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Coronavirus, gli aiuti economici andranno anche alle aziende che eludono le tasse

La proposta è quella di non far arrivare prestiti e sovvenzioni alle aziende che hanno sedi o holding nei paradisi fiscali. Non possono però essere inclusi gli Stati dell’Unione europea, le regole di Bruxelles lo impediscono. Per Fassina, che ha presentato un emendamento al decreto imprese, “l’Italia deve comunque andare avanti, anche in caso di procedura di infrazione”.
A cura di Gloria Bagnariol
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Ogni anno in Italia si perdono fino a otto miliardi di dollari per colpa dell’elusione fiscale. Tasse che dovrebbero andare allo Stato e che invece rimangono nelle casse di alcune multinazionali o finiscono in quei paesi che applicano una cosiddetta “politica fiscale aggressiva”. La cifra – calcolata dall’Antitrust – non tiene conto di quelle imposte evase di cui si nutrono i paradisi fiscali, ma tenta di dare una dimensione al fenomeno del dumping fiscale. Ossia quella pratica per cui grazie a un intricato sistema di holding, la possibilità di avere la sede legale anche dove non si generano la maggior parte dei profitti e l’abilità necessaria per aggirare regole e cavilli, le grandi aziende nascondono al fisco italiano una parte dei loro guadagni e alcuni Stati riescono ad aggiudicarsene una porzione.

Lo shock economico causato dal Coronavirus potrebbe essere l’occasione per cambiare le regole e le spinte per una maggiore giustizia fiscale arrivano da più parti. La richiesta è semplice: escludere dagli aiuti economici quelle imprese che evadono o eludono le tasse. Il modo per attuarla è però più complesso e può vanificarne l’obiettivo. Provvedimenti in questo senso sono già stati presi in Argentina, mentre nell’Unione europea a fare da apripista sono state Finlandia e Polonia. L’intenzione è condivisa anche dalla Francia, il ministro all’Economia Bruno Le Maire ha chiarito che lo Stato non darà liquidità a quelle aziende che hanno sede o holding nei paradisi fiscali.

Nel nostro paese se ne è iniziato a parlare con la petizione lanciata da Nens. Il centro studi sull’economia fondato da Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani vorrebbe che: “gli aiuti erogati dallo Stato e dagli enti locali a qualsiasi titolo per sostenere le imprese nazionali in questo drammatico momento non vengano riconosciuti, direttamente o indirettamente, a società con sede all’estero e nei paradisi fiscali, compresi quelli di fatto esistenti nell’Unione europea, come l’Olanda, il Lussemburgo, l’Irlanda, Malta, Cipro, Ungheria”. La proposta viene portata avanti anche da Stefano Fassina (LeU) che in uno degli emendamenti presentati al decreto imprese chiede che gli aiuti vadano alle aziende che hanno la sede fiscale e legale in Italia, per Fassina: “Il mercato unico europeo è strutturalmente un fattore di dumping sociale e fiscale, era insostenibile prima della pandemia e adesso è ovviamente inaccettabile. Dobbiamo contenere gli effetti regressivi del mercato unico con tutte le iniziative possibili, portando avanti una battaglia sistemica. L’emendamento affronta una porzione ristretta, ma è comunque imprescindibile in termini di giustizia sociale”.

Roma però ha le mani legate dalle regole di Bruxelles che prescrivono la libertà di movimento dei capitali. Non può rifiutarsi di dare aiuti sulla base della residenza all’interno dell’Unione. Certo, è libera di escludere le multinazionali che risiedono nei paradisi fiscali, ma deve rispettare la definizione che ne dà l’Ue, e in questa non rientra nessuno Stato Membro. Per Fassina “l’Italia deve comunque andare avanti e sostenere la ragionevolezza di questa posizione davanti alla Corte di giustizia quando inizierà il provvedimento di infrazione”.

Negli ultimi anni dalll’Ue sono fioccate misure contro la concorrenza sleale della grandi multinazionali. La punta dell’iceberg è stata la maxi multa alla Apple, che ha pagato più di 14 miliardi per chiudere il caso, ma sono arrivate sanzioni anche a Google, Amazon e Facebook. Le regole però continuano a essere ancora troppo larghe e ci sono molti strumenti completamente legali per eludere il fisco. Uno dei numeri che lo dimostra è quello sugli investimenti esteri: l’Italia ne attira per il 19 per cento del suo Pil, il Lussemburgo arriva a 5.790 per cento, l’Olanda al 535 per cento e l’Irlanda al 311 per cento.  Tax Justice Network, un’associazione che si occupa di giustizia fiscale, ha calcolato che ogni anno l’Unione europea perde 27 miliardi di dollari. Per fare un paragone, il primo pacchetto dell’Ue sul Coronavirus ha mobilitato 37 miliardi di euro.

Il terreno delle richieste deve spostarsi a livello Ue, dove per qualsiasi misura fiscale è necessaria l’unanimità del Consiglio. Un impasse che fino a ora ha bloccato modifiche strutturali. A dicembre dell’anno scorso il Parlamento europeo è tornato a esprimersi chiedendo “una posizione europea ambiziosa. Le aziende devono pagare le tasse dove hanno effettivamente i loro guadagni”, ma anche la risoluzione votata a Strasburgo è stata troppo timida nelle condizioni concrete. In quell’occasione Paolo Gentiloni, responsabile a Bruxelles per l’Economia, ha promesso che la Commissione si sarebbe impegnata entro la fine del 2020. Con la pandemia del Covid-19 le misure ordinarie rischiano di essere pesantemente ritardate, ma se l’intenzione è quella di affrontare alla radice le ingiustizie del dumping fiscale non si può aspettare che il virus venga derubricato a emergenza del passato.

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