiste. L’assenza di arresti in Italia è un fatto che Oriana Fallaci lega a una falsa causa, ossia alla paura o alla connivenza della politica, quando la reale causa, molto più semplicemente, è che nessuno fu arrestato perché non c’era nessuno da arrestare. Per quanto autorevole possa essere una scrittrice, per andare in prigione serve almeno un sospetto reputato sufficiente da un giudice, non basta che una giornalista pretenda di vedere musulmani in galera per dare un segnale di solidarietà agli Stati Uniti.

La fallacia di presupposizione più usata nell’articolo di Fallaci è però una particolare forma di strawman argument, un espediente retorico che normalmente consiste nel distorcere la posizione del proprio interlocutore per renderla più facilmente attaccabile. La scrittrice, fin dalle prime righe, continua ad alludere a un indefinito gruppo di persone che avrebbero sostenuto che gli Stati Uniti meritassero la violenza di Al-qaeda ("gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene"). In questo modo, Oriana Fallaci si crea un nemico dialettico inesistente, di cui modella una posizione semplice da attaccare ed evidentemente riprovevole.

Fallacie induttive e numeri che diventano opinioni

Ma le distorsioni dialettiche non finiscono qui. La generalizzazione indebita è tanto diffusa quanto efficace per un articolo che tuttora viene ricondiviso. Ad esempio, Oriana Fallaci si riferisce al plurale ("gli Usama Bin Laden") per indicare tutti gli islamici, oppure allude a tutti gli immigrati caratterizzandoli per religione (musulmana, ovviamente). Ma la generalizzazione colpisce pure gli italiani, descritti come debosciati, signorini, incapaci di quell’orgoglio che titola il contributo della Fallaci. La generalizzazione indebita rientra tra le fallacie induttive, come anche il cherry picking, cioè la scelta di dati (statistici o di altro genere) che avvallino la propria tesi. Così, Oriana Fallaci cita le vittime della guerra: durante i combattimenti, spiega, c’è "un numero limitato di morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento". Eppure, il conto inestimabile dei morti, l'ordine di grandezza su migliaia di vittime civili, si ritrova eccome nelle cronache di guerra, ma non con riferimento alle battaglie, ai combattimenti, quanto piuttosto guardando alle minacce aeree, ai bombardamenti. Se si parla solo dei combattimenti, della guerriglia, di avanzate tramite operazioni di terra, certamente il confronto con il numero di vittime dell’attentato alle Torri Gemelle risulta enorme (e lo è). E infatti Oriana Fallaci sceglie di paragonare l’attentato dell’11 settembre ai combattimenti di terra, invece che ai bombardamenti sui civili (che pure sono una prassi in qualunque guerra dal secondo conflitto mondiale in poi), perché altrimenti ci si renderebbe conto di quanto le vittime dell’attentato non differiscano, per numero e innocenza, dalle vittime delle bombe, dai civili ammazzati durante le guerre.

Gli inganni del contesto: l’uso delle fallacie di pertinenza

Se però non ci fosse questa scelta parziale di dati, il lettore avrebbe un contesto di riferimento, potrebbe notare con più facilità i trucchi retorici come le fallacie di pertinenza abbondantemente presenti nel testo. La fallacia della brutta china permea l’intero articolo e ogni tanto emerge, esplicita, in profezie tanto patetiche quanto a tensione crescente: "E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!?".

Infine, c’è un’ultima fallacia, ribadita fin dalla prima riga: l’argumentum ab auctoritate. Per analizzare criticamente l’articolo, come s’è fatto fin qui, non c’è stato alcun bisogno di far riferimento alla persona di Oriana Fallaci, al suo passato, alle sue convinzioni politiche, alle sue scelte di vita, alla sua situazione clinica: sarebbe stato anzi scorretto concentrarsi su questi temi, in senso negativo. Viceversa, l’autrice si erge ad autorità, la presunta validità dei suoi argomenti è enfatizzata dai suoi "te lo dice una", come se aver intervistato Arafat o Komheini o aver assistito a combattimenti garantisse di per sé di aver ragione. In questo modo, peraltro, oltre ad ammantare di autorevolezza un’argomentazione che, come si è visto, è manchevole di logica (e non solo), si trasformano le opinioni, le sensazioni e i racconti di Oriana Fallaci in fatti incontestabili, su cui fondare l’analisi e le decisioni politiche.

La retorica sensazionalistica e marziale

Così, la descrizione dell’attentato arriva da una sensazione della giornalista dal suo appartamento di Manhattan, da un suo presentimento; o ancora, l’analisi sul terrorismo si basa su come Oriana Fallaci si sente nei diversi aeroporti in giro per il mondo. Anche lo stile ricalca questa preminenza emotiva di colei che deve dimostrare rabbia e orgoglio e che, per farlo, ricorre alla prima persona singolare quanto a quella plurale, utilizza aneddoti, propone ricordi o eventi storici anche del tutto avulsi dal tema, cita la sua mamma con una frase che chiunque avrebbe potuto dire ("il mondo è bello perché è vario" temo non sia un motto esclusivo della famiglia Fallaci), ricorda suo padre con l’ostentazione di un’opposizione virile (contro i fascisti, certo, ma anche attraverso il concetto di "avere le palle"). E, una volta costruito il proprio pulpito, la sua autorità di giornalista e la sua libertà di occidentale accompagnata dalla morale tradizionale (la famiglia, un po’ di religione ammantata d’ateismo e pure il concetto di patria), costruisce un "loro" che spesso diventa un "voi", dipinge il nemico e lo deumanizza, carica l’elemento emotivo del suo racconto e, nel contempo, usa una retorica marziale, per lessico e per contenuti, abbassando il registro da razionale a percettivo. Anche per questo fin qui ci sono volute quasi diecimila battute per smontare, il più sinteticamente possibile, la retorica della testimonianza di Oriana Fallaci: perché se il ragionamento è razionale, l’errore di argomentazione può essere individuato risalendo lungo l’iter del ragionamento, ma nell’ambito emotivo il procedimento è assai più complesso, perché non c’è un percorso da seguire a ritroso, perché le sensazioni non sono lineari ma informi.

Non solo logica: Oriana Fallaci aveva torto anche nel merito

Si potrebbe obiettare che la rabbia e l’orgoglio avranno anche indotto Oriana Fallaci a ragionamenti invalidi dal punto di vista logico, ma che la giornalista aveva ragione, che quelle argomentazioni erano vere e giuste nel merito. Non è così. E non per l’antirazzismo di chi scrive e nemmeno per il buonismo, qualunque cosa significhi. Il punto è che, al di là degli espedienti retorici e delle scorrettezze dialettiche che già lo qualificano negativamente, quell’articolo pubblicato dal Corriere si reggeva su falsità e proponeva soluzioni che, allora si intuiva e oggi si può affermare, erano sbagliate.

Prima di proseguire, però, è necessaria una precisazione: niente giustifica l’attentato alle torri gemelle, niente può rendere accettabile il sacrificio di 2.977 persone, peraltro civili innocenti. Ma il giornalismo, prima, e la storia, poi, non possono prescindere dalle ragioni, dal contesto, dalle fonti.

La reazione spacciata per azione: ammissioni e rivendicazioni di Bin Laden

Primo, le ragioni alla base dell’attentato alle Torri gemelle. Oriana Fallaci parla di scontro di civiltà, peraltro definendo l’Islam sulla base della lettura violenta del Corano (e attribuendo ai musulmani un precetto biblico, non coranico, ossia "occhio-per-occhio, dente-per-dente", citazione letterale da Levitico ed Esodo). Sostiene Fallaci che la tragedia dell’11 settembre 2001 fosse una punizione di Al-qaeda per lo stile di vita liberale degli statunitensi, degli occidentali, un misto tra invidia, odio e proselitismo, una jihad non (come qualunque imam può spiegare) come lotta spirituale che ciascun musulmano deve ingaggiare contro l’infedele in sé, ma una guerra militare e organizzata contro cristiani, ebrei, atei, per la religione e lo stile di vita.

Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri… Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’importa neanche di questo, scemi?

Al di là della comoda presa d’atto del nostro presente in cui possiamo ancora bere vino e birra ed esercitare tutta la gamma di libertà occidentali che Oriana Fallaci temeva avremmo perso, nel descrivere le ragioni dei terroristi la giornalista da New York omette di citare le rivendicazioni ufficiali di Al-qaeda.

Come spesso accade, i terroristi rendono esplicite le loro rivendicazioni, le ammantano di eroismo, le dipingono come giuste. Oriana Fallaci non le smentisce, come sarebbe legittimo e pure giusto: le ignora. Quando il 29 settembre 2001 il Corriere pubblica a tutta pagina l'invettiva della giornalista da New York, Bin Laden, seguendo una strategia messa in atto anche in precedenti occasioni, aveva già negato due volte qualunque coinvolgimento con gli attentati: erano menzogne, certo, e qualche settimana dopo sarebbero arrivate ammissioni e rivendicazioni, ma la giornalista sul Corriere non cita le smentite del capo di Al-qaeda, fosse anche solo per accusarlo d’essere un bugiardo. Mesi prima, peraltro, erano state emanate delle irrituali fatwa, ossia delle decisioni chiarificatorie, dei nuovi orientamenti simili alle fatwa del diritto islamico o ai rescritti del diritto canonico. Già nel 1996 e nel 1998 i firmatari di questi pareri giuridici, tra cui Bin Laden, dichiaravano guerra agli Stati Uniti, agli ebrei e ai crociati. Ma non, come scrive Fallaci, perché "Bin Laden afferma che l’intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci". Non per il vino o per la birra, non per il femminismo, non per la tecnologia o l’arte: per l’occupazione militare in Arabia Saudita, dove si trovano Medina e La Mecca, e in Palestina, dove c’è Gerusalemme.

Poco più di una settimana dopo l’articolo di Oriana Fallaci, sarebbe stata trasmessa da Al Jazeera una prima rivendicazione dell’attentato: "ciò che l'America sta assaggiando ora è solo una imitazione di ciò che noi abbiamo assaggiato". È evidente allora che l'azione, pur violenta, pur terroristica, pur malvagia, che Fallaci (e molti altri insieme a lei) definivano una "Crociata alla rovescia", un attacco all’occidente, un tentativo di conquista islamica della nostra società occidentale, fosse in realtà una reazione, una vendetta, una risposta violenta a situazioni militari (e non solo) ritenute altrettanto violente.

Il pretesto delle armi di distruzione di massa

Secondo, la minaccia dell’arsenale iracheno. Oriana Fallaci, tra le varie profezie, ne prospetta una su altre stragi che colpiranno l’Occidente, in maniera inedita. "Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari". La profezia non si è avverata, ça va sans dire, eppure in nome di quel rischio Fallaci sosteneva, nel suo articolo, che si sarebbe dovuto impedire a "un Mustafà o un Muhammed […] di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757" oppure di "iscriversi a un’Università […] per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica". E qualche pagina più in là presenta un’altra paura di cui tener conto, le armi di Saddam Hussein: "Si dice che la nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il materiale". Proprio sulla base dei "si dice", due anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la guerra contro l’Afghanistan, l’interesse della Nato si sarebbe spostato sull’Iraq. Fondamentale fu l’apporto della Gran Bretagna attraverso Tony Blair, quel Blair che, secondo Oriana Fallaci, aveva capito già all’indomani dell’attentato: "È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare".

Nessun dubbio della giornalista di guerra, nessuna perplessità da chi si vantava di conoscere e comprendere la realtà. Peccato. Anni dopo, nel 2009, gli inglesi si interrogarono finalmente su quell’alleanza, l’allora premier Gordon Brown chiese un’inchiesta che si concluse solo nel 2016, con il cosiddetto Rapporto Chilcot. Tra i fatti emersi: l’intervento britannico era stato considerato illegale dagli stessi membri del governo, ma Tony Blair, pare proprio per aver garantito sostegno aprioristico a Bush, pretese la distruzione del dossier in questione; non sono state valutate le opzioni diplomatiche prima dell'offensiva militare; Tony Blair "esagerò deliberatamente la minaccia irachena"; non c’era alcuna prova sul possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein e, anzi, all’epoca, al di fuori delle superpotenze, esistevano paesi ben più pericolosi dal punto di vista dell’avanzamento di tecnologia militare (Libia, Corea del Nord, Iran).

Sulla base di quei "si dice", sulla base di quella blairiana "solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare", la guerra in Iraq ha causato, oltre ai morti tra i militari, un numero di vittime civili difficilmente stimabile (si oscilla tra i 104mila e 223mila morti secondo l’OMS nei primi tre anni di guerra, ma le vittime furono 655mila morti già fino al 2006, secondo una ricerca di Lancet). Non solo. Al termine della guerra, in Iraq non c'è pace, né democrazia, né libertà. L’Iraq è oggi una polveriera, un arsenale, caratterizzato da un’instabilità politica che ha acuito storiche tensioni etniche e religiose e ha finito anche per favorire la nascita di nuovi gruppi terroristici, come Daesh (lo Stato islamico, Isis). Un dramma per gli iracheni, un ulteriore capitolo della millenaria guerra al terrore anche per l'Occidente.

Occhio per occhio e il mondo diventa cieco

E così arriviamo a oggi. A Parigi si apre il processo per la strage del Bataclan, centotrenta morti, quattrocento feriti, un attacco nel cuore della Francia, dell'Europa, come altri ve ne sono stati, prima e dopo, con la rivendicazione proprio di Isis. In Afghanistan, intanto, governano i talebani, un gruppo foraggiato dagli Stati Uniti in ottica anti-sovietica (perfino Fallaci lo ammetteva), per poi essere avversato a suon di bombe e occupazione militare dal 2001 in poi: dopo vent'anni di guerra (o, meglio, dopo tredici anni di guerra e altri sette di cosiddetto mantenimento della pace), i talebani hanno riconquistato il paese, comprese quelle regioni che, prima dell'intervento della Nato, erano controllate dall'Alleanza del Nord (i mujaheddin che nell'articolo sul Corriere erano chiamati, da Oriana Fallaci, "barbuti con la sottana e il turbante" esattamente come la giornalista definiva i talebani, cioè i loro avversari).

Accusando di paura, di menefreghismo, di codardia gli europei (Blair escluso), Oriana Fallaci pretendeva che i governi del Vecchio continente sostenessero gli Stati Uniti contro gli islamici, contro cui la guerra sarebbe stata lunga e dura, "ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano".

E così fu. In Afghanistan, all'operazione Enduring freedom (che significa "libertà duratura", un nome beffardo oggi più di allora) parteciparono Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Canada, Australia, Polonia, e garantirono contributi anche Albania, Belgio, Croazia, Danimarca, Irlanda, Lituania, Norvegia, Nuova Zelanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Svezia. Ci furono perfino paesi islamici a sostegno della coalizione: Bahrein, Giordania, Pakistan. A ruota seguì il sostegno agli Stati Uniti pure per l'offensiva all'Iraq, due anni dopo.

Il mondo ha agito esattamente come suggeriva Oriana Fallaci. Il risultato? L'Afghanistan non ha ottenuto pace duratura, l'Iraq men che meno, le strade del mondo si affollano di profughi, milioni che scappano e cercano asilo, mentre l'Occidente ha perso soldati e denaro per seguire missioni militari che offrono il pretesto per altro terrorismo, che a sua volta sarà pretesto per nuove guerre, seguendo una prassi violenta, spietata quanto inefficace.

Se nel 2001 Al-qaeda poteva rivendicare gli attentati parlando di bambini iracheni uccisi, è perché bambini iracheni sono stati uccisi durante la Guerra del Golfo del 1991. Se Isis può reclutare assassini tra le banlieu francesi non è perché in Occidente vivono troppi immigrati o troppi islamici, ma perché a costoro non è mai stato davvero concesso di far parte della comunità in cui geograficamente risiedono. Nel ribadire le colpe e le arretratezze, nell'ingigantire e falsificare, come ha fatto Oriana Fallaci, notizie e sensazioni su cui non è possibile verifica, nell'esaltare la nostra cultura come unica, e civile, e cristiana (pure se in realtà di influenze arabeggianti e islamiche è intrisa, alcune opere sorsero perfino dall'ingegno di prigionieri musulmani delle crociate) si finisce per marginalizzare, essenzializzare, disumanizzare l'altro, che vive da vittima, da sfruttato, o che si radicalizza, fomentando ancora, e ancora, e ancora quella spirale di occhio per occhio e dente per dente, di terrore e di sospetto, di attentati e di guerre, di una vendetta senza fine che non ha mai risolto i problemi del mondo.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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