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Salario minimo: nel Regno Unito cresce mentre in Italia è tutto fermo

Londra alza i salari minimi e tutti i paesi lo hanno introdotto, ma in Italia si parla ancora di contrattazione sindacale.
A cura di Michele Azzu
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In Inghilterra è tempo di alzare gli stipendi. Perché il costo della vita è diventato troppo alto, e i troppi lavori con contratti a tempo non riescono più a garantire più la continuità del tenore di vita. In questi giorni, dunque, entra in vigore nel Regno Unito il rialzo del salario minimo che interesserà, secondo l’analisi del think tank “Resolution Foundation” oltre un terzo dei lavoratori britannici sopra i 25 anni.

Si passa dagli attuali 7.20 sterline (circa 9 euro) l’ora a 9 sterline l’ora, che in euro fanno circa 11.50 euro. Questo rialzo però avverrà nell’arco di 4 anni e si concluderà nel 2020. Nell’immediato, secondo gli analisti, l’incremento nel salario per i lavoratori con bassi stipendi sarà di circa 50 centesimi di sterlina l’ora (e cioè circa 4 sterline in più al giorno).

Niente male, per un provvedimento preso da un governo conservatore come quello di David Cameron e George Osborne, l’attuale ministro delle finanze che ha presentato il provvedimento. Che ha un nome preciso: “National Living Wage” (NLW), ovvero salario nazionale di mantenimento. È un concetto diverso da salario minimo: con queste tre parole si vuole sottolineare il fatto che con meno di questa cifra diventa impossibile vivere.

È una legge che si era resa ormai necessaria, dato che secondo la “Living Wage Foundation” britannica – l’istituto che studia i salari – la soglia avrebbe dovuto essere 8.25 sterline di media in tutto il Regno Unito per gli over 25, a fronte dell’attuale limite minimo a 7.20 sterline (senza contare che a Londra la media si alza di parecchio: 9.40 sterline). Secondo gli studi questo provvedimento garantirà a chi è stato impiegato col salario minimo l’anno passato, un aumento della paga di circa il 10%.

Per intenderci, significa che con un lavoro a salario minimo nel 2020 per 40 ore di lavoro la settimana una persona si porterà a casa 1.440 sterline, che sono circa 1.830 euro. Una cifra importante, quindi, che però non si allontana – non troppo – dalle buone soglie di salario minimo introdotte in tutti i paesi europei, e anche in diverse città degli USA, in questi ultimi anni.

L’ultima era stata la Germania un anno fa, che aveva introdotto il salario minimo a 8.50 euro l’ora, mentre in Francia questa soglia è addirittura fissata a 9.50 euro. Per confrontare le cifre dei diversi paesi sarà bene convertire le diverse valute nazionali in dollari americani, come fa l’OCSE in questo grafico.

I salari minimi nel mondo (grafico OCSE)
I salari minimi nel mondo (grafico OCSE)

Come si può vedere, il salario minimo più alto si trova in Australia, con 9.54 dollari l’ora, seguito dal Lussemburgo con 9.24 dollari. Dalla terza posizione in poi si scende già a un dollaro meno, sugli 8.50 dollari l’ora per Belgio, Irlanda, e a seguire Francia, Olanda, Nuova Zelanda e Germania. Il grafico si basa sui dati del 2013 ed è stato elaborato nel 2015 dall’OCSE, ma sembra chiaro come il nuovo salario minimo britannico – che in prima fase è ora inserito a 7.20 sterline l’ora – e cioè 10.37 dollari, è il nuovo dato più alto.

Gli analisti su questi nuovi dati si sono divertiti, tra le altre cose, a spiegare in maniera concreta alle persone in che maniera l’aumento influirà sulle loro vite. Per questo si è pensato di calcolare quanti minuti di lavoro servono per guadagnare abbastanza da comprare un panino Big Mac della nota catena di fats food McDonalds. Nell’indice riportato dal Financial Times, dunque, un impiegato a salario minimo britannico ora deve lavorare 18 minuti per poter comprare un Big Mac, a fronte di 26 minuti in Germania, 48 in Spagna e 25 minuti in Francia.

E in Italia? Nel nostro paese non è possibile fare un confronto, perché, assieme a Finlandia, Cipro, Austria, Danimarca e Belgio, il salario minimo non è mai stato introdotto. In questi paesi, infatti, sono presenti dei forti sindacati confederali – come in Italia è avvenuto storicamente per Cgil, Cisl e Uil – che trattano con il governo per stabilire le tariffe minime settore per settore: commercio, agricoltura, servizi, metalmeccanici, e così via. È quella che viene chiamata la via della “contrattazione”.

Secondo i sindacati, infatti questa dovrebbe continuare a essere la strada maestra, perché i dati parlano chiaro: quando si stabiliscono i contratti dei settori coi sindacati le cifre sono maggiori rispetto a quanto si otterrebbe introducendo eventuali salari minimi. Per questo i sindacati si dichiarano ancora oggi contrari ad inserire il salario minimo in Italia, e proprio di recente Cgil, Cisl e Uil hanno rilanciato al governo la proposta di una nuova stagione di contrattazione sui contratti validi erga omnes, inclusi i precari.

Questa richiesta dei sindacati arriva molto tardi in realtà, perché si sa che il governo Renzi è al lavoro per introdurre un salario minimo anche in Italia – e un testo è in discussione al Senato già dal 2014, con tre diverse proposte di legge. Ma nonostante Matteo Renzi abbia più volte annunciato di voler introdurre il salario minimo, non si sa ancora se e quando questo potrà accadere.

Il problema, però, è che in assenza di un salario minimo sono troppe le persone che rimangono escluse dalla contrattazione dei sindacati (si stima attorno al 20%). E a questi vanno aggiunti i lavori precari che scappano ad ogni controllo, come il fenomeno in crescita dei voucher che non rientrano in un nessun contratto nazionale. Con il paradosso che se ti trovi a lavorare pagato a voucher in un supermercato, non rientri nei minimi salariali stabili dai contratti del commercio (che regolamentano, appunto, i supermercati). Inoltre, tutti i dati certificano che l'Italia è il paese peggiore fra quelli industrializzati per i salari dei giovani.

I fatti recenti, poi, ci insegnano che anche in presenza di contrattazione, i sindacati non sono più in grado di stabilire minimi salariali dignitosi, come avviene nel settore del commercio, o come nei call center – emblematico il caso delle vertenza Almaviva. Dall’altra parte della barricata, invece, Confindustria e gli imprenditori italiani temono che l’introduzione di un salario minimo danneggi alcuni settori, come edilizia, turismo e agricoltura, dove le paghe ormai sono talmente basse da rasentare lo sfruttamento.

È anche vero, come fanno notare diverse voci critiche nel Regno Unito, che il salario minimo comporta rischi e costi per un paese. Come si diceva, indeboliscono i sindacati. E in Inghilterra l’introduzione di questa legge è solo l’altra faccia della medaglia al taglio dei servizi ospedalieri e di assistenza a disabili e anziani.

È la logica liberista: ti pago un pochino in più, ma taglio i servizi e per quelli dovrai arrangiarti da solo. La questione del salario minimo, insomma, non è una cosa semplice. Specialmente in Italia, dove mancano i controlli – sulle finte partite Iva, sul lavoro nero, negli incidenti sul lavoro – ed è difficilissimo immaginare un salario minimo che, anche una volta introdotto, non rimanga lettera morta.

Quello che è ugualmente difficile, però, è pensare una maniera in cui non sia più necessario introdurlo. Perché viviamo in un'epoca in cui le garanzie sul lavoro sono sempre di meno, e i salari sono più bassi che mai.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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