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Opinioni

L’ultima intervista: la storia di Barbara Balzerani, oltre il rapimento Moro e le Brigate Rosse

Una lunga intervista di Christian Raimo a Barbara Balzerani, la militante storica delle Brigate Rosse, su Colleferro, i suoi libri e la sua formazione, realizzata pochi mesi prima della sua scomparsa.
A cura di Christian Raimo
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In occasione della realizzazione del podcast sulla storia e l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, "Willy, una storia di ragazzi", che ho realizzato con Alessandro Coltrè e Claudio Morici, ho intervistato Barbara Balzerani. L'ex militante delle Brigate Rosse è infatti nata e cresciuta a Colleferro, il luogo del massacro di Willy. Non solo, nelle ricerche che ho fatto, da subito ho capito con Coltrè che dovevo raccontare anche la storia della comunità in cui era maturato l’omicidio, che è e soprattutto è stata una quella di una città operaia.

Tra i molti saggi che abbiamo letto, ci sono anche alcuni testi narrativi, come Segni d’oro di Domenico Starnone, in cui l'autore trasfigura la sua esperienza di insegnante militante a Colleferro negli anni Ottanta – la fabbrica "Bomprini Parodi Delfino" diventa "Francesco Sani Mortella" e Colleferro diventa Montemori – e La sirena delle cinque, un romanzo autobiografico del 2003 in cui Barbara Balzerani racconta i suoi primi anni a Colleferro, la sua storia famigliare, condizionata dalla presenza della gigantesca fabbrica, sempre la Bpd, che lei descrive come quasi come un moloch ostile, simile al Pirellone di Bianciardi nella Vita agra.

Non sapevo se avrei trovato spunti da inserire nel podcast – alla fine i minuti con la sua voce sono pochi – ma l’intervista è stata un confronto davvero approfondito, e sono contento di aver conservato questa registrazione, che oggi alla scomparsa di Balzerani, vale la pena pubblicare per intero.

“I miei erano di fuori, erano stati espulsi dal nord. Mia madre era veneta e, quando è arrivata qui, è andata a lavorare in fabbrica. Lei aveva l’ossessione dell’aria cattiva del paese, perché in effetti la fabbrica emetteva miasmi. E quindi mi mandava a Artena, nella parte sopra il paese, quella che ci vai a piedi o a dorso di mulo, a casa di una contadina. L’aria buona, mangiare buono l’ovo fresco, tutte queste stronzate qua. Questa donna davanti casa aveva un orto, dove si buttava anche la monnezza, e di fronte il castello del malefico principe Torlonia. Ecco cos’era: una realtà contadina, agricola. E Colleferro, rispetto a questo mondo contadino, sembrava il paese avanzato, più industrializzato. Se uno doveva comprarsi un cappotto veniva a Colleferro. La città è nato per caso: questi industriali sorvolavano la pianura, hanno visto un fiume, una ferrovia e hanno detto là, facciamola là. Era il 1913, a ridosso della Grande guerra, servivano le armi, e questi hanno fatto quello che hanno fatto. Però la caratteristica di quel paese era tutto del padrone, di Bombrini Parodi Delfino. Hai presente Dickens? La prima industrializzazione? Le scuole, i luoghi di ricreazione, il dopolavoro, le case: tutto era della Bombrini Parodi Delfino, e tutto era diviso in due in maniera drastica. Dalle scuole ai marciapiedi: da una parte c’erano gli operai, dall’altra parte c’erano gli altri. Gli altri che erano i capi in fabbrica, i preti, i negozianti”

Una divisione di classe netta. 

Netta, sì. Invece negli altri paesi era diverso, io mi ricordo queste ragazzine alle elementari che venivano dai paesi vicino, artenesi, segnine… Erano quelle che stavano all’ultimo banco, perché ripetutamente bocciate. Di fatto non le sentivi mai parlare. Non parlavano italiano, parlavano dialetto. E figurati, in quella scuola classista com’era la scuola prima del ’68, erano reiette. E la scuola ti insegnava anzi a tenerle a distanza. Noi eravamo dei poveracci, non è che eravamo chissà che, ma poi c’erano alla scuola elementare quelle ragazze che venivano da fuori, e il meccanismo classista è lo stesso. Tu sei un poveraccio, ma nei confronti di quello che è leggermente più poveraccio di te, per una forma di esorcismo della tua povertà, prendevi le distanze. E così nessuno di noi gli ha mai parlato a queste ragazze, né le insegnanti né noi, che stavamo coi banchi un po’ più avanti, questo la scuola insegnava: la guerra tra poveri.

Tu eri appena meno povera perché tuo padre si era emancipato dal lavoro contadino…

Sì, ma mio padre non era operaio. Mio padre non ha mai voluto andare a lavorare in fabbrica. In fabbrica ci stava mia madre, ci stavano i miei due fratelli maschi tutti e due stavano ficcati là dentro dopo la scuola di avviamento. La scuola di avviamento davanti la fabbrica: ancora adesso simbolicamente c'è la scritta, sta di fronte all'entrata della fabbrica. Quindi tu esci uscivi da là a 16 anni, e entravi dentro la fabbrica e ci rimanevi tutta la vita. Lui no, lui non c'è mai voluto andare perché diceva che in fabbrica c'erano i padroni. Faceva l’autista di camion, naturalmente anche lui ce l’aveva il padrone però ci aveva quest’idea in testa che i padroni veri erano quelli in parte pure vero, però, in parte. Lui saliva su sto camion e si sentiva libero, non ci aveva questa cosa della catena di montaggio, dell’alienazione e gli bastava.

E qual era il rapporto che tu avevi con la fabbrica, tra tuo padre camionista e il resto della tua famiglia operaia. 

Io non potevo mai partecipare a queste cose di fabbrica perché il capofamiglia non era un operaio. Quindi tutte le cose che la fabbrica metteva in atto, per esempio l’evento di Santa Barbara che è la patrona del base, quando distribuivano le borse di studio per i più meritevoli, a me era preclusa. E lì c’era una cosa veramente che a livello simbolico è terribile, che racconta un po' la storia del rapporto fra la classe operaia di Colleferro con il padrone. È la storia di donna Mimosa.

Chi era Donna Mimosa? 

Donna Mimosa era la madre dei due fratelli Parodi. Lei distribuiva le tredicesime il giorno di Santa Barbara che è il 4 dicembre. C’era un buffet di quattro cazzate, vermut, biscotti secchi, roba del genere e poi questa qui arrivava con le buste, gli operai si inchinavano facevano l’inchino e prendevano i soldi. Cioè non era un loro diritto avere la tredicesima: era una regalia di Donna Mimosa! Ecco questo ti dice quanto era forte il timbro padrone nella tua vita.

Perché non sei entrata in fabbrica?

Perché ho fatto il liceo. Io sono entrata al liceo, quando ci sono entrati tutti, nella grande ondata dell'apertura delle scuole superiori: l'anno prima al liceo ci stavano cinque persone classe, l’anno dopo eravamo trentasei, per capirci. Eravamo tutti figli di operai. Io credo che sia la cosa più importante del ‘68 italiano. Il ‘68 è stato il momento in cui a un certo punto una grossa fetta di figli di operai entrano alle scuole superiori. E poi si incontrano nel ‘69 con gli operai di fabbrica e lì succede quello che è successo. Per vent'anni non c'è stata tregua. Per il sistema, i padroni, eccetera eccetera.

E quindi che idea ti sei fatta della fabbrica?

Io non lavoravo dentro, ma la vita di fabbrica l'ho conosciuta attraverso chi stava lì, e stavano tutti lì. Quindi i racconti di mia madre rispetto alla fatica, e prima alla paura della guerra. Io, quando ero ragazzina, pensavo che la guerra fosse durata quindici anni, tipo la guerra di Troia.

Perché avevi quest’idea?

Per l’intensità dei bombardamenti. Per la fame, la paura. Il paese era continuamente bombardato. Tu hai visto i sotterranei di Colleferro. Lì c’hanno portato interi reparti della fabbrica durante la guerra, perché la produzione doveva continuare. E la guerra è cominciata prima della seconda guerra mondiale, c’erano le guerre fasciste. Finché nel 1938 c’è stato lo scoppio, con centinaia di morti e feriti. Per capirci nel 1969, davanti ai cancelli della fabbrica, ci hanno messo l'ambulanza. Dalla fabbrica all’ospedale ci stanno 10 minuti, quindi non è che è necessario che tu ce l'hai là l'ambulanza. Però simbolicamente capisci che quello è un luogo di morte, pericoloso

Cosa è rimasto nella tua memoria dell’incidente del 1938 tramite i racconti?

Una fabbrica d’armi è un posto pericoloso, quindi di incidenti ne sono sempre successi, ma quello del ‘38 è stato clamoroso anche per il modo in cui è successo. Hanno preso a martellate i candelotti di dinamite, perché la produzione non si poteva fermare. I candelotti erano gelati perché era gennaio, e li dovevano riscaldare, quindi rallentare la produzione. I capi non hanno voluto, poi se la sono presa con gli operai dicendo che avevano sbagliato. Invece non è vero, gli operai, quelli in particolare, erano specializzati, quindi sapevano esattamente quello che stavano facendo. Soltanto quelli gli hanno detto: bello, o fai così o te ne vai…

Che impatto ha avuto lo scoppio sulla città? 

Sono arrivati tutti, è arrivato anche Mussolini. Ci sono le fotografie con il signore tronfio col suo cappottone, i suoi stivali. Ha distribuito benefit. I figli di quelli morti o sono andati a finire nell’orfanotrofio del Paese, oppure hanno avuto possibilità di borse di studio. Hanno ammortizzato, sostanzialmente. Ma la cosa più grave è che hanno anche diminuito la gravità della cosa. Non si è mai saputo quanti morti ci sono stati. Io so soltanto che una parte del cimitero del mio paese è per i morti sul lavoro, non per i morti e basta. Neanche per i morti nelle due guerre mondiali come si vede in tanti paesi, ma per i morti sul lavoro. Ultimamente ho visto che hanno fatto anche un monumento.

E quindi quale è la storia del lavoro nella città operaia?

È la storia di quello che è il lavoro. In fondo nella sostanza sua vera, è sfruttamento e morte. Però con una logica. Per esempio: sfruttamento, morte, ma con le Casette operaie.

Tipo Manchester…

Esatto. A Colleferro c’è tutto un quartiere di Casette, tipo quelle inglesi, con il giardinetto, mio fratello sta ancora lì. Cioè gli operai devono anche stare un attimo comodi, perché altrimenti non lavorano bene. Poi sono cessi queste case, eh, sono case piccolissime. Sono come le case di ringhiera del nord, però a vederli così dall’esterno sono quasi graziose, tipo i lotti di Garbatella.

Tu hai scritto questo libro, La Sirena delle cinque, in cui dici essenzialmente due cose: una, che i tempi della vita erano completamente condizionati dai tempi della fabbrica e poi che a un certo punto tu questa fabbrica l’hai odiata come se fosse un’entità a sé stante. Alle volte c'erano dei passaggi del libro che mi sembravano simili a quelli di Bianciardi nella Vita agra, quelli in cui: lui dice "Adesso vado a far saltare il Pirellone", dopo che c'è stato lo scoppio nella fabbrica in Maremma tra l’altro. Una specie di lotta contro il mostro…

L’elaborazione contro i danni del cosiddetto "progresso" legato allo sviluppo capitalistico, è  maturata poi nel tempo, perché politicamente io sono figlia dello sviluppo delle forze produttive, quindi in qualche maniera io ho vissuto il coinvolgimento se non la complicità con quel modello. Però quella parte lì che ti dicevo prima è roba vissuta, non è roba elaborata. Finché stai dentro l'ambito strettamente famigliare, vieni tirata su con l’idea che chi lavora, chi fa con le mani, chi produce, chi aggiusta, queste sono le persone più importanti della società, poi ci sono i padroni che non si capisce bene che ci stanno a fà. Tu cresci con questo valore intrinseco, del fare. Esci dall’ambito familiare, e scopri che è tutto il contrario, tu non conti niente, altro che le mani, il lavoro, la produzione, aggiustare, fare, tu non conti assolutamente nulla! Chi conta è che chi c’ha, non chi fa. E quindi è questo impatto, che io c’ho avuto da ragazzina. A scuola perché avevo il fiocco più piccolo di quello della mia amichetta, che semplicemente aveva la nonna che aveva un forno e quindi aveva un po' di soldi, più di noi, insomma. Oppure quando facevi la comunione, perché il mio vestito era uno straccetto in confronto, eccetera.

E quindi?

E quindi io mi sono arrabbiata. Mi sono molto arrabbiata. Perché era una sconfessione di quanto i miei m’avevano sempre instillato: mia madre che con le mani riusciva a far crescere i pomodori pure dentro un dieci centimetri di terra fasulla, come diceva, di queste terre matte – forse capiva che erano avvelenate anche se non lo sapeva ancora – e poi mio padre che, figurati, per lui essere un artigiano che sapeva fare tutto è stata anche un'eredità dentro la famiglia. Insomma perché non esisteva che tu andavi a chiamare l'idraulico, il falegname o quello che aggiustava la serranda, i maschi di casa lo sapevano fare. E quindi questa smentita di questo mondo di valori è la sirena delle cinque. Tu l’hai vista la fabbrica, no?

È difficile non vederla, se vieni a Colleferro. 

Giusto. In un qualsiasi punto del paese, non scappi la vedi, è enorme, incombe. E questa cosa della sirena che poteva suonare sia alla fine dei turni che all'inizio, ma anche se succedeva qualcosa, come un allarme, era terribile. Io mi ricordo una notte che siamo tutti scappati, non mi ricordo di preciso che era successo, una fuga di qualche cosa… equindi mio padre ci ha caricato tutti quanti sull'autobus e siamo andati. Siamo andati un po’ oltre la Casilina, niente di che. Però per me quella era finalmente la liberazione, quindi era un ritorno, per esempio alle origini di mia madre che lei diceva appunto i "ciliegi in fiore". Non c’aveva da mangiare, però c'aveva una vita forse meno alienata.

Non mi aspettavo da te l’elogio del ritorno alla campagna. 

Certo, era anche se vuoi in contraddizione con il mio credo politico, che sosteneva che dallo sviluppo poteva nascere un progetto di emancipazione socialista della società etc. Però averla vissuta così d’impatto la fabbrica m’ha condizionato, con questo capitalismo familistico e gretto.

Ecco, Colleferro era una città completamente operaia. 

Sì, anche se le maestranze le pigliava pure dei paesi vicini.

Poi a un certo punto questa fabbrica di esplosivi è stata riconvertita in una fabbrica chimica, la prende la Snia e poi la Fiat, e poi come un po' tutto il comparto industriale italiano ha una crisi, e nella crisi del capitalismo c'è anche una crisi un po' della classe operaia evidentemente. Tu chiaramente sei vissuta altrove ma rispetto a quella storia lì che idea ti sei fatta? Sei rimasta in contatto? 

Insomma un conto è come viene raccontata e un conto e poi le cose che sono successe… Prendi la fabbrica chimica con i rifiuti tossici, la collina che prima non c'era e poi a un certo punto è comparsa. I bidoni che c'hanno avuto immediatamente delle fuoriuscite, le mucche con le zampe per aria, altro che paese moderno! Lì sconti esattamente l’arretratezza del sistema capitalistico. Quando le cose vanno tutte bene, sembra quasi che sia in grado di distribuire benessere, ma quel benessere ha un costo enorme. Ce l'ha in termini di salute, ce l'ha in termini di ingiustizia, ce l’ha in termini di criminalità. Le armi, la corruzione, il disastro ambientale. Come l'ho vissuta io? La storia di mio fratello secondo me è molto simbolica. Lui è andato giovanissimo a lavorare lì dentro, ci ha lavorato per 40 anni, a un certo punto voleva andare via perché non ce la faceva più. Ha detto: io non faccio più un giorno là dentro, non lo faccio più, basta! Ho dato e non voglio più avere a che fare con quel posto! E perché? Non solo perché 40 anni in fabbrica penso che la distruggano qualsiasi velleità vitale, ma perché aveva visto come funziona il meccanismo della fabbrica.

Cioè tu dici che tuo fratello non soltanto aveva un odio nei confronti della fabbrica, ma aveva capito cosa? 

Aveva capito il meccanismo su cui si fonda la divisione del lavoro. Non è una questione tecnica, è una questione politica. Non è che serve alla fine della produzione sta cosa, insomma serve per stabilire chi è che comanda e chi è che obbedisce sostanzialmente. Ma quando tu poi acquisisci le competenze del lavoro che devi fare quella cosa salta naturalmente. Perché tu lo sai fare l'ingegnere no?

La dialettica servo-padrone…

Non l’avrebbe detta così, ma l’aveva capito. La divisione del lavoro è uno dei meccanismi fondanti del lavoro capitalistico che non ha senso dal punto di vista tecnico produttivo. Gli operai che in Argentina hanno rimesso in piedi le fabbriche, la prima cosa che hanno fatto è stata abolire questa cosa: cioè tutti fanno tutto, a rotazione.

Te l'ho chiesto apposta perché appunto nella Sirena delle cinque ce n’è poca di astrazione. Ti faccio una domanda più netta. La tua educazione politica è stata nell'impatto che la tua famiglia ha avuto con la fabbrica?

È stata fondamentale, certo. Poi l'ho sistemata leggendo, studiando. Però sì che viene da lì. I racconti di mia madre sul "capo posto", quello che la controllava i tempi praticamente, era come in Tempi moderni di Charlie Chaplin. Diceva: mi sta attaccando la giugulare. Non è lavoro quello, è proprio una sofferenza. Certo è lavoro, naturalmente, perché alla fine ti dà lo stipendio, però è la cosa più orribile che ti possa capitare, perché lei stava nel reparto esplosivi e andava avanti e indietro per le sue otto ore, portando cassette di bossoli avanti e indietro nel reparto. Che lavoro è? Con questo oltretutto che gli rompeva pure le scatole. Ecco torniamo alla domanda di mio padre: a cosa servono i padroni e i capi reparto? Non si sa. Però ci stanno e bisogna sopportarli.

Nella Sirene delle cinque è molto presente tua madre, mentre hai scritto poi recentemente questo nuovo libro, Lettera a mio padre, ed è un confronto molto bello perché è un confronto con l'esperienza di tutta una vita, non soltanto da figlia, ma da persona adulta nei confronti di altre persone adulte e della loro esperienza di lavoro, delle la loro esperienza politica, e della loro riflessione. Me le metti un po’ a confronto queste due relazioni. 

Sì, io sono figlia di mia madre è vero. Nonostante fossi stata la cocca di casa perché sono l'ultima, e mio padre ci aveva questa caratteristica che l’ultima nata era la regina della casa, insomma, faceva pazzie per me. Mio padre mi faceva volare. Cioè lui era un affabulatore nato, era molto bravo, si metteva lì e raccontava cose. Non ho mai capito se erano vere non erano vere, però le raccontava bene e mi diceva sempre che saremmo andati di qua di là. Però non siamo andati da nessuna parte, però era un modo per viaggiare. Era un modo per viaggiare con la fantasia. E quindi mi tirava fuori da quella situazione, non vedevo le brutture di quella casa, il freddo; andavo oltre. Mia madre faceva un lavoro diverso, opposto, mia madre mi tirava giù. Mi riportava alla realtà. Mi riportava al senso di responsabilità. Lei mi diceva: tu puoi fare quello che vuoi, sappi però che le tue azioni possono avere delle conseguenze, e devi essere pronta a affrontarle, altrimenti non vali niente. La prima cosa che mi ha chiesto quando è arrivata a Rebibbia, mi ha chiesto: sei pentità? Io ho detto: no. Ah, vabbè, ha detto. Della serie: ti do il resto. Ha capito che sarebbe stata lunga la storia, e ha cominciato a darmi consigli. Queste sono le due figure: l'amore per mio padre, e il non-amore per mia madre. Finché è stata in fabbrica era durissima, dopo 8 ore di fabbrica, tornava a casa che aveva cinque figli, il marito, le tute da lavare a mano. Era durissima. Da mio padre non ho mai preso uno schiaffo, da lei ne ho presi tanti. C’era questa dicotomia, di pedagogia applicata. Io per molto tempo non l'ho considerata. Cioè non capivo perché avesse questa autorità nei miei confronti. Quando suonavano le cinque, la sirena delle cinque, dicevo ecco: mo torna e mi rompe le scatole, perché io ero la ragazzina che stava per strada.

E quando suonavano le cinque che succedeva?

Tornava, e tornava l'ordine Poi quando ha smesso di andare in fabbrica, ho cominciato a conoscerla per quello che era. Ed era una donna intelligentissima, nonostante avesse fatto la seconda elementare. Ha fatto la seconda elementare, poi è scoppiata la prima guerra mondiale e lei stava lassù in provincia di Vicenza, quindi ai primi bombardamenti sono partiti. Lei per esempio aveva un’idea dell’istruzione altissima: diceva, è l'unica emancipazione per noi, per noi poveracci, non ce ne stanno altre di strade, che detto da una così capisci bene che è veramente notevole. Insomma lei si è segnata alle 150 ore quando già stava in pensione, quindi non aveva un problema di scatto stipendiale. Voleva studiare, quello che gli era stato impedito di fare nella sua vita. Ecco tutte queste cose qua mi hanno formata sicuramente, molto di più dei dei voli pindarici di mio padre nonostante lui in quella miseria mi avesse viziata in qualche maniera. Ho chiesto a mio fratello ultimamente: Ma perché, se lavoravate tutti, c'era tutta sta fame? Lui c’ha pensato un po’ e poi ha detto: Perché non guadagnavamo un cazzo. Sic et simpliciter. Sì, penso di aver preso tutto da lei, soprattutto questa cosa che non devi fare la vittima.

Che vuol dire? 

Che non devi mai fare la vittima. Non devi mai piagnucolare. Sei hai sbagliato, lo devi lo devi ammettere. Non è che delle tue azioni, dei tuoi sbagli poi puoi dare la colpa a qualcun altro. Questo non è poco, secondo me. Anche nella situazione attuale in cui praticamente abbiamo perso tutti. Fa ridere pensare che abbiamo perso solo noi armati. Fa veramente ridere, secondo me perché non eravamo così importanti per dire addirittura che la sconfitta è dipesa da noi. Ammetterla, questa sconfitta, secondo me è un primo gradino per poter risalire.

Alle volte sembra che stiamo parlando non di un altro secolo, di un altro universo…

Oggi il precariato è diventato l'unico lavoro. A parte poche eccezioni, però è quello sostanzialmente. Anzi il lavoro pagato è diventato una cosa strana. Tra ragazzi e ragazze il discorso è diverso, le ragazze si emancipano con lo studio, come allora si iscrivono all'università, non è una novità questa sai. Anche ai miei tempi che pure il discorso sessista non è che scherzasse. Noi eravamo le più brave e non è strano, è una sorta di emancipazione, quindi devi farti valere in qualche maniera. Se non lo puoi fare sul piano sociale riconosciute eccetera lo fai dal punto di vista intellettivo. Devono venire da te a chiedere come se fare la traduzione di latino.

Che cosa esprimeva la società in quegli anni diversamente da oggi insomma? Non lo so, io ho girato tutta l'Italia nello stop, non è mai successo niente. È vero che usavo delle cautele naturalmente, però voglio dire. Si poteva fa cioè andava in giro di notte. Una volta, mi ha fermato una pattuglia della polizia, ero già nelle Br, questo poliziotto scese e mi ha detto: figlia mia, che fai? Sto aspettando l'autobus, dissi. Mi ha accompagnato a casa.

Oggi questa brutalità privata questa cosa è nuova. Cioè queste donne che vengono ammazzate è un po' una risposta maschile. Alla ritrovata libertà femminile, perché quello è innegabile. Mia madre diceva: Sì, fallo parlare tuo padre, e poi facciamo come ci pare, però non è che lo affrontava. La cosa era: Facciamoglielo credere che comanda lui ma poi non comanda niente. Quella cosa è finita a un certo punto le donne hanno deciso di invece di dirlo che non conti niente. E lì c’è stata una reazione. Credo che questo è uno dei motivi di questa violenza. L'unica la vera differenza fra noi è fisica, io credo. Voi siete in grado con le mani ad ammazzarci? Il contrario è un po' più complicato.

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