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Scetavajasse, putipù, triccheballacche: gli strumenti musicali nel dialetto napoletano

La musica è sempre stato un aspetto fondamentale per la vita e le tradizioni partenopee. Napoli ha inventato dal niente tantissimi strumenti che sono ormai diventati parte della vivace orchestra che accompagna la vita della città e, per loro, ha coniato dei nomi davvero curiosi e originali. Come nel caso dello “scetavajasse”, o del “putipù” e del “triccheballacche”: ecco qual è la loro storia.
A cura di Federica D'Alfonso
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Nella lunga e affascinante storia di Napoli la musica riveste un’importanza fondamentale. Non c’è festa, ricorrenza o celebrazione che non sia accompagnata, fin dall'epoca antica, dal suono di qualche strumento musicale: strumenti che, molto spesso, hanno un’origine davvero particolare, soprattutto dal punto di vista linguistico. È il caso dello “scetavajasse”, del “putipù” e del “triccheballacche”, immancabili soprattutto ora che il Carnevale si avvicina: ma qual è il vero significato di queste parole nel dialetto napoletano?

Lo scetavajasse: un’etimologia complessa

Lo strumento musicale più curioso, soprattutto dal punto di vista linguistico, è sicuramente lo “scetavajasse”: un nome che non potrebbe raccontare meglio di così l’origine popolare e folcloristica di questo oggetto. Si tratta di un termine composto dal verbo napoletano “scetare”, che vuol dire “svegliare”, e dalla parola “vajassa”, che a sua volta ha una storia molto particolare: richiama in modo figurato una donna di bassa condizione sociale, sguaiata e a tratti volgare, ma in origine indicava molto semplicemente la “serva” di casa, la domestica. La ricostruzione etimologica della parola ha fornito materiale per assegnarle, nel gergo colloquiale, una connotazione negativa, rintracciando un legame con la francese “bajasse”, ovvero la donna di facili costumi: in realtà alcuni studiosi ipotizzano che la vera origine del termine sia araba, dove “bagasch” vuol dire semplicemente “domestica”.

Una cosa però è certa, al di là delle dispute linguistiche: il caratteristico suono, che in napoletano viene chiamato “nfrunfrù”, ha il potere di risvegliare davvero chiunque. Un suono unico nel suo genere, nient’affatto melodioso o armonico, ottenuto dallo sfregamento di due bastoni di legno: suonato come una sorta di violino ante litteram, lo “scetavajasse” è tutt’ora immancabile in qualsiasi manifestazione folcloristica che si rispetti.

Putipù e triccheballacche: il suono nelle parole

Così come sono immancabili il “putipù” e il “triccheballacche”. Il primo è definito, in gergo tecnico, come un membranofono a suono indeterminato: si tratta, in parole più semplici, di un tamburo caratterizzato da un suono basso e cupo, ottenuto dalla frizione di una canna inserita all'interno della membrana che ricopre la cassa di risonanza. In gran parte del sud Italia è anche conosciuto come “caccavella”, ovvero “pentola”, ma Napoli preferisce di gran lunga chiamarlo “putipù”. Si tratta di una onomatopea che richiama il suono prodotto dallo strumento: anche il “triccheballacche”, o “tric-ballac”, ha la stessa origine, definita dal suono particolare e decisamente poco dolce prodotto dai martelletti che sbattono fra loro.

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