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“Per Alessia Pifferi la figlia era un ostacolo: per questo l’ha abbandonata a casa ed è morta”

Alessia Pifferi ha abbandonato sua figlia, accettando che morisse, perché rappresentava un ostacolo alla vita che voleva vivere.
A cura di Anna Vagli
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Sapevo sarebbe potuta morire” è una frase di per sé agghiacciante. Lo è ancor più quando a pronunciarla è una madre che per una settimana ha abbandonato la figlia  di sedici mesi nella sua abitazione. Colpisce anche chi, come me, è abituata ad interfacciarsi con dinamiche di questo tipo. Colpisce la totale indifferenza con la quale Alessia Pifferi, 37 anni, ha ammesso di aver accettato la morte della piccola Diana che aveva messo al mondo. Animosità e sangue freddo. Ed ancora una volta nessuna manifestazione di empatia, ma soltanto una madre mortale.

Solo un mese fa Martina Patti ha ucciso sua figlia Elena Del Pozzo. In quel caso si è parlato di vendetta nei confronti dell’ex convivente. Oggi, però, la tragedia di Mecenate ribadisce drammaticamente un concetto che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi vent’anni, ma che ancora non riusciamo socialmente, oltreché umanamente, a tollerare. Le madri possono uccidere, direttamente o indirettamente, i loro figli.

Nel caso di Alessia, però, dobbiamo scomodare un altro tipo di movente. So già che starete pensando che, in concreto, niente cambia. Una madre assassina è sempre una madre assassina. Non rileva certamente l’accezione con la quale si spiega o si appella un simile gesto. La differenza, però, è di fondo e per questo non è trascurabile. Non lo è perché investe l’esperienza della maternità come strettamente intesa.

Se l’istinto è quello di uccidere

L’incapacità di intendere e di volere delle madri sanguinarie è una costruzione sociale dovuta alla stereotipizzazione della donna occidentale. Che, in questo senso, avrebbe un istinto materno innato. Di conseguenza, se una madre si macchia del più terribile dei crimini, la causa deve essere necessariamente psichiatrica o psicopatologica.

D’altronde, l’uccisione di un figlio da parte di chi lo ha generato è un atto talmente innaturale da poter essere spiegato soltanto scomodando la patologia.

Nel mezzo, però, c’è la realtà. Una realtà fatta di donne animate non dall’istinto materno, ma da quello omicidiario. Nessuna biologica predisposizione all’amore e all’annullamento della propria persona. Come invece vorrebbe la tradizione. Accantonato lo stereotipo, quindi, non si può non prendere atto che le madri, troppo spesso, e la cronaca degli ultimi mesi ce lo conferma, cercano di dissimulare le loro ansie per adeguarsi alle aspettative sociali. I sentimenti negativi non possono essere comunicati perché “diventare mamma deve essere bellissimo”. Anzi, nell’epoca di Instagram, bisogna addirittura adoperarsi nel mostrare una felicità che, purtroppo, spesso dura il tempo di una story.

Dunque, le cose stanno molto diversamente. Ed è giunto il momento, per dirla alla Schopenhauer, di strappare il velo di Maya. Farlo, infatti, può incentivare le madri in difficoltà a chiedere aiuto.

La maternità è un’esperienza che può portare con sé disperazione ed ansia invasiva. Ansia che rischia di sfociare in uno stato depressivo. E quest’ultimo, se non curato, può a sua volta generare pulsioni aggressive che si traducono nell’omicidio di un figlio. Una volontà omicidiria che non viene meno neppure quando ha a che fare con un abbandono. Perché la volontà sanguinaria è ugualmente presente. Se avete dubbi, pensate a cosa ha dichiarato Alessia nel corso dell'interrogatorio: "Sapevo che poteva succedere".

Molto spesso, poi, ci sono donne che non sviluppano l’attaccamento perché quel figlio o quella figlia proprio non l’hanno mai voluta. E, in tutta franchezza, questo appare il destino di Diana. Sua madre, da quanto emerge, non era la prima volta che si assentava da casa abbandonando la figlia a sé stessa. In quest’ultima occasione, rivelatasi fatale, Alessia si è allontanata, e lo ha fatto coscientemente, per raggiungere il compagno nella bergamasca. Insomma, per la donna, probabilmente la figlia era un accessorio o, forse, un ostacolo alla vita che in realtà avrebbe voluto vivere.

Nell’antica Roma era pratica accettata che la madre facesse morire un figlio lasciandolo volontariamente al freddo. Sono passati secoli. Ma, se è vero, come dimostra comprovata letteratura scientifica, che biologicamente l’istinto materno non esiste, per quale ragione cosmica le leggi della biologia non donano un figlio a chi, pur cercando disperatamente, non riesce ad averlo? Mentre, al contrario, lo fa crescere nel grembo di donne criminali? Ad oggi non sembra dato saperlo.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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