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Che fine ha fatto il referendum contro il Jobs Act e perché non se ne parla più nel Pd

Elly Schlein ha deciso di cambiare linea e di non manifestare più esplicitamente un’apertura verso il referendum lanciato dal segretario della Cgil Maurizio Landini: esporsi non conviene, perché si finisce col diventare il bersaglio perfetto per gli avversari e per gli oppositori interni.
A cura di Annalisa Cangemi
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Da quando il segretario della Cgil Maurizio Landini ha parlato dell'intenzione del sindacato di raccogliere le firme per un referendum sul Jobs Act, il Pd è finito con il trasformarsi in un bersaglio facile per i suoi competitor, renziani in testa. Dopo l'apertura mostrata dalla segretaria Elly Schlein martedì scorso, quando, interpellata su un'eventuale consultazione popolare sulla riforma del lavoro varata dal governo Renzi nel 2014 (allora votata dalla maggioranza degli esponenti del Partito Democratico), ha detto che i dem intendono seguire "le iniziative della Cgil, perché condividiamo i problemi sulla precarizzazione del lavoro in Italia", aggiungendo di essere "sempre stata contraria" al Job Act, fin da quando era nel Partito Democratico nel 2015, è scoppiato un putiferio.

Certo la leader del Pd non si è esposta al punto da abbracciare in pieno un eventuale campagna, né ha invitato i suoi a sostenerla, ma si è limitata a ribadire quello che da sempre è nel suo programma: lotta al precariato e ai contratti pirata, e avanti con il salario minimo. Ma è bastato uno spiraglio, è stato sufficiente evocare il fantasma di Renzi, per far riemergere vecchi contrasti mai sopiti, che rischiano di inasprire le divisioni e le tensioni già esistenti, che si sono slantentizzate quando a vincere è stata l'area più ‘radicale' del partito, a scapito della minoranza, più moderata.

Tanto che la neonata Energia Popolare – ‘opposizione' interna a Schlein organizzata dallo sconfitto Stefano Bonaccini, insieme ai suoi fedelissimi della sua ex mozione, da Pina Picierno a Lorenzo Guerini, punto di riferimento di Base Riformista – ha battuto subito un colpo, facendo notare a Schlein le insidie annidate dietro la scelta di intraprendere in questo momento una battaglia per picconare il Jobs Act: "Io penso solo che si debba guardare avanti. Ci sono battaglie che ci incalzano sul precariato, sul salario minimo, sulla sicurezza sui luoghi di lavoro riguardo cui purtroppo abbiamo assistito all’ennesima tragedia. Non vedo davvero perché impegnarci a guardare indietro", ha detto ieri Alessandro Alfieri, senatore ed esponente di Energia popolare, in un'intervista sul Quotidiano Nazionale.

"Stiamo parlando di una riforma votata da tutta la comunità del Pd, che ha impegnato da Bersani a Franceschini, da Speranza a Orlando e Braga, che oggi guida il gruppo della Camera – ha aggiunto il senatore – Il relatore di maggioranza fu Cesare Damiano: già ministro del Lavoro e padre della legge 81/2008 sulla sicurezza, che proveniva dalla Fiom-Cgil. Come tutte le leggi, poi, ci sono state cose innovative e altre che non hanno funzionato. Il Jobs act conteneva tantissimi aspetti. C’erano 8 deleghe, con interventi meritori contro le dimissioni in bianco, sull’estensione dei congedi parentali, sulla riforma degli ammortizzatori sociali. Utilizzare il bazooka dove si può usare il bisturi mi pare sempre un errore".

Insomma Alfieri e la minoranza hanno lanciato un avvertimento a Schlein: perché tornare a dividerci, in uno scontro fratricida, quando possiamo ritrovare unità e nuovo vigore su una legge come il salario minimo, che tra l'altro ha ottenuto il sostegno di tutte le altre opposizioni (meno Renzi)?

E se Maurizio Landini oggi dalle pagine del Corriere tira dritto sul referendum, perché "è la precarietà che ha già spaccato il Paese", i dem hanno capito che essere tacciati di incoerenza, o peggio di ipocrisia, non conviene e fa solo il gioco degli avversari. Anche perché appunto il Jobs Act lo votarono molti dei parlamentari che oggi siedono alla Camera e al Senato, come non ha mancato di ricordare anche oggi il leader di Azione Carlo Calenda, che da parte sua rivendica di aver fatto parte del governo Renzi che approvò la riforma: "Il Job Act, considerando il taglio delle tasse sulle nuove assunzioni, ha determinato una crescita di 1,2 milioni degli occupati. Non ho più a che fare con Renzi, per fortuna, ma non mi ridurrò a disconoscerne i meriti o far finta che ‘io non c’ero e se c’ero dormivo' come fa larga parte del Pd", ha scritto sui social l'ex ministro.

Ed ecco dunque che Schlein ha deciso di correggere il tiro, e nel tentativo di uscire dall'impasse si è affrettata a cambiare linea: meglio non dare troppo vantaggio agli avversari, cadendo nella ‘trappola' preparata da Renzi, che si era già affrettato a proporre alla segretaria del Pd un confronto alla festa dell'Unità a Ravenna o alla festa di Italia viva, con l'obiettivo palese di alimentare spaccature all'interno del partito.

Schlein, fiutato il pericolo, ha deciso di non accettare la sfida. E così ha mandato avanti la responsabile Lavoro della segreteria nazionale, Maria Cecilia Guerra, la quale, oltre a ricordare che al momento non esiste alcun quesito referendario scritto, ha precisato all'Agi che il Jobs Act "è stata una legge delega alla quale sono seguiti diversi decreti attuativi. Per modificarlo occorrerebbe un quesito su punti definiti della legge". Un modo per dire che va bene criticare il Jobs Act, ma questo non significa andare necessariamente a braccetto con la Cgil. "La posizione del Partito Democratico è quella contenuta anche nel nostro programma elettorale: superamento di quei punti del Jobs Act che hanno indebolito le tutele dei lavoratori", ha spiegato Guerra. Non equivale a sposare l'idea di un referendum per abrogare il Jobs Act, almeno per ora. Altrimenti l'opposizione interna, che attende la leader del Pd al varco, tornerà a farsi sentire, e potrebbe crearle grane.

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