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Matteo Messina Denaro

I Casalesi e la mafia di Messina Denaro soci in affari per controllare il Made in Italy a tavola

Legami tra mafia e camorra esistono almeno dai primi anni ’80, con Bardellino, Nuvoletta e Zaza, e si sono rinnovati sotto la guida di Messina Denaro.
A cura di Nico Falco
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C'è un filo che unisce la mafia di Matteo Messina Denaro, il superboss di Cosa Nostra arrestato dopo 30 anni e morto di cancro in carcere, a quella del cartello dei Casalesi; un collegamento che parte dalla Sicilia per arrivare in Campania, dove trova però soltanto un punto di snodo: da lì le strade si uniscono e si ramificano in gran parte dello Stivale.

Una rete d'affari ma anche di coperture, di infiltrazioni e favoreggiatori, con un obiettivo comune: mettere le mani sul Made in Italy a tavola, controllare il settore alimentare e tutto quello che vi ruota intorno, dalle forniture al trasporto su gomma per finire al riciclaggio di denaro attraverso faccendieri invisibili e imprenditori dalla faccia pulita.

Tracce di questo patto, cominciato già quando a capo della mafia siciliana c'era Totò Riina, sono emerse nel 2008, con indagini delle procure antimafia di Palermo, Roma e Napoli. Gli inquirenti avevano ricostruito i legami tra il capomafia siciliano, all'epoca già ricercato da 15 anni, i Casalesi e le organizzazioni criminali romane.

Messina Denaro, era emerso, avrebbe investito gli enormi capitali provenienti dall'illecito in aziende che fino a quel momento erano riuscite a restare totalmente fuori dai radar dell'Antimafia, e con lui avrebbero usato lo stesso canale di riciclaggio anche diversi boss corleonesi. I rapporti, però, partono da molto più lontano: già negli anni '80 Antonio Bardellino, Lorenzo Nuvoletta e Michele Zaza, tra i principali capi della malavita organizzata campana, erano anche affiliati a Cosa Nostra.

"Messina Denaro si nascose in Veneto"

Ulteriori elementi a sostegno dell'accordo e dei legami tra i casalesi e la mafia sono arrivati nel 2019 dal pentito Emanuele Merenda, secondo cui durante la latitanza Matteo Messina Denaro avrebbe trovato rifugio anche in Veneto. E sarebbe stato ospite di un palermitano, Vincenzo Centineo, da tempo residente a Salgareda (Treviso) e coinvolto nell'inchiesta della Dda di Venezia sulle infiltrazioni del cartello casertano ad Ercalea.

Il "capo dei capi" sarebbe stato ospitato in una cantina del comune del Trevigiano. All'epoca delle dichiarazioni l'avvocato di Centineo, Guido Galletti, aveva definito le dichiarazioni di Merenda "prive di alcun riscontro, data anche la recente pronuncia del Tribunale collegiale di Pordenone che lo ha di fatto ritenuto inattendibile" e sostenuto che il suo cliente "non ha mai ospitato, né in alcun modo favorito, la latitanza di alcun boss di associazioni a delinquere"; per il legale si sarebbe trattato di false accuse motivate da vecchi rancori nei confronti del suo cliente.

Il patto tra Casalesi e mafia per controllare l'agroalimentare

Nel giugno 2012  è stata eseguita un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 6 persone, nell'ambito di una inchiesta sull'accordo tra il cartello dei Casalesi e la mafia per il trasporto delle merci su gomma e il controllo dei mercati ortofrutticoli. Destinatari Gaetano Riina, fratello di Totò, Nicola Schiavone, figlio di Francesco Schiavone "Sandokan", uno dei superboss dei Casalesi, i fratelli siciliani Massimo e Antonio Sfraga, ritenuti legati proprio a Matteo Messina Denaro, Pasquale Coppola e Carmelo Gagliano, titolare di società di autotrasporto.

Nei confronti degli indagati era stata già emessa una ordinanza nell'ottobre precedente, ma il provvedimento era stato annullato dal Riesame perché il gip aveva copiato e incollato la richiesta della Procura senza valutare gli elementi di prova; i pm avevano quindi reiterato la richiesta ed era stata emessa la seconda ordinanza.

Il processo in primo grado a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) si è concluso nel 2014 (9 condanne e 6 assoluzioni) e ha svelato, secondo gli inquirenti, una sorta di patto d'acciaio che le due organizzazioni criminali avevano stretto per monopolizzare il settore dei trasporti su gomma tra Sicilia, Calabria, Campania e Lazio e nei mercato ortofrutticoli italiani, tra cui il Mof di Fondi (Latina), uno dei più grandi d'Europa.

Tra i condannati Gaetano Riina (6 anni di reclusione), Francesco Schiavone "Cicciariello" (12 anni e 9 mesi), cugino omonimo di Sandokan, il figlio Paolo Schiavone (10 anni e 3 mesi) e altri elementi di spicco dei clan Mallardo e Licciardi. Assolto Nicola Schiavone, figlio di Sandokan. Tra gli imputati figurava anche Giuseppe Ercolano, deceduto, ex reggente della cosca mafiosa dei Santapaola, sposato con la sorella di Nitto Santapaola.

Nella prima parte dell'iter giudiziario (giugno 2012) erano state condannate con rito abbreviato 24 persone, tra cui i fratelli Sfraga (3 anni per concorrenza illecita aggravata dal metodo mafioso) e Costantino Pagano (14 anni), titolare della società di trasporti "La Paganese", ritenuto prestanome della famiglia Schiavone: secondo le dichiarazioni del pentito di mafia Gianluca Costa, l'imprenditore aveva ottenuto  aveva ottenuto il controllo del trasporto su gomma da e per la Sicilia grazie ai fratelli Sfraga e in cambio fu offerto alle cosche mafiose un accesso privilegiato nei mercati campani e soprattutto in quello di Fondi (Latina).

Le indagini erano partite nel 2005 e avevano portato a un totale di 74 arresti, eseguiti tra maggio 2010 e gennaio 2012 dalla Squadra Mobile di Caserta e dalla Dia di Roma.  Per il pm di Napoli Cesare Sirignano, che aveva coordinato le indagini, l'accordo tra casalesi e mafiosi aveva prodotto:

un aumento dei prezzi dei prodotti al consumo, danneggiando le tasche dei cittadini e creando un enorme vantaggio patrimoniale per chi ha controllato il mercato con metodi mafiosi.

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