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In Italia ci sono ancora bambini che vivono in carcere con i genitori

In Italia circa 100 mila bambini ogni anno varcano i cancelli di un carcere. Sono i figli dei detenuti, costretti a vivere sin da piccoli l’esperienza di colloqui e perquisizioni. In qualche caso, cresceranno dietro le sbarre assieme a loro. Ma come è possibile una cosa del genere?
A cura di Claudia Torrisi
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In Italia circa 100 mila bambini ogni anno varcano i cancelli di un carcere. Sono i figli dei detenuti, costretti a vivere sin da piccoli l'esperienza di colloqui, perquisizioni, grate e rimbombo di pesanti porte blindate. Tra questi, c'è chi cresce dietro le sbarre insieme al genitore, trascorrendo i primi mille giorni di vita, di fatto, da recluso. Un fenomeno che riguarda oggi pochi minori, ma ancora presente.

Secondo i dati ufficiali forniti dal ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2014 in Italia le detenute madri erano 27, e 28 i bambini con meno di tre anni che vivevano negli istituti penitenziari. Il numero è in decrescita: negli ultimi anni è oscillato tra 40 e 50, nel 2009 i minori erano 73 e 78 nel 2008. La cifra è diminuita con il modificarsi delle condizioni generali delle carceri italiane, il maggiore accesso a misure alternative per i reati minori.

Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, che la concede alle madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti.

Il carcere di Rebibbia a Roma è uno degli istituti provvisto di una sezione nido, che oggi ospita circa 16 bambini – quattro in più della capienza naturale – tra cui molti rom. Al suo interno lavora l'associazione A Roma, Insieme che si occupa di progetti per minori in carcere. I volontari in questi anni hanno raccolto tante testimonianze che dimostrano il disagio dell'infanzia dietro le sbarre: dal bambino che chiedeva, vedendo il mare, dove fossero i rubinetti da cui usciva tutta quell'acqua, a quelli che hanno paura di camminare su un prato perché non l'hanno mai fatto. Più di un bambino, ospite a casa di un volontario, ha fatto i complimenti per “la bella cella”. Con tutta la buona volontà degli operatori, i nidi degli istituti penitenziari restano quello che sono: parte di una prigione.

Eppure, una normativa per evitare l'ingresso dei minori in carcere esiste.

No ai bambini in carcere: una legge inapplicata

Nel 2001 è intervenuta la legge Finocchiaro, che ha introdotto modifiche al codice di procedura penale, favorendo l'accesso delle madri con figli a carico alle misure cautelari alternative. La questione è però rimasta inalterata per detenute rom, straniere o senza famiglia che, non avendo una dimora fissa, non possono usufruire degli arresti domiciliari. Il carcere come unica possibilità per i soggetti più deboli.

Per risolvere questo problema, nel 2011 è stata approvata una nuova legge che consente, salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati, la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta, dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, le madri possono portare a scuola i figli, assisterli in ospedale se sono malati. Niente sbarre, niente cancelli. Sono strutture inserite nel tessuto urbano, possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e devono rispecchiare le caratteristiche di una casa: spazi personali, servizi, luoghi per giocare.

“La Casa famiglia protetta è un luogo dove viene assicurata la vigilanza elementare, la più bassa soglia: quella degli arresti domiciliari. Quindi un passaggio periodico per controllare che siano ancora all'interno. Per il resto si tratta sostanzialmente di una condizione di normalità all'interno della casa, con la possibilità massima per i bambini di svolgere le attività ordinarie che un bambino dovrebbe svolgere”, spiega Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato.

A usufruirne dovrebbe essere chi non ha un posto dove andare. Non sempre donne che hanno commesso reati gravi, molto più spesso recluse semplicemente perché non hanno un domicilio alternativo. Come i rom, considerato che baracche e campi non sono considerati tali. Ma, nonostante la legge sia entrata in vigore il primo gennaio del 2014, di Case famiglie protette, al momento, non c'è neanche l'ombra.

Cosa sono gli Icam

“I circa 30-35 bambini reclusi si trovano attualmente in due tipologie diverse di istituti: nei reparti ordinari delle carceri, per esempio a Rebibbia o a Firenze, e poi negli Icam di Milano e di Venezia”, spiega Manconi. Gli Icam – acronimo che sta per istituto a custodia attenuata per detenute madri – sono delle strutture detentive più leggere, istituite in via sperimentale nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i figli. Sembrano quasi asili, con corridoi colorati, agenti in borghese e senza celle. “Ma è un carcere a tutti gli effetti, sotto il ministero della Giustizia. Non si può uscire e tutto il resto. Semplicemente ha un aspetto esteriore un po' più a misura di bambino. Invece la Casa famiglia protetta è pensata per l'esecuzione di misure alternative”, avverte Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell'associazione Antigone. Ma ci sono anche delle differenze pratiche: servono convenzioni tra il carcere e il Comune per poter far andare a scuola i bambini, bisogna trovare un pulmino che passi a prenderli, le persone che li accompagnino. Ci sono difficoltà anche in caso di emergenza sanitaria urgente. In Lombardia, per aggirare il problema, viene spesso usato l'escamotage di ricoverare la madre nei casi in cui è necessario che il figlio resti in ospedale, per consentire di superare le lungaggini burocratiche per ottenere un permesso.

“L'Icam non è la soluzione – dice Manconi – Ma l'alternativa all'Icam oggi continua a essere tenere i bambini in cella. Dieci anni fa nel carcere di Rebibbia ho visto donne detenute con figli che avevano messo dei maglioni attorcigliati agli angoli della rete delle brande di ferro pesante per evitare che le punte ferissero i loro bambini come era già successo”.

Pur con tutti i suoi difetti, dunque, l'Icam costituisce un progresso del sistema penitenziario, almeno finché le Case famiglia protette continueranno a mancare. Peccato che, nonostante la legge del 2011 preveda fondi per la costruzione di questi istituti, al momento ce ne siano attivi solo due.

Il primo Icam, in via sperimentale, è sorto a Milano. Fino al 2007 i bambini stavano dentro il carcere di San Vittore, dove le madri erano recluse assieme ai loro figli sullo stesso piano delle donne con problemi di dipendenza dalle droghe. In seguito è sorta quella di Venezia, accanto al reparto femminile del carcere.

La mancanza anche di queste strutture ha creato distorsioni e casi limite. Come quello accaduto nel carcere di Sollicciano, dove un bambino di sei anni, Giacomo, arrivato che aveva pochi mesi assieme alla madre, è rimasto recluso per più di cinque anni. Non aveva altri parenti, né un posto dove andare. Il luogo naturale, per le caratteristiche del caso, sarebbe stato un Icam. Ma l'istituto a Firenze non è mai sorto. Al rientro da una delle prime uscite, in un campo estivo con altri bambini, ha chiesto agli operatori: “Perché mi chiudono a chiave la sera quando torno a casa?”

Perché questi ritardi?

La legge 62 del 2011 prevede lo stanziamento di 11,7 milioni di euro destinati alla costruzione delle Icam e nessun finanziamento per le case protette. Questo dipende dalla differenza tra Icam – che sono sotto il Dipartimento di amministrazione penitenziaria – e le Case famiglia, che devono essere gestite, non più dall’amministrazione penitenziaria, ma da privati ed enti locali.

L’articolo 4 della legge 62 dice che il ministero “può stipulare convenzioni con enti locali per l’individuazione delle case famiglia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Qualsiasi costo riguardante le Case protette deve ricadere, dunque, per legge su Regioni e Comuni e non sullo Stato. Secondo Marietti, è proprio qui che sta il problema: “Queste strutture non devono comportare oneri pubblici e devono essere individuate con l’aiuto degli enti locali che al momento hanno altre priorità dal punto di vista economico. Non ci sono soldi e tutto sommato è un problema che incide più sulle singole vite delle persone che sulle statistiche”.

L'associazione A Roma, Insieme aveva proposto di devolvere agli enti locali una piccola parte degli 11,7 milioni stanziati per gli Icam alla costruzione delle Case famiglia protette. L'idea però non ha trovato riscontri, ed è caduta nel vuoto.

Per Manconi, comunque, la ragione del ritardo e mancata applicazione della legge non è una questione di soldi, ma di “assenza di volontà politica”. Basterebbe, secondo il senatore, “trovare uno sponsor che investa la miseria che serve per ristrutturazione e arredamento di questi luoghi. È possibile che non si trovi nessuno disposto? La questione poteva essere risolta subito dopo la riforma, perché nel più pessimista dei casi il fabbisogno è di cinque o sei appartamenti in tutta Italia. Fate il calcolo di quanto potrebbe costare una struttura del genere. Stiamo parlando di cifre irrisorie”. Tra l'altro, prosegue il senatore, con la Casa famiglia “l'ente locale risparmierebbe, perché eviterebbe di spendere di più negli altri servizi collaterali, come, ad esempio, i pulmini per l'asilo o altri spostamenti, l'assistenza”.

Un passo avanti, recentemente, è stato fatto dal Comune di Roma, che, grazie a un accordo tra tribunale e Dap ha individuato due edifici all'Eur sottratti alla mafia che potrebbero ospitare una Casa famiglia protetta. Un piccolo progresso, che invita, secondo Manconi, a un “cauto ottimismo”, nella speranza di cancellare “l'iniquità più oltraggiosa del nostro sistema penitenziario”.

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