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Opinioni

I Ligresti e la crisi del capitalismo salottiero italiano

La crisi del gruppo Ligresti offre l’occasione per riflettere sul grado di arretratezza del capitalismo italiano, legato più alla logica delle relazioni e dei salotti buoni che a quella della creazione di valore per gli azionisti tutti.
A cura di Luca Spoldi
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Salvatore Ligresti

La crisi del gruppo Ligresti prosegue nel suo decorso sui mercati e nei “salotti buoni” della finanza italiana e offre la possibilità di capire meglio come certi presunti “poteri forti” hanno finora interpretato a loro quasi esclusivo vantaggio l’economia italiana. Faccio una premessa: anche se il calendario sta per segnare 2012 in alcuni ambienti imprenditoriali e finanziari italiani sembra che il tempo si sia fermato all’epoca “pre-Tangentopoli”, quella per intenderci in cui Enrico Cuccia, deux ex machina della banca d’affari Mediobanca, svolgeva il ruolo di “angelo custode” (laico) delle “grandi famiglie” del capitalismo italiano, per evitare il rischio di un eccessivo ampliamento della sfera d’influenza della politica (e della politica cattolica in particolare) e delle aziende a partecipazione statale rispetto al settore privato. In quegli anni il mondo, economicamente parlando, non solo era “giovane” ma era certamente più schematico e semplice da comprendere (e gestire) di quanto non sia adesso anche solo nella piccola Italia, paese “di prima linea” della Nato e pertanto alleato strategico non solo dei principali paesi europei ma soprattutto degli Stati Uniti, in cui la finanza si divideva per apparentamento ideologico tra “bianca” (filo cattolica) e “rossa” (filo laica) con Mediobanca, appunto, nel ruolo dell’ago della bilancia in grado di difendere gli interessi di un nucleo di “campioni nazionali” controllati da famiglie quali gli Agnelli, i Pirelli, i Pesenti, i Ligresti, i Merloni, i Lucchini, i Falck, cui venivano di volta in volta aggregati “per cooptazione” gruppi familiari emergenti come i Cabassi, i Ferruzzi, i Toti, i Caltagirone, i Benetton, i Berlusconi, i Doris, i Marcegaglia.

A quel periodo e alle relative spartizioni degli affari ha posto fine, oltre che la vicenda giudiziaria di Tangentopoli, da un lato il fenomeno della globalizzazione, con la nascita dell’Eurozona sempre più contrapposta agli Stati Uniti e col progressivo emergere dell’importanza di paesi quali Cina, Russia, Brasile o India, dall’altro una difficile gestione del passaggio generazionale (anche a causa di lutti, improvvise sfortune o mancanza di eredi da parte di alcune delle “grandi famiglie” imprenditoriali italiane, rivelatesi nel complesso in grado di adattarsi al nuovo scenario macroeconomico mondiale meno rapidamente dei loro principali concorrenti internazionali.

Eppure i “salotti buoni” sono rimasti, pur pesando sempre meno in termini economici, per l’inveterata abitudine (non solo ma anche italiana) ad intrecciare poltrone, rapporti di poteri, scambi di favori tra banche e imprese, con esiti molte volte disastrosi in termini economico-aziendali ma evidentemente positivi per la maggior parte dei singoli banchieri e imprenditori coinvolti (che infatti hanno visto in molti casi il proprio patrimonio personale crescere sensibilmente anche a danno dei risultati delle proprie banche e imprese). Così è da seguire con interesse la parabola del “signor 5%”, come qualcuno a Milano ha da anni soprannominato Salvatore Ligresti, capostipite dell’omonima famiglia che tramite Premafin controlla Fondiaria-Sai (e Milano Assicurazioni) abituato a investire il meno possibile del proprio denaro personale nelle proprie imprese ed in compenso ad essere socio di tutta una serie di aziende che col suo business in teoria non dovrebbero centrare molto (come Rcs Mediagroup o Pirelli & C., quando non addirittura sono sue concorrenti come Generali o creditori come Mediobanca). Partecipazioni di minoranza, che dovranno essere cedute per fare cassa nonostante un annunciato aumento da 750 milioni di euro e mentre proseguono i tentativi per uscire rapidamente anche da Igli (holding che controlla poco meno del 30% di Impregilo, il maggior gruppo di costruzioni italiano e che vede come propri soci paritetici i Gavio, i Benetton e i Ligresti, coi primi che già hanno lanciato un’offerta ai consoci per salire al 100% di Igli) e più gradualmente dismettere un ulteriore portafoglio immobiliare del valore di un centinaio di milioni di euro (mercato permettendo).

A osservare tutti i movimenti del gruppo Ligresti (che è già uscito dal progetto City Life che sta cambiando il volto dell’area di Milano attorno alla stazione di Porta Garibaldi) oltre a essere sempre più evidente l’anacronismo del capitalismo “familiare” italiano, che purtroppo non sembra ancora in grado di produrre alternative credibili, se è vero come sostiene l’Istat che anche le piccole e medie imprese italiane continuano a cercare credito (nel 33,9% dei casi, contro il 27,1% del 2007) piuttosto che nuovo capitale di rischio (cui ricorre meno dell’1% delle aziende), segno che alla mancanza di risorse non si sopperisce cercando nuovi soci ma provando a convincere le banche o lo stato a fornire finanziamenti, emerge con forza anche come le trasformazioni economiche di questo ventennio abbiano scavato dall’interno il valore di società che un tempo avevano un proprio significato economico ed ora sono ridotte a poco più di scatole vuote, almeno stando alla capitalizzazione di borsa dove Rcs vale poco più di 520 milioni di euro (e quindi la quota dei Ligresti non dovrebbe poter valere più di 25-30 milioni) col titolo a 0,685 euro per azione contro i 3,81 euro di inizio 2007 (con la conseguente “distruzione” di circa 2.381 milioni di euro di valore in meno di un quinquennio).

Quanto tempo sarà necessario ai grandi imprenditori italiani per capire che continuare a bruciare milioni di euro per “sedersi” in molteplici “salotti” in cui alla fine si incontrano sempre gli stessi protagonisti che già siedono in Mediobanca, in Generali, nei Cda delle grandi banche piuttosto che nelle holding di partecipazioni dell’una o dell’altra famiglia è una fatica soverchiamente inutile, specie se a valle le aziende “controllate” non producono ma bruciano valore? La risposta è meno scontata di quanto potrebbe sembrare, visto che nella logica di un’economia “relazionale” come quella del capitalismo familiare italiano l’importante non è (solo) il risultato economico ma la gestione del potere. Tanto che per un gruppo (i Ligresti) che sembra destinato ad una parabola discendente già altri potenziali sostituti, da Diego Della Valle a Giuseppe Rotondi a Mario Moretti Polegato a Vittorio Malacalza sembrano pronti, almeno stando alle indiscrezioni che si rincorrono da settimane sulla stampa italiana, a prenderne il posto anche nei salotti come Rcs, sebbene “ovviamente” nessuno di loro abbia la benché minima competenza in materia editoriale (e forse farebbe volentieri a meno di aprire il borsellino se non fosse indispensabile).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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