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Opinioni

Il caso Suarez non è solo calcio: è una questione di disuguaglianze e capitale

L’inchiesta sull’esame di italiano per la cittadinanza del calciatore uruguayano non è una questione sportiva ma socio-economica: tra agevolazioni fiscali e trucchi per aggirare i regolamenti sui giocatori extracomunitari, viviamo in un sistema in cui la ricchezza compra i diritti, che così diventano privilegi.
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A cura di Roberta Covelli
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Potrebbe essere truffa, corruzione o soltanto sudditanza psicologica quella che avrebbe oliato i meccanismi di valutazione linguistica per l’esame di Suarez, garantendogli così i requisiti per ottenere la cittadinanza italiana. La notizia però non può riguardare solo l’ambito calcistico, né ridursi a un semplice caso di cronaca giudiziaria. Dovrebbe piuttosto essere l’occasione di osservare, con il dovuto spirito critico, un sistema socio-economico basato sulla disuguaglianza, in cui, più che il tema dell’immigrazione, risalta quello del capitale. Ma facciamo un passo indietro, al motivo per cui sarebbe stato urgente per Suarez ottenere la cittadinanza italiana.

Calciatori extracomunitari e trucchi di cittadinanza

Diverse federazioni calcistiche europee impongono limiti al tesseramento di giocatori extracomunitari. Mentre infatti i cittadini di paesi membri dell’UE hanno la piena libertà di circolazione (e a livello calcistico questa libertà è stata ribadita fin dal 1995 dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza Bosman), gli atleti extracomunitari devono confrontarsi con i regolamenti delle federazioni nazionali. La Federcalcio, ad esempio, per le squadre di Serie A prevede due tesserati extracomunitari all’anno (con varie differenze a seconda del numero di tesserati già presenti nelle file della società), la federazione francese ne prevede al massimo quattro, quella spagnola al massimo tre. Ogni società, però, trova il modo per garantirsi la rosa prescelta, a prescindere dalla nazionalità dei calciatori, sfruttando le ambiguità dei regolamenti o servendosi di leggi nazionali, spesso previste ad hoc. Così, in Italia, nel computo dei tesserati non rientrano i giocatori in prestito, e semplicemente ci si accorda tra le società per acquisti e cessioni, sfruttando gli slot disponibili di altre squadre. O, ancora, la Spagna che prevede, complice l’omogeneità linguistica, che per un atleta proveniente dall’America latina (come Messi e Godìn, ad esempio) il periodo di residenza per ottenere la cittadinanza sia ridotto a due anni (invece di dieci) o a un anno in caso di matrimonio con una persona avente la cittadinanza spagnola.

Ridurre le tasse per attrarre capitali: dalla Ley Beckham al Decreto Crescita

La normativa speciale sullo sport, o, meglio, sugli sport redditizi, come il calcio, non riguarda solo le leggi su cittadinanza e immigrazione. Basti pensare, sempre riguardo alla Spagna, alla cosiddetta Ley Beckham, il decreto che abbassava la tassazione per gli stranieri con redditi superiori ai 600.000 euro l’anno dal 43% al 24%, o alla possibilità per i club sportivi che avessero chiuso i bilanci in utile di non sottostare all’obbligo di trasformarsi in società per azioni, ma di proseguire con lo stesso regime fiscale degli enti no profit (opzione che venne adottata da Real Madrid e Barcellona). L’attrazione dei calciatori in Spagna è quindi senz’altro dipesa dalle caratteristiche tecniche del calcio iberico, ma il legislatore non ha rinunciato a oliare i meccanismi di fascino anche sul piano economico: il risultato, calcistico si intende, è di otto Champions League vinte da squadre spagnole in quindici anni (nei quindici anni precedenti il bottino era della metà).

L’Italia sembra aver tratto ispirazione dall’esperienza spagnola: con la legge di stabilità del 2017, prima, e con il cosiddetto Decreto Crescita del 2019, poi, la tassazione per chi porti in Italia grandi capitali è più che sostenibile. Scegliendo il regime sostitutivo previsto dalla normativa del 2017, si può infatti pagare una cifra forfettaria per i redditi prodotti all’estero: poca cosa, insomma, per cifre anche enormi (il reddito di Cristiano Ronaldo nell’anno precedente al trasferimento alla Juventus si aggirava intorno ai 55 milioni di euro: la tassa fissa da 100mila euro ne costituisce lo 0,002%). Non solo. Con il Decreto Crescita, che modifica in parte una previsione simile del 2015, la base imponibile per gli sportivi provenienti dall’estero è ridotta al 50% se si impegnano a mantenere la residenza fiscale in Italia per i successivi due anni: le tasse, insomma, si calcolano solo su metà dell’ingaggio e questo permette alle società di essere più competitive nel calciomercato internazionale. L’avvento di CR7 e i rumors estivi sugli arrivi di Messi e Suarez in Italia possono allora sì essere letti romanticamente come l’attrazione per il paese di Totti e Del Piero, ma ipotizzare che c’entrino qualcosa le agevolazioni fiscali, in una realtà in cui i movimenti di capitali sono ingenti, non è un’ipotesi infondata. A conferma stanno le dichiarazioni di Tebas, a capo della Liga, che si lamenta da almeno tre anni della maggior attrattività fiscale di Italia, Francia e Inghilterra e propone che la Spagna riduca ulteriormente le aliquote per i calciatori.

Il caso Suarez non può stupire

Ma torniamo al caso di cronaca e a come Suarez, nonostante le scarse conoscenze linguistiche, abbia potuto ottenere la certificazione B1 in italiano, che gli garantirebbe i requisiti per la cittadinanza italiana (e questo basta, essendo il calciatore sposato con Sofia Balbi, discendente di italiani e dunque cittadina italiana per ius sanguinis). A prescindere da come proseguiranno le indagini e dalle responsabilità che dovessero emergere, c’è una frase dalle intercettazioni che mostra chiaramente quale sia il punto da cui dovrebbe partire ogni riflessione sul tema: "Con uno stipendio da 10 milioni deve passare l'esame".

La questione sta tutta lì, non c’entra il calcio, non c’entra il controllo dei flussi migratori: c’entra il denaro che si può investire per ottenere quel che sarebbe un diritto e che invece diventa un privilegio. Perché se ci sono state pressioni da parte del calciatore o della società sportiva, o se c’è stata sudditanza spontanea da parte dell’università, lo scopriranno gli inquirenti, quel che invece chiunque può notare è che il reddito cambia lo status di persona, straniero o italiano che sia. La stessa imposizione di una certificazione linguistica per ottenere la cittadinanza, unita a tutti gli altri documenti necessari anche per un semplice permesso di soggiorno, scavano sempre più il solco delle disuguaglianze: gli esami di certificazione si concentrano anche su competenze linguistiche, grammaticali e di sintassi (la coniugazione dei verbi, la declinazione dei complementi…), che si acquisiscono con lo studio più che con l’uso. La differenza tra cittadinanza o permesso di soggiorno, allora, è tra lo straniero che possa permettersi un corso di preparazione all’esame (o la stessa iscrizione all’esame) e quello che fa più fatica a ritagliarsi del tempo per studiare per la certificazione (o, allargando il campo, che possa permettersi ricorsi contro decisioni amministrative arbitrarie o sbagliate).

Suarez non passa l’esame perché è bravo con i piedi, né perché conosce la materia su cui deve essere valutato: passa l’esame perché è ricco. Ed è la stessa ragione per cui, con le nostre leggi, abbiamo deciso di favorire fiscalmente coloro che stabiliscano qui la loro residenza fiscale, che si chiamino Cristiano Ronaldo, Messi o Suarez.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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