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Padre uccide i due figli piccoli e si suicida

Padri che uccidono i figli: non è mai un raptus, ecco i campanelli d’allarme

Il terribile pensiero di uccidere i figli si insinua in maniera graduale nella mente dei padri assassini e non è mai figlio di un raptus: ci sono chiari campanelli d’allarme.
A cura di Anna Vagli
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L’omicidio di uno o di più figli da parte dei genitori costituisce forse la dinamica omicidiaria con un maggior impatto emozionale sull’opinione pubblica. Perché è proprio all’interno delle mura domestiche, nelle quali i figli dovrebbero sentirsi al sicuro, che la violenza si espande fino a diventare assassina. Siamo tutti ancora scossi da quanto accaduto ieri a Mesenzana (Varese) dove Andrea Rossin, 44 anni, ha ucciso i suoi due figli: una bambina di 13 anni e un bambino di 7 e si è poi suicidato. È possibile parlare in questi casi di raptus? La risposta è no, e vi spiego perché.

Non si diventa feroci assassini dalla sera alla mattina, neppure quando lo storico clinico accerti l’esistenza di un qualche disturbo psichiatrico. Al contrario, chi compie questo tipo di delitti si è già reso responsabile di episodi di violenza e brutalità in danno della partner. Sono uomini che hanno alle spalle pratiche di violenza ed hanno coltivato confidenza con il linguaggio dell'offesa e l’uso delle armi.

L’idea di uccidere i figli si insinua in maniera graduale nella mente e, nel momento di maggior escalation di rabbia e frustrazione, si palesa come criticamente fisiologica. Non è mai un'idea figlia di un raptus. Uccidere i figli diventa l’unica strada maestra di risposta e in grado di azzerare le infinite opzioni a disposizione per risolvere un dramma personale. Una strada maestra che, nei fatti, è un vicolo cieco e inenarrabile. Ma è comunque percepita dai padri assassini quale unica modalità per riprogrammarsi e riappropriarsi dell’identità perduta.

I campanelli d'allarme

Come ci insegna la storia delle emozioni, certi stili di comportamento non sono mai figli del caso. Ci sono chiari campanelli d’allarme. Campanelli che non sono quelli degli eccessi emozionali, ma sono frutto di un analfabetismo di sentimenti e di un appiattimento delle risorse individuali per far fronte alle fatiche della vita. E tra queste ultime fatiche vi rientra anche la difficoltà nell’accettare il disgregamento del nucleo familiare per scelta della compagna di vita.

È notizia delle ultime ore di come, ai carabinieri di Varese, non risultino denunce di violenza da parte della ex moglie di Andrea Rossin. Senza dover ancora una volta scomodare il perché troppo spesso le donne non denuncino, è possibile quanto meno ipotizzare il palesarsi di un altro tipo di violenza sommersa: quella psicologica. Una violenza che magari nell’immediatezza non lascia lividi visibili ad occhio nudo e non può formare oggetto di un referto in un pronto soccorso. Ma non per questo è meno distruttiva.

I figli visti come estensione della madre

Non è la fine di una relazione la causa scatenante di omicidi così efferati, ma la perdita di controllo sulla partner. Da un punto di vista distorto, difatti, i figli finiscono con il diventare l’estensione della madre e, in quanto tali, devono essere eliminati. I padri assassini non riconoscono più i figli come propri, ma li attribuiscono esclusivamente alle loro ex compagne di vita. Dunque, come tali diventano ai loro occhi oggetti che possono essere distrutti. E la loro distruzione ha come obiettivo quello di punire la madre. Sono padri che si svestono della loro condizione di genitori e, quindi, si spogliano dell’amore e dell’empatia nutrita. Perché, altrimenti, non potrebbero rendersi artefici di un simile gesto.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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