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Opinioni

Il caso Sea Watch 3 è la dimostrazione dell’incapacità del governo

Ancora una volta il governo italiano ha scelto la strada degli slogan e della propaganda rispetto a quella della soluzione dei problemi. Ve lo avevamo detto: quello dei porti chiusi era un imbroglio, utile solo ad attivare la macchina della propaganda salviniana in casi del genere. Che ha nelle ONG il “nemico perfetto”, dietro cui mascherare l’incapacità di affrontare una questione complessa.
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Quello che riguarda la Sea Watch 3 non è un caso isolato, né imprevedibile. È il risultato di una lunga sequela di eventi ed errori, ricostruibile nelle sue tappe principali, fino a quello che è un esito tutto sommato abbastanza prevedibile. Lo stallo di cui sono vittime i 42 migranti a bordo della Sea Watch 3 da oltre due settimane è l’ennesima conferma di un fatto che persiste, malgrado la propaganda del governo: l’Italia non ha una linea di condotta chiara in tema di partenze dalle coste dell’Africa verso il nostro Paese. Come vi raccontavamo in tempi non sospetti, la realtà che si cela dietro gli annunci e gli slogan racconta tutta un’altra storia: da mesi non ci facciamo più carico delle chiamate di soccorso che giungono in area SAR libica o maltese (rimpallando tutto alla sedicente Guardia Costiera libica), il MRCC di Roma non coordina più i soccorsi, non diamo più supporto e aiuto a La Valletta, abbiamo sostanzialmente azzerato il nostro impegno nella search and rescue, nei casi che si presentano ci rifiutiamo di indicare un place of safety e non autorizziamo il trasferimento in Italia dei migranti soccorsi dalle ONG. Una non gestione, insomma.

Cominciamo dalla fine, ovvero da quello che sarebbe dovuto essere l'epilogo della vicenda Sea Watch 3. La decisione di Carola Rackete, capitana della Sea Watch 3, di entrare nelle acque territoriali italiane, dirigersi verso Lampedusa e successivamente entrare in porto (stante l'assenza di comunicazione delle autorità italiane, malgrado lo "stato di necessità" dichiarato dall'imbarcazione), ha rotto uno stallo che durava da oltre 14 giorni, mettendo fine a una vera e propria odissea per i 42 migranti ancora a bordo (11 erano stati evacuati per ragioni mediche nei giorni precedenti). Quella della capitana della Sea Watch 3, però, oltre a essere supportata da decine di trattati e convenzioni internazionali, è stata una decisione dettata anche dalla constatazione dell'insostenibilità a lungo termine di una situazione ormai cristallizzatasi, a tutto danno di 42 vite umane.

La nave della ONG tedesca, che batte bandiera olandese, era stata costretta a stazionare al limite delle acque territoriali italiane dopo che il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva diramato un “divieto di ingresso, transito e sosta per la nave Sea Watch 3 nelle acque italiane, come previsto dal nuovo Decreto Sicurezza”. La scelta del governo italiano non rispondeva ad alcuna strategia nel breve, medio o lungo periodo: non c’era né una ipotesi alternativa, né un lavoro diplomatico in corso, né un qualunque ragionamento che andasse oltre la propaganda politica. Governo, maggioranza parlamentare e parte dell’opposizione (si fa per dire…) per giorni hanno ripetuto la cantilena del “portateli in Libia, in Tunisia, in Olanda o in Germania”, senza preoccuparsi di trovare una vera soluzione al caso. L’opzione Tunisia non è mai stata in campo, quelle Germania e Olanda apparirebbero ridicole a chi abbia almeno completato il programma di geografia della scuola primaria, mentre sulla Libia evidentemente la questione è più complessa. Perché sul punto la divisione è netta: il governo italiano considera la Libia un interlocutore affidabile, tanto da regalare alla sedicente Guardia Costiera motovedette e addestramento militare; le ONG non riporterebbero mai un migrante che scappa dalla Libia in Libia, neanche su esplicita indicazione delle autorità di Tripoli, confortate dalle posizioni di ONU, Commissione Europea e decine di organizzazioni indipendenti che non considerano la Libia un posto sicuro. Dunque, dopo 14 giorni di attesa di una soluzione politica, che non poteva arrivare perché il governo italiano non aveva e non ha la capacità, la forza o la voglia di trovarla, la capitana ha scelto di violare la direttiva di Salvini, di non rispettare l'alt delle motovedette della Guardia di Finanza e di provare a entrare nel porto di Lampedusa, accettando di spegnere i motori a un miglio dall'isola italiana.

Ora, ha senso che un ministro dell'Interno continui a ripetere "portateli in Libia, in Tunisia, in Olanda o in Germania" ben sapendo che ciò non accadrà mai? O da chi ricopre un ruolo istituzionale ci si aspetta che tenti di risolvere un problema, anche nella considerazione del fatto che 42 persone non sono e non possono essere in alcun modo un problema? Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, non c'è slogan che possa sostituire l'azione politica, non c'è modo di risolvere un problema di dimensioni enormi con cinismo e menefreghismo.

Conosciamo la risposta: il ministro dell'Interno di una nazione come l'Italia non può cedere ai ricatti di una ONG, tutti sono tenuti a rispettare la sovranità e le leggi dello Stato. Ma il piano del diritto non può sovrapporsi a quello della propaganda politica e Salvini sembra non averlo ancora compreso in pieno. Subito dopo la notizia dell'ingresso della Sea Watch nelle acque territoriali italiane, il ministro dell'Interno si è lanciato in una rabbiosa diretta sul suo profilo Facebook durante la quale ha: minacciato una cittadina europea, la capitana della nave, di "gravissime conseguenze", anticipando e scavalcando il lavoro dei magistrati; minacciato l'utilizzo della forza pubblica per impedire lo sbarco di 42 naufraghi, tra cui minori e richiedenti protezione internazionale, in violazione di trattati e convenzioni; minacciare di ritorsioni due Paesi dell'Unione Europea, Olanda e Germania.

Anche mettendo da parte considerazioni di carattere politico, ideologico, morale, la linea di Salvini appare debole, raffazzonata, scomposta. Partiamo dalla questione dell'arresto della capitana, che ricorda una triste dichiarazione di qualche mese fa, quando Salvini voleva che i migranti scendessero "in manette" dalla Diciotti. Alla considerazione che il ministro dell'Interno, per fortuna, non può intimare l'arresto di chicchessia, si aggiunge anche la non conoscenza delle disposizioni che portano la sua stessa firma. Certamente, infatti, Rackete non può essere arrestata per aver violato il divieto di ingresso in Italia: in primis, come ha spiegato l’avvocato Masera a Fanpage.it, “se l'ordine non è legittimo, come potrebbe facilmente accadere in questo caso in quanto viola il diritto internazionale, la trasgressione non comporta alcuna responsabilità”, ma se anche “fosse ritenuto legittimo, la violazione di un ordine dell’autorità configura un reato molto lieve, per cui non è in alcun modo possibile arrestare una persona”. Quello di Salvini è un atto amministrativo, la cui violazione è punita con una sanzione o una pena detentiva comunque lieve, sempre ammesso che i giudici non rilevino appunti profili di illegittimità o di preminenza del diritto internazionale. Ci sono molti dubbi anche sulla possibilità di sequestrare la nave, perché il decreto sicurezza bis parla esplicitamente di "reiterazione commessa con l'utilizzo della medesima nave " (con molti dubbi sulla retroattività) e solo un’interpretazione capziosa della condotta della Sea Watch 3 potrebbe consentire l’applicazione della misura cautelare. Quanto alla multa, da 10mila a 50mila euro, il crowdfunding dei cittadini ha già dato una risposta. Rackete è indagata dalla procura di Agrigento per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione dell'articolo 1099 del codice della navigazione, contestato al comandante che decide di non obbedire all'ordine di una nave da guerra nazionale, atti dovuti e prevedibili, su cui ora attenderemo gli sviluppi.

Nel frattempo, ci sarebbe un aspetto di cui si parla sempre meno: ora l'Italia dovrebbe adempiere ad obblighi internazionali, consentire eventuali richieste di protezione internazionale e mettere in sicurezza persone che sono sul territorio italiano. Qualunque altra opzione, trattati e leggi alla mano, non è percorribile: i migranti devono scendere dalla nave, essere accolti e messi in sicurezza. Il lavoro diplomatico per una sistemazione successiva ha senso solo in questo contesto. Così come ora ha poco senso dibattere del Regolamento di Dublino, la cui revisione è stata affossata anche da Lega e M5s, oltre che dagli amici di Salvini in Europa. E ha ancor meno senso parlare di porti chiusi e "in Italia si sbarca solo chiedendo permesso": i barchini dalla Tunisia arrivano con regolarità (la Guardia Costiera italiana si limita ad attendere i “bersagli” in un’area più circoscritta, senza fare SAR ma “interventi di polizia”, che non richiedono assegnazione del POS), gli sbarchi non si sono mai fermati e la stragrande maggioranza di essi viene gestita senza problemi di alcun tipo, la capacità operativa di Lampedusa è stata più che dimezzata, con una scelta miope che ci ha reso sempre meno in grado di controllare chi arriva e, ovviamente, di salvare vite umane in mare aperto.

È che, ancora una volta, si è scelto di alimentare il fuoco della polemica contro le ONG, in ossequio a una campagna di criminalizzazione cominciata con Minniti, che ha regalato a Salvini il "nemico perfetto" dietro cui mascherare l'incapacità di affrontare una questione che, piaccia o meno al ministro, è soprattutto umanitaria.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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