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Giorgia Meloni attacca Landini per il suo “cortigiana”, ma sorride al maschilismo di Trump

Il segretario della Cgil critica la presidente del Consiglio per servilismo, ma lei sceglie di indignarsi per il significato sessista di una parola. Questo vittimismo mediatico è la conferma dell’uso strumentale di argomenti femministi: la leader di Fratelli d’Italia non si ribella mai verso chi sta sopra, attacca sempre e solo chi sta sotto. Ed è proprio per questo che il patriarcato la tollera, e anzi la esalta.
A cura di Roberta Covelli
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Lunedì 13 ottobre 2025, Egitto, Sharm el-Sheikh: Giorgia Meloni, unica donna tra i leader invitati, presenzia alla cerimonia della firma del (cosiddetto) Piano di Pace per il Medio Oriente. Poche ore dopo, ospite di Giovanni Floris a Di Martedì, Maurizio Landini, interpellato sull’accordo tra Israele e Hamas, rivendica le mobilitazioni di lavoratrici e lavoratori scesi in piazza al fianco del popolo palestinese, contrapponendo all’esempio di lotta popolare una dura critica alla Presidente del Consiglio. Secondo il segretario della CGIL, infatti, Meloni si "è limitata a fare la cortigiana di Trump e non ha mosso un dito".

Ci sono voluti due giorni perché Giorgia Meloni estrapolasse dal discorso la parola cortigiana per costruirne una narrazione vittimista contro la sinistra. Che la reazione arrivi con questo ritardo lascia sospettare un tentativo di distrazione dalle decisioni del Consiglio dei Ministri, chiamato proprio oggi a deliberare sulla manovra finanziaria, ossia il provvedimento su cui qualunque governo misura lo scarto tra propaganda e amministrazione, tra promesse e azioni. Ma proviamo a ignorare la coincidenza temporale e concentriamoci sulla denuncia di Meloni: davvero Landini le ha dato della prostituta?

Ma davvero Landini ha dato della prostituta a Meloni?

La critica di Maurizio Landini era evidentemente politica. Lo si coglie già dalla frase incriminata, in cui la parola "cortigiana" è accompagnata dal concetto "senza muovere un dito": l’allusione all’inerzia esclude per forza l’accezione sessista (salvo non ammettere l’esistenza di prostitute immobili).

A togliere ogni dubbio sull’intento del sindacalista c’è l’invito alla chiarezza da parte di Giovanni Floris. Il conduttore intravede subito il rischio di polemica e consente così a Landini di precisare: "stare alla corte di Trump, essere il portaborse di Trump", chiarisce.

La critica è quindi alla subalternità, alla passività, al mancato esercizio di autonomia politica: è un attacco al servilismo, alla compiacenza verso il potere, non un riferimento alla prostituzione.

Resta però il fatto che la parola "cortigiana", come molte forme femminili nella lingua italiana, porta con sé un’accezione sessista che non può essere ignorata.

Sessismo e patriarcato: anche Giorgia Meloni ne è vittima

Stupisce però che questa attenzione arrivi proprio da Giorgia Meloni, specie dopo i giorni di Sharm el-Sheikh, in cui gli attacchi sessisti nei suoi confronti non sono mancati.

Donald Trump, ad esempio, non ha esitato a presentarla come "a beautiful woman", una bella donna, aggiungendo con il solito tono vittimista che negli Stati Uniti una frase del genere gli sarebbe costata la carriera, tra cultura woke e politically correct. Anche Recep Tayyip Erdogan si è sentito in diritto di rivolgersi alla leader di Fratelli d’Italia con un consiglio paternalista, invitandola a smettere di fumare.

In quanto donna, Giorgia Meloni sarà sempre esposta ai meccanismi patriarcali: commenti sul corpo, discorsi paternalisti, apprezzamenti maschilisti. Eppure, al tempo stesso, ha scelto di essere parte integrante di questo sistema, contribuendo a confermare le regole di una grammatica del potere pensata dagli uomini per gli uomini, di cui lei stessa ha deciso di farsi fiera interprete.

Da vittima a carnefice: il presidente e la grammatica del potere

Nel 2022, il primo atto ufficiale del suo governo, la prima nota emanata da Palazzo Chigi, ha chiarito che a Giorgia Meloni occorre riferirsi come IL presidente. Al maschile, nonostante lei sia donna (e madre, italiana, cristiana, eccetera).

Non è un dettaglio: affermare autorità secondo le regole maschili del potere rafforza l’idea che la leadership politica sia un dominio maschile e riduce lo spazio simbolico per le donne in ruoli di vertice. Come sostenuto da Giulia Blasi, la nomina della leader di Fratelli d’Italia alla presidenza del Consiglio è sicuramente una conquista delle donne, ma non una conquista per le donne: Giorgia Meloni è una femmina, non una femminista.

Questa polemica ne è la riprova. Dopo aver sorriso a Trump che la riduceva a un corpo femminile piacente, dopo aver sopportato Erdogan che le rivolgeva consigli personali non richiesti in un contesto istituzionale, Meloni attacca Landini soffermandosi per la prima volta sul significato sessista della declinazione femminile, deviando l'attenzione dalla dura critica di merito.

L'attacco di Landini, nella sostanza, dovrebbe infatti essere estremamente offensivo per Giorgia Meloni, non in quanto donna, ma in quanto presidente del Consiglio, e in quanto leader sovranista. E allora perché Giorgia Meloni sceglie di scandalizzarsi per la forma? Perché finge di fraintendere il valore politico della critica? Perché è funzionale alla sua propaganda, alla strategia comunicativa ormai rodata: isolare una parola, un concetto, costruirci sopra un attacco, mostrare del fiero vittimismo e aizzare l'indignazione pubblica, meglio ancora se accusando gli avversari di ipocrisia o violenza.

E, intanto, distrae dalla sostanza. Distoglie l'attenzione dalla critica di merito (al servilismo, alla compiacenza, alla subalternità), devia lo sguardo dalla manovra finanziaria, e utilizza, strumentalmente, annacquandoli, argomenti femministi. Ma, nell'attaccare Landini, Meloni non difende le donne, difende soltanto sé stessa.

La riflessione femminista sulle parole è, prima di tutto, un'analisi del potere. Non è mai stato un problema dire l’operaia, la maestra, la cameriera. Le perplessità grammaticali arrivano solo quando bisogna parlare di una presidente, di una ministra, di una direttrice. È il segno che il problema non è linguistico, ma politico.

Per questo ogni critica all’egemonia patriarcale che attraversa anche il linguaggio non può fermarsi alla forma: deve guardare alla sostanza dei rapporti, deve riconoscere le dinamiche di dominio che la generano. E Giorgia Meloni non si ribella mai verso chi sta sopra, attacca sempre e solo chi sta sotto. Ed è proprio per questo che il patriarcato la tollera, e anzi la esalta: perché ne rispetta le regole, le replica, e pretende perfino di piegare la grammatica pur di conformarsi al maschile che comanda. Come un perfetto cortigiano.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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