
Chi è nato alla fine del Novecento fa parte di una generazione cresciuta nell’antimilitarismo in purezza, Gandhi, Aldo Capitini, obiezione di coscienza, 3 milioni di persone in piazza contro la guerra in Iraq, marcia Perugia-Assisi, Gino Strada.
La prima generazione che ha cominciato a sentirsi europea non è quella che chiamiamo approssimativamente generazione Erasmus, che andava a fare le vacanze studio a Londra o progettava un Interrail tra Parigi, Bruxelles e Amsterdam. Le figure simboliche della nascita dell’Europa, tra gli anni Novanta e i Duemila – fuori dalla solennità dei trattati economici e politici – erano quelli che partivano per fare i volontari pacifisti nella guerra nell’ex Jugoslavia, o quelli che si sobbarcavano venti ore di treno per protestare a Davos o trenta ore di pullman per arrivare a Russell square a Londra e manifestare contro l’intervento armato in Iraq.
L’Europa non è nata a Schengen, a Maastricht e nemmeno a Lisbona, ma a Srebrenica nel 1995 con l’ondata di rabbia che seguì in ogni paese quando si scoprirono quei massacri, o a Genova nel 2001 – quando per la prima volta temi come l’ecologia, un nuovo welfare, i diritti civili, il pacifismo e il contrasto a un capitalismo estrattivo furono posti al centro dell’agenda politica.
È chiaro che quell’idea di Europa, che negli anni Novanta era stata vissuta e pensata da quello che allora si definiva scivolosamente movimento no global – che invece era esplicitamente un movimento internazionalista e pacifista che si opponeva alla finanziarizzazione dell’economia, alla chiusura degli spazi di partecipazione politica, al potere crescente delle corporation e alla conseguente perdita di diritti sociali – non è stato il collante ideale dei cinquecento milioni di persone che oggi sono gli abitanti dell’Unione europea.
Dal G8 di Genova in poi, classi politiche inadeguate hanno lucrato sul risentimento, immaginando che l’Europa dovesse trasformarsi in un’isola dei privilegi e delle disuguaglianze, hanno imposto ai paesi economicamente più deboli come la Grecia una forma di colonialismo interno e hanno finito per far diventare l’unione politica una fortezza protetta dalla polizia di Frontex e il Mediterraneo il luogo di uno sterminio tanto permanente da non essere più nemmeno avvertito.
Ma questa ideologia è stata fallimentare. Quell’idea di fortress Europe, di privilegio dell'Occidente, non ha più retto semplicemente sotto il peso del principio di realtà: la globalizzazione delle culture e non solo delle economie, ondate migratorie di massa, cambiamenti climatici, un universalismo che ancora resiste nonostante si sia fatto di tutto per contrastarlo, neutralizzarlo, delegittimarlo.
Oggi il governo europeo, il governo italiano, il ministro della Difesa Guido Crosetto, ogni giorno cercano il modo di minare alla base questa cultura di massa, pacifista e internazionalista. Ma l’operazione di propaganda non è diretta e aggressiva, quanto a lungo termine e manipolatoria. Da diversi anni il ministero della Difesa nelle sue comunicazioni non parla più esplicitamente di riarmo, o di militarizzazione. L’espressione che ha sostituito il binomio riarmo e militarismo è “cultura della difesa” o anche “cultura della difesa e della sicurezza”.
Gli enti istituzionali, i think tank, le lobby formali e informali che ormai si muovono con questa nuova categoria concettuali sono numerosissime. Sul sito dell’Huffington Post si può trovare una sintesi di questo genere di visione di due giorni fa. Michele Nones a nome dell’Istituto affari internazionali fa sua un’argomentazione che possiamo trovare simile in tanti contesti: l’Italia non ha mai avuto una cultura della difesa, anche il fascismo non è riuscito a instillarla perché aveva un esercito inadeguato e soprattutto perché ha perso la guerra. Oggi avremmo la grande occasione di rovesciare questa storia, e emanciparci dall’“illusione pacifista”.
Bisogna ancora una volta prendere atto che l’illusione pacifista è così radicata nel nostro Paese da non riconoscere l’evidenza dei fatti, come l’esplodere di nuove guerre nelle aree più vicine all’Europa. Troppi italiani non sembrano voler riconoscere che nella nuova era in cui viviamo gli impegni e i trattati internazionali sembrano essere considerati apertamente carta straccia anche dal nostro alleato americano, oltre che da Russia e Israele (ma vi sono anche altri Paesi che lo hanno fatto senza ammetterlo, fornendo finanziamenti e armi a regimi impresentabili e milizie irregolari).
Le nuove regole sono basate sulla forza (economica e, inevitabilmente, militare) e non sul diritto, come conferma anche la crisi di tutti gli strumenti internazionali costruiti in questi ultimi settantacinque anni per gestire le diverse criticità di un mondo sempre più complesso. È evidente che, in alcuni casi per ragioni ideali e, in altri, per ragioni biecamente elettorali, molte forze politiche cavalcano e stimolano le comprensibili preoccupazioni di un’opinione pubblica disinformata e impreparata.
Per questo sarebbe così importante definire e mettere in campo una forte azione di informazione e formazione della nostra opinione pubblica che coinvolga l’intero governo e non solo il ministro della Difesa e, insieme, tutte le Istituzioni dello Stato, compreso il Parlamento e la Presidenza della Repubblica.
La formazione e l’informazione sono al centro dell’interesse del ministero della Difesa. Il ministro Guido Crosetto è attivissimo e determinato nel volere questo cambio di paradigma, una sorta di revisione del senso costituzionale in senso militare.
Nel discorso inaugurale del Villaggio Difesa, la grande kermesse delle forze armate realizzata al Circo massimo di Roma intorno alla data del 4 novembre, Crosetto ha fatto un intervento tutto appoggiato sulla retorica dell’amore delle famiglie, dei figli e dei padri al fronte “che conoscono i loro figli dopo mesi dalla nascita” e ha concluso che “le forze armate sono l’unico presidio della democrazia e della libertà. Sono l’espressione della forza e della deterrenza per nostra libertà e sicurezza”. Nello stesso discorso ha richiamato l’importanza della collaborazione con le scuole. Il suo progetto è trasparentemente culturale, e ideologico.
Poco dopo l’inizio del suo mandato Crosetto ha costituito proprio un Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa. Ne fanno parte professionisti di ogni settore: Geminello Alvi (economista), Giulio Anselmi (Presidente dell’agenzia di stampa “ANSA”), Pietrangelo Buttafuoco (scrittore), Anna Coliva (storica dell’arte), Pier Domenico Garrone (Consigliere del Ministro), Michèle Roberta Lavagna (Professore ordinario del Politecnico di Milano, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali), Giancarlo Leone (Presidente Associazione Produttori Audiovisivi), Angelo Panebianco (editorialista), Vittorio Emanuele Parsi (Professore ordinario dell’Università cattolica del Sacro Cuore e Direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali della medesima Università), Angelo Maria Petroni (Segretario generale Aspen Institute), Gianni Riotta (editorialista), Fabio Tamburini (Direttore de “Il Sole 24 ore”), Antonio Zoccoli (Professore ordinario dell’Università di Bologna, Presidente dell’Associazione Big Data), Filippo Maria Grasso (Direttore Relazioni Istituzionali di Leonardo). Il compito che gli è stato assegnato all’inizio era quello di “far conoscere quanto fa la Difesa perché il poliedrico lavoro delle Forze Armate è il presupposto della sicurezza, pilastro su cui si poggiano democrazia, libertà e pace. Per far questo è necessario raccontare chi siamo, cosa facciamo e soprattutto perché lo facciamo aprendoci alla società civile”.
Dopo l’insediamento, non c’è stato un lavoro particolarmente febbrile, o almeno non è stato reso pubblico. La prima riunione si è svolta un anno dopo, e non è dato sapere se ha fatto scaturire iniziative. Sicuramente il Comitato è stato un modello per questo tipo di iniziative che somigliano a una sorta di lobbysmo istituzionale.
I media italiani si sono mostrati decisamente pronti a accogliere questa promozione della cultura della difesa. A agosto del 2024 la Rai per esempio ha siglato un accordo per “per favorire la diffusione della cultura della Difesa e la conoscenza del ruolo svolto dalle Forze Armate sia sul territorio nazionale, sia a supporto di missioni internazionali, attraverso nuove iniziative di comunicazione”. Nel comunicato non si usano mezzi termini, la Rai sembra delegata a fare da house organ del ministero di Crosetto: “L’obiettivo dell’accordo di collaborazione istituzionale sottoscritto da Ministero della Difesa e Rai è quello di sviluppare una strategia di comunicazione integrata sul “valore” della Difesa e sul ruolo che svolge anche a sostegno della competitività del Paese”.
Chi è interessato a approfondire questa cultura della difesa, da qualche mese ha anche a disposizione una nuova rivista integrata nell’agenzia Italpress, dal titolo La voce della difesa. Oggi è di fatto un’intera sezione del sito. Al suo battesimo il sottosegretario della difesa Matteo Perego di Cremnago, ha dichiarato: “È importante diffondere la cultura della difesa perché difesa e sicurezza sono un fondamento della nostra civiltà. Bisogna che i cittadini siano informati su quelli che sono le funzioni e gli scopi della difesa, delle forze armate e dell'industria della difesa che concorre a rafforzare le nostre istituzioni e quel senso di consapevolezza in un momento storico molto critico in cui viviamo, in cui l'Italia insieme all'Europa deve fare la propria parte nella difesa del nostro Continente, nella difesa dei nostri valori di democrazia e libertà”.
Sempre in quest’ottica si può citare il tour infinito che la nave scuola della Marina militare Amerigo Vespucci sta compiendo da più di due anni intorno al mondo, con centinaia di eventi celebrativi. A margine della riunione del cda della Difesa servizi (“una società in house del ministero della difesa, che si occupa di valorizzare gli asset del ministero”), che si è svolto proprio a bordo della nave, l’amministratore delegato Luca Andreoli ha dichiarato “che il Tour Mondiale di Nave Vespucci ha aperto delle prospettive incredibili perché non è stato solamente lo sviluppo di un progetto di comunicazione ma è stata la punta di diamante di un nuovo modo di interpretare la comunicazione istituzionale voluta dal Ministro Crosetto, un nuovo modo di far conoscere le Forze Armate per quello che sono e più in generale la cultura della difesa”.
L’idea fondamentale alla base di questo storytelling militarista è che possa essere pop. È indicativa la comunicazione che il ministero della difesa fa sui social con l’hashtag #culturadelladifesa: una sorta di esibizione di immagini di militari superequipaggiati pronti al combattimento e piccoli indovinelli stile trivial pursuit in cui viene chiesto ai follower come si chiamano certe parti delle divise militari o cosa vogliono dire certe espressioni latine tipo “In Singuli Virtute Aciei Vis”.
Certo ci sono anche delle strategie di comunicazione più spudorate. L’esempio più sfacciato è quello di Paola Maria Chiesa, deputata, capogruppo della commissione difesa e responsabile difesa di Fratelli d’Italia, che quasi ogni giorno commemora, “onore e gloria!”, ufficiali italiani morti nella seconda guerra mondiale, non di rado per esempio della X Mas, non facendo mai cenno al fatto che fossero fascisti convinti, e celebra con “a gloria imperitura” le imprese degli eserciti nazifascisti fino al 1942.
Uno dei primi obiettivi della diffusione della cultura della difesa è sicuramente quello di avere una disponibilità maggiore di persone disposte a arruolarsi e un consenso più largo rispetto a un aumento della spesa militare fino al 2 per cento del Pil. Un sondaggio commissionato all’istituto Piepoli sempre dal ministero della Difesa rivelerebbe che il 44 per cento sarebbe disposto a entrare nelle forze armate in caso di necessità e che la stessa percentuale sarebbe d’accordo nell’aumento delle spese militari.
Sono dei numeri anomali, molto distanti da quelli ricavati da un sondaggio simile fatto solo pochi mesi fa dall’istituto internazionale Gallup, in cui si rilevava che solo il 32 per cento dei cittadini dell’Unione europea sarebbe disposto a difendere il proprio paese in caso di guerra. Una percentuale che diventava minima per l’Italia, il 14 per cento, e di poco superiore per la Germania, 23 per cento, e per la Spagna, il 29 per cento.
Crosetto aveva commentato questo sondaggio il 9 giugno scorso alla presentazione dell’evento organizzato dalla Fondazione Einaudi, L’industria necessaria, dichiarando che “Magari se avessero chiesto ‘Per combattere per la famiglia?’”si sarebbe avuta una percentuale più alta.
Ma l’evento organizzato dalla Fondazione Einaudi è stato interessante di per sé. Si può leggere infatti il documento redatto dal professore Alberto Pagani che ne dà il segno. Si tratta di un lungo excursus storico e argomentativo sulla necessità del riarmo e soprattutto degli investimenti militari. Viene scritto per esempio nelle conclusioni: “Gli investimenti militari in R&S spesso portano a scoperte scientifiche e tecnologiche che, in seguito, trovano applicazioni nel settore civile, generando nuove industrie, prodotti e servizi. Il settore industriale della Difesa, inoltre, richiede una forza lavoro altamente qualificata in diverse discipline scientifiche e ingegneristiche, contribuendo allo sviluppo di capitale umano specializzato, che può poi riversarsi in altri settori dell'economia”.
Anche la Fondazione Einaudi, di impostazione liberale, chiaramente considera come il senso di insicurezza più grande derivi da ragioni socioeconomiche, dalla crisi del welfare e della sanità per esempio. Ma il senso di torsione imprimibile al concetto di insicurezza fa sì che la prospettiva ritorni comunque su una maggiore spesa per l’industria bellica pesante.
Gli esempi che abbiamo fatto sono di sistema, ma esiste ormai una serie numerosa di casi che indicano la stessa direzione. La “cultura della difesa (e della sicurezza)” è un’espressione talmente plastica che sembra potere essere integrata con le attività apparentemente più incomparabili. Il 15 aprile scorso, per esempio, in occasione della Pasqua, l’altra sottosegretaria alla difesa Isabella Rauti ha voluto organizzare al Teatro San Carlo uno spettacolo “solidale”, Santa Pasqua, prossimità, vicinanza, solidarietà, “con la presentazione dell’opera in riduzione “Barbiere di Siviglia”, curata dalla Associazione musicale “Europa in canto”, con la partecipazione di Associazioni e Comunità di intervento sociale a favore dei gruppi fragili e vulnerabili”. In quell’occasione ha voluto ribadire: “La cultura della difesa è sempre disponibile a declinare i suoi principi ed a sostenere iniziative concrete di aggregazione sociale”.
Il 9 giugno scorso ha lanciato un’iniziativa dal titolo Cultura della difesa e inclusione. Si trattava della presentazione del numero speciale della Rivista militare, una pubblicazione ufficiale del ministero della difesa, redatta in codice Braille e stampata in 200 copie donate all’Unione italiana ciechi e ipovedenti. “La pubblicazione in Braille è uno strumento di integrazione ed anche di sensibilizzazione finalizzate all’inclusione delle disabilità e alla coesione sociale, uno dei principi base della cultura della Difesa”, ha detto Rauti nell’occasione.
Insomma, la cultura della difesa può essere facilmente sovrapponibile al senso costituzionale. Questa sostituzione ormai spesso accade anche nelle scuole. Gli episodi segnalati dall’Osservatorio contro la militarizzazione nelle scuole sono sempre più frequenti. Antonio Mazzeo, il coordinatore, ha provato a riconoscere anche le ragioni di questa diffusione della pedagogia militarista.
Le iniziative coinvolgono tutte le forze armate e ricalcano spesso un copione che è difficile non definire mera propaganda. Non ci si vergogna più di parlare con una retorica da interventismo pre- Grande Guerra.
Ecco un esempio in una scuola del Matese:
Il Tenente Colonnello Gianfranco Paglia dell’Arma dei Carabinieri incontra gli studenti presso l’Aula Magna del Liceo Scientifico indirizzo Biomedico Pietro Giannone di Caserta. I valori delle Forze Armate l’argomento di discussione, nell’ambito del ciclo di conferenze nelle scuole per diffondere la cultura della Difesa e cercare di far comprendere cosa realmente significhi indossare l’Uniforme. Presenta all’appuntamento il Sindaco di Caiazzo, Stefano Giaquinto, il Vice sindaco con delega all’istruzione, Antonio Ponsillo, la dirigente scolastica, Marina Campanile, e la Presidente del Consiglio Comunale, Ida Sorbo. Numerose le domande poste dagli allievi al Colonnello Paglia: “Chi decide di indossare l’Uniforme per servire il proprio Paese lo fa conscio dei sacrifici e dei pericoli che questa scelta comporti, ma nonostante tutto, si accetta perché si crede e si va avanti a testa alta sempre, con la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta anche quando chi ti circonda non la capisce. Si continua con Lealtà ed Onore tenendo fede al proprio giuramento sapendo bene che giurare alla Bandiera Italiana è un privilegio per pochi è che quindi onorare, difendere il Tricolore diventa un dovere, costi quel che costi. Si cerca con l’esempio di mettere in pratica ciò che ci è stato insegnato, non per atto eroico, ma come conseguenza concreta del nostro operato.
Sabato scorso la piazza contro il riarmo era larga e plurale. Occorre però vigilare soprattutto sul doppio standard di chi nel mondo democratico ha pensato che si potesse comunque declinare questa idea di “cultura della difesa” secondo un orizzonte progressista. Per esempio la strutturazione sempre più organica di accordi tra università e ministero della difesa e aziende di armi non è una novità di questo governo, come non lo è uno storytelling che vuole fare della guerra una narrazione più dolce e condivisibile.
