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Giornalismo, carcere e multe per chi esercita la professione abusivamente

Il Senato ha inasprito le pene previste in caso di violazione dell’articolo 348 del codice penale in tema di esercizio abusivo di una professione e ha cancellato la sanzione del carcere alternativa alla multa.
A cura di Susanna Picone
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“Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a 2 anni e con la multa da 10.000 euro a 50.000 euro. La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle attrezzature e degli strumenti utilizzati”: recita così il nuovo testo dell’articolo 348 del codice penale approvato a Palazzo Madama. Il Senato ha in questo modo deciso di inasprire le pene previste in caso di violazione dell’articolo del codice penale in tema di esercizio abusivo di una professione e di cancellare la sanzione del carcere alternativa alla multa (il codice penale finora ha previsto la reclusione fino a 6 mesi o la multa da 103 a 516 euro). Sanzioni che riguardano, tra gli altri, il giornalismo: esercitare abusivamente la professione giornalistica, lo ricorda la Federazione nazionale della stampa sul suo sito, potrà portare anche al carcere. Le attuali blande sanzioni per i redattori e collaboratori abusivi non iscritti all'Albo stanno dunque per scomparire in favore di altre più severe.

Proposta di legge dovrà essere esaminata dalla Camera

La proposta di legge n. 2281 avanzata dai senatori Marinello, Ruvolo, Mazzoni, Torrisi e Pagano dovrà essere ora esaminata dalla Camera probabilmente entro l'autunno. Il requisito dell’abusività richiede che la professione sia esercitata in mancanza dei requisiti richiesti dalla legge, ad esempio il mancato conseguimento del titolo di studio o il mancato superamento dell’esame di Stato per essere abilitati a esercitale la professione. Integra inoltre il reato anche la mancata iscrizione presso l’Albo corrispondente. Sul sito della Federazione nazionale della stampa si ricorda che la Corte Costituzionale, con la sentenza del 27 aprile 1993 numero 199, ha respinto la questione di legittimità costituzionale di tale norma rispetto ai principi di tassatività e determinatezza, affermando, nel contempo la natura di norma penale in bianco, in quanto necessita, a fini integrativi, del ricorso a disposizioni extra penali che stabiliscono i requisiti oggettivi e soggettivi per l'esercizio di determinate professioni. Nel 2012 le sezioni unite penali della Cassazione hanno affermato che gli atti nonché gli adempimenti delle professioni regolamentate sono riservati a coloro che sono iscritti agli albi e che qualsiasi attività tipica e di competenza specifica va a configurare il reato di esercizio abusivo della professione.

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