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Opinioni
Violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta)

L’assurdo errore di calcolo delle carceri. Il caso Santa Maria Capua Vetere

Possiamo solo provare ad immaginare cosa debba aver significato trascorrere l’inizio della pandemia di Covid dentro una cella, da spettatori inermi della catastrofe che s’abbatteva sul mondo oltre le mura. Per capire fino in fondo, dunque, occorre sforzarsi per un istante di vestire i panni sconci di uno di quei 976 detenuti del F. Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Cosa avremmo provato? E come ci saremmo comportati?
A cura di Redazione Napoli
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di Michele Tufano, attivista ONG

È il 5 aprile del 2020, il vivo della prima ondata di Covid in Italia. Il numero dei contagiati in quel momento sfiora cifra 129 mila. A Caserta è una domenica calda ma nuvolosa. Nel corso di quella domenica, calda ma nuvolosa, il virus strapperà via la vita dal petto di 525 connazionali che raggiungeranno – chissà dove – gli altri circa 15 mila morti da Coronavirus registrati dall’inizio dell’anno.

Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quel 5 aprile, arriva il caldo ma non le nuvole. Per qualche ragione i padiglioni hanno ciascuno il nome di un fiume, eppure non basta questo per trovare un po’ di refrigerio. Quei nomi paiono piuttosto la metafora infelice della vita che, fuori dal purgatorio, scorre indifferente. C’è il padiglione Danubio, il Tamigi, la Senna, il Tevere e, per evidente impeto campanilistico, c’è pure il Volturno. E poi c’è il reparto Nilo, costruito nel 2013 per far fronte al sovraffollamento della struttura e dar spazio ad ulteriori 200 detenuti.
È proprio nel Nilo, icona di libertà per le religioni abramitiche – è il fiume che salva Mosè dalla persecuzione del Faraone – che inizia tutto.

L’inquietudine di quei giorni resta impressa nelle nostre memorie, individuali e collettive. Ricordiamo – e ricorderemo ancora a lungo – l’apprensione che c’accompagnava nei gesti più semplici, l’ansia di non rivedere più i nostri cari o che toccasse a loro non rivedere noi. Gli ospedali pieni, gli scaffali vuoti. Il virus portato come una colpa. La sacra vita e la, ancor più sacra, morte degradate ad un mero numeretto senza storia al TG. E se il prossimo fossi io?

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Possiamo solo provare ad immaginare cosa debba aver significato trascorrere quelle ore dentro una cella, da spettatori inermi della catastrofe che s’abbatteva sul mondo oltre le mura. Le notizie che arrivano, i familiari o gli amici che s’ammalano. E se non riuscissi a rivederli mai più? L’ultima volta che ho potuto abbracciarla sarà stata l’ultima per davvero?

La testa che frigge per la troppa angoscia e le troppe incertezze. E il contesto non ti concede alcuna tregua da angosce e incertezze. Anzi, quegli intimi turbamenti sono quanto ti rimane per saperti ancora umano, gli ultimi brandelli di anima che ancora rendono la carne e le ossa non solo carne e ossa.

E mentre la testa ti frigge così, di punto in bianco – come un fulmine che il ferro delle sbarre ha condotto istantaneamente in ogni cella –  corre la notizia che un addetto alla distribuzione della spesa sta in isolamento, con febbre alta e altri sintomi. È positivo. Eccolo, è qui in mezzo a noi. Moriremo tutti come topi!  In quelle circostanze sarà stato lecito chiedersi che senso abbia la propria pena dinanzi alla prospettiva della morte. Cosa restituisce? Che ci faccio ancora qui?

Per capire fino in fondo, dunque, occorre sforzarsi per un istante di vestire i panni sconci di uno di quei 976 detenuti del F. Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Cosa avremmo provato? E come ci saremmo comportati?

Saperlo con certezza, per nostra fortuna, non c’è concesso. Con certezza, sappiamo solo cosa hanno fatto loro: hanno protestato. Prima con la cosiddetta battitura contro le sbarre, poi costruendo barriere con alcune brande. Lamentavano che il sovraffollamento rendesse impossibile praticare il distanziamento. Chiedevano mascherine e dispositivi di protezione individuale. Si ribellavano alla decisione di sospendere le visite. Insomma, protestavano.

Nulla di nuovo: l’inquietudine collettiva che diventa rivolta, probabilmente il più primordiale degli istinti politici. Tant’è che, qualche settimana più tardi, scopriremo che i primi animatori delle sommosse nelle carceri italiane furono soprattutto i giovani e quelli cui residuavano pene più brevi. Insomma, quelli che avevano tutto da perdere. Hafedh Chouchane, morto durante le proteste nel carcere Sant’Anna di Modena, ad esempio, sarebbe uscito due settimane più tardi. Ma non importa: non ci si ribella mai solo per sé stessi. È puro istinto, senza tattica o calcoli utilitaristici, sociale nella sua accezione più solidaristica. È la segregazione che affratella.

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C’è un’insopportabile ipocrisia mal celata dietro quella retorica delle mele marce che brulica nel dibattito pubblico di questi giorni, dopo che una mera dimenticanza – le videocamere accese –  c’ha sbattuto in faccia quanto tutti sapevamo ma nessuno voleva vedere.

E non si tratta esclusivamente del fatto che quelle violenze nei penitenziari rappresentino più la prassi che l’eccezione. È una verità, questa, che – nel bene o nel male – abbiamo imparato a digerire. Certo, non tutti allo stesso modo. C’è chi la giustifica, chi la disprezza e addirittura chi la esalta elevando la violenza penitenziaria a metodo paideutico, forma suprema della pedagogia da “mazza e panelle”.

Tranne poche eroiche eccezioni, però, nessuno fa qualcosa per cambiarla. È una verità implicita, assodata e immutabile come il termine noto delle equazioni ai tempi del liceo. Un’ingiustizia nascosta dietro un velo, impercettibile se non vuoi percepirla, e – dunque – in qualche modo introiettata persino da quanti generalmente non tollerano le prevaricazioni. Un po’ come quando compri quel nuovo paio di scarpe di marca che, in cuor tuo, sai essere arrivate sullo scaffale della boutique all’angolo dopo una lunga catena di soprusi e sfruttamento costata sangue e sudore a qualcun’altro chissà dove. Ma, in fondo, cosa posso farci io?

Quanto, invece, stentiamo ad ammettere è piuttosto la protasi del sillogismo. Quando in quasi tutte le prigioni italiane le proteste sono iniziate ed abbiamo visto scorrere al TG le immagini di quei detenuti sui tetti, noi ci siamo indignati. Perché quei maledetti topi nella stiva di una nave che affonda non avevano il diritto di protestare. Abbiamo guardato le manifestazioni dei loro familiari, soprattutto donne, fuori dagli Istituti penitenziari come si guardano le scimmie allo zoo.

Perché il dolore degli altri è dolore a metà, specie se si manifesta attraverso un lessico sguaiato e rozzo. Risuonano ancora nella testa le parole dell’allora Ministro Alfonso Bonafede “le rivolte in carcere sono atti criminali di minoranza, lo Stato non indietreggia”.

Eccola qui, dunque, la cruda verità e cioè che gli abusi dei tutori dell’ordine hanno – quasi sempre – una radice nel senso comune.

È questo che sottende la retorica delle mele marce: sì, gli agenti hanno esagerato, ma quelle manifestazioni andavano represse. Allora, vien da chiedersi, che margine avevano – e generalmente hanno – i detenuti per far sentire la propria voce? Hanno i detenuti il diritto manifestare la propria opinione o la sospensione della libertà implica anche la sospensione dei diritti?

Preclusa ogni altra via, rimane solo la violenza, verso gli altri o verso sé stessi. Tanto più se si tratta di un fatto così spaventoso e terribile come il mostro invisibile di una malattia mortale.

Eppure, se davvero la funzione della pena è quella di rieducare il penitente, è lecito attendersi che, via via che l’individuo si rieduca, aumenti corrispondentemente la sua cognizione dei propri diritti e, di conseguenza, la propensione a dissentire di fronte all’ingiusto. Ed in fondo è anche così che si diventa dei buoni cittadini, dissentendo. E buoni cittadini fanno una Democrazia migliore. D’altronde, cos’è la Democrazia senza il dissenso? E dov’è la Democrazia se non è ovunque? Anche in carcere.

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Al fondo, l’Istituzione carcere si fonda su un presupposto assolutamente irrazionale, assurdo. In coscienza, ognuno ammetterà a sé stesso che l’idea di correggere la devianza attraverso la reclusione è un principio che riteniamo efficace solo fuori di noi, per gli altri.

Mi spiego. Ipotizziamo di commettere – per una qualche circostanza – un reato. Desidereremmo, forse, il carcere per noi stessi? No, di certo. Riterremmo, forse, che la privazione delle libertà sia l’unico modo efficace per farci ravvedere? No, di certo. Per noi stessi, forse, basterebbe soltanto una seconda occasione.

Dunque, al fondo, il presupposto per cui il carcere ci appare ideologicamente legittimo è che escludiamo l’ipotesi che capiti a noi.  È un’amara medicina per una malattia che siamo sicuri non possa contagiarci.

Purtroppo, però, si tratta soltanto di un assurdo errore di calcolo. Tuttavia, è su questo che si fonda il nostro intero sistema penale. Su un assurdo errore di calcolo.

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