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La Corte Costituzionale ribadisce che l’affettività è un diritto anche in carcere

La norma dell’ordinamento penitenziario che impone il controllo a vista dei detenuti durante i colloqui con i familiari è irragionevole, e quindi incostituzionale, perché slegata da ogni valutazione sulle effettive esigenze di sicurezza, oltre che contraria alla funzione rieducativa della pena.
A cura di Roberta Covelli
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Con la sentenza 10 del 2024, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la previsione penitenziaria che impone, in maniera assoluta e indiscriminata, il controllo a vista dei colloqui dei detenuti. Nella sua decisione, la Corte Costituzionale richiama i diritti della persona, la cui dignità deve essere conservata anche in carcere, ricostruisce il contesto giuridico italiano e sovranazionale e richiama, per l’ennesima volta, il legislatore alle sue responsabilità.

Il contrasto con i diritti dell’obbligo di controllo a vista nei colloqui dei detenuti

La norma contestata dinanzi alla Consulta è l’articolo 18 della legge 354/1975, sull’ordinamento penitenziario, che prevede che "i colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia".

Secondo il magistrato di sorveglianza di Spoleto, che ha sollevato la questione di costituzionalità su reclamo di un detenuto, la regola in questione sarebbe in contrasto con diverse norme costituzionali, dal momento che il controllo visivo costante e assoluto, anche nei colloqui con il coniuge, impongono al detenuto «un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità».

La libera espressione di affettività rientra infatti tra i diritti fondamentali della persona, che l’art. 2 Cost. riconosce all’individuo "sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Privare i detenuti dell’esercizio di questo diritto si tradurrebbe anche, secondo il magistrato di sorveglianza, in un’eccessiva compressione della libertà personale, tutelata dall’art. 13 Cost., oltre che in una lesione dei rapporti familiari, tutelati dalle norme costituzionali sulla famiglia (artt. 29-30-31).

Soprattutto, e sono proprio queste ultime le censure accolte dalla Corte Costituzionale, la norma penitenziaria appare in contrasto sia con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), sia con i diritti sovranazionali riconosciuti dalla CEDU, la Convenzione europea dei diritti umani, dal momento che la coattiva privazione di affettività si tradurrebbe in un trattamento inumano e degradante, in ogni caso inadeguato alla funzione di rieducazione e risocializzazione dei detenuti.

Il precedente del 2012 e il monito al legislatore

La Corte Costituzionale si era già espressa sull’art. 18 ord. pen. con la sentenza 301 del 2012. Il risultato, in quel caso, era stata la dichiarazione di inammissibilità della questione sollevata, e non solo perché il caso concreto non era illustrato adeguatamente. Secondo la Consulta, infatti, sarebbe stato necessario che il legislatore risolvesse, con norme chiare e misure operative, l’incostituzionalità segnalata, bilanciando il diritto all’affettività dei detenuti e dei loro partner con le esigenze di sicurezza.

Proprio per questo, anche in quel caso, nonostante l’inammissibilità della questione, la Corte aveva sottolineato il problema dell’affettività e della sessualità dei detenuti come meritevole di "particolare attenzione nelle competenti sedi politiche". In più di dieci anni, sul punto, il legislatore italiano ha fatto qualcosa, ma non abbastanza da risolvere la questione che ha condotto la Corte Costituzionale a quest’ultima decisione.

Le evoluzioni di norme e sensibilità: gli esempi italiani ed europei

Tra il 2017 e il 2018 ci sono state delle modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario, tra cui la previsione secondo cui "i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell'ingresso dell'istituto".

A questo si aggiungono le previsioni in materia di istituti minorili, con il riconoscimento del diritto a visite con i familiari medio-lunghe (più di quattro ore e meno di sei). Queste nuove norme lasciano intravedere una maggiore consapevolezza sulla necessità di spazio e tempo di risocializzazione del detenuto con le persone con cui ha stabili relazioni affettive.

La Corte costituzionale, nel dichiarare fondata la questione sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, sottolinea anche che "una larga maggioranza di ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi più o meno ampi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità". Tra gli esempi cita il sistema francese, con i parlatori familiari (parloirs familiaux) e le unità di vita familiare (unités de vie familiale) che cercano di preservare la dimensione domestica di visite e colloqui, nonché le comunicaciones íntimas del regolamento penitenziario spagnolo e le visite di lunga durata (Langzeitbesuche) previste nei regolamenti penitenziari di diversi Länder tedeschi.

La pena dei partner e il paradosso dei permessi premio

La Consulta, nel dichiarare incostituzionale la norma sui colloqui, sottolinea soprattutto la sua irragionevolezza: l'imposizione al personale di custodia nelle carceri di assistere ai colloqui, attraverso un controllo visivo costante, rappresenta infatti una misura assoluta, sproporzionata rispetto alle esigenze di ordine e sicurezza, oltre che lesiva non solo della libertà affettiva dei detenuti, ma anche di quella dei loro partner.

I familiari di un detenuto infatti, sottolinea la Corte, sono "persone estranee al reato e alla condanna", che pure subiscono un pregiudizio indiretto. Se pure è inevitabile che l'impatto della pena si riverberi in una certa misura sulle persone legate al condannato, è irragionevole privare del tutto detenuto e partner dell'intimità affettiva "quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza".

L'unica maniera attraverso cui un detenuto possa vivere le relazioni affettive con il partner è infatti al di fuori delle mura del carcere, durante l'eventuale fruizione dei permessi premio. Tanto il ricorrente, quanto l'associazione Antigone (intervenuta nel giudizio in qualità di amicus curiae) segnalano tuttavia due criticità, una di principio e una di fatto.

Da un lato, infatti, bisogna ricordare che l'esercizio dei diritti fondamentali non può rispondere a logiche premiali: se esiste una libertà legata all'individuo il suo esercizio deve essere garantito sempre, non come ricompensa.

Dall'altro, la fruizione dei permessi premio "resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria". Questi benefici infatti sono parte del trattamento penitenziario da cui quindi sono esclusi sia i detenuti in attesa di giudizio (che, è il caso di ricordarlo, sono presunti non colpevoli), sia i condannati a pene brevi, dal momento che i permessi premio sono concessi in caso di condanna superiore a quattro anni qualora sia già stato scontato più di un quarto della pena. Si arriva quindi al paradosso di privare del diritto all'espressione di affettività i detenuti con pene minori o perfino presunti non colpevoli.

L’irragionevolezza di una norma penitenziaria assoluta e inderogabile

La censura della Corte costituzionale tiene ovviamente conto delle esigenze di ordine e sicurezza. Restano infatti ferme le misure speciali di detenzione e di sorveglianza, ma si riconosce l'irragionevolezza di una norma che rischia di essere eccessivamente afflittiva in assenza di esigenze di sicurezza. La Consulta si limita quindi a rendere più flessibile la regola sul controllo a vista, considerandola derogabile in assenza di ragioni di sicurezza, giudiziarie o di mantenimento dell’ordine e della disciplina carceraria, e ricordando, di nuovo, che "la complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono sollecita ancora una volta la responsabilità del legislatore".

L'irragionevolezza denunciata riguarda insomma l'assolutezza della norma, che impedisce in ogni caso la libertà affettiva e sessuale, senza valutare le effettive esigenze di custodia.

Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società.

La "desertificazione affettiva" è contraria alla funzione rieducativa della pena

Il rientro in società del detenuto resta infatti un elemento centrale nella concezione (almeno teorica) della pena in uno stato di diritto. Proprio per questo, richiamando tanto l'art. 8 CEDU, quanto l'art. 27 Cost., la sentenza della Consulta sottolinea la funzione rieducativa alla base del trattamento carcerario, che non deve essere una misura solamente afflittiva, ma deve puntare al miglioramento umano e alla risocializzazione del condannato, che risulta già di per sé difficile in carceri sovraffollate, con carenza di risorse e investimenti.

Sul punto, sottolinea la Corte, il costante controllo a vista durante i colloqui con i familiari si pone in senso opposto alla funzione rieducativa:

Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di "desertificazione affettiva" che è l’esatto opposto della risocializzazione.

Al di là delle considerazioni etiche sui princìpi di dignità e civilità, la funzione rieducativa della pena, così come la tutela dei diritti e delle libertà dei detenuti, non è buonismo, ma un investimento sociale necessario. La delinquenza è infatti l'uscita dal contesto legale: il modo migliore per costruire una società più sicura è far sì che anche chi ha commesso reati abbia l'occasione di migliorare sé stesso, attraverso relazioni sociali di qualità e spazi di espressione. La sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale punta proprio a quest'obiettivo, riaffermando il diritto all'intimità e all'affettività dei detenuti e dei loro familiari, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità di una norma rigida e irragionevole, e con la speranza che il monito al legislatore sia finalmente raccolto.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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