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“Persone costrette a sfamarsi con cibo per animali”. L’allarme dal Sudan del responsabile MSF

La guerra in Sudan intensifica fame e violenze estreme: dopo la caduta di El Fasher i civili in fuga arrivano stremati negli ospedali, mentre attacchi e negoziati falliti aggravano la crisi umanitaria. Il racconto di Vittorio Oppizzi, responsabile di Medici Senza Frontiere in Sudan.
Intervista a Vittorio Oppizzi
Responsabile dei programmi MSF in Sudan.
A cura di Davide Falcioni
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Non solo a Gaza. Anche in Sudan la fame è stata trasformata in una spietata arma di guerra. A poco più di un mese dalla caduta di El Fasher, ultima roccaforte governativa nel Darfur settentrionale, intere comunità sopravvivono – quando sopravvivono – nutrendosi di scarti destinati al bestiame, mentre i casi di malnutrizione acuta esplodono anche tra gli adulti.

Quello che sta emergendo dai racconti dei superstiti va oltre la normale cronaca militare: esecuzioni sommarie, stupri, torture, rapimenti a scopo di riscatto, cadaveri lasciati lungo le vie di fuga. Il Darfur torna a essere il laboratorio di una violenza etnica e politica che ricorda gli anni Duemila, mentre il resto del mondo guarda altrove. A Tawila, 60 chilometri dalla città conquistata dalle RSF, i team di Medici Senza Frontiere operano in un ospedale saturo di feriti da arma da fuoco, tra persone che hanno camminato per giorni, senza acqua né cibo, per scampare ai combattimenti. Intervistato da Fanpage.it Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi di MSF in Sudan, ricostruisce il quadro delle atrocità che si consumano contro civili disarmati, denuncia l’uso sistematico della fame e racconta come, nonostante le promesse di cessate il fuoco, sul terreno non ci sia alcun segno di reale protezione per la popolazione civile.

A poco più di un mese dalla caduta di El Fasher, qual è la situazione oggi sul terreno in Sudan? Che tipo di riscontri avete dai pazienti e dalle persone che assistete

Noi ci troviamo a Tawila, circa 60 chilometri da El Fasher, e da quando la città è caduta abbiamo immediatamente registrato un afflusso massiccio di feriti e sfollati. Il primo impatto è stato il numero elevatissimo di vittime della guerra: per far fronte alla situazione abbiamo dovuto attivare un secondo team chirurgico, oltre a quello già presente prima dell’attacco. La popolazione che è riuscita a fuggire da El Fasher arrivava in condizioni disperate, dopo mesi di assedio totale. Parliamo di circa 500 giorni senza alcun accesso umanitario, senza nessuna possibilità di far entrare cibo, medicinali o beni essenziali.

Già mesi fa, con l’attacco al campo di Zamzam, avevamo avuto segnali chiarissimi della brutalità del conflitto: operatori sanitari uccisi, civili colpiti indiscriminatamente. Quello che è accaduto a El Fasher ala fine di ottobre ha seguito la stessa dinamica, ma su scala molto più ampia. A Tawila oggi vediamo due fenomeni: i feriti di guerra e la fame. Una malnutrizione così diffusa negli adulti è particolarmente indicativa della gravità estrema della situazione. La carestia era già stata dichiarata sulla base dei dati raccolti dalla IPC, ma ora abbiamo conferme cliniche dirette: i pazienti che arrivano da El Fasher portano sul corpo le prove della fame prolungata.

Per capire il livello di disperazione, la popolazione sotto assedio si nutriva di una poltiglia chiamata "mbas", un residuo di frantoio considerato cibo per animali. Non solo lo mangiano: a un certo punto hanno anche iniziato anche a venderlo, perché non c’era più nient’altro. Questo dà la misura di cosa sia stato vivere in una città completamente isolata per un anno e mezzo. E di quanto la situazione, qui in Sudan, sia letteralmente allucinante.

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Le cronache – in particolar modo quelle dell'ultimo mese  – riferiscono di violenze atroci contro i civili, con stupri, torture ed esecuzioni sommarie. È quello che state riscontrando anche voi sul campo?

Sì, vista la brutalità delle parti in conflitto. E anche qui c’è continuità con quello che osserviamo dall’inizio della guerra in Darfur. Le violenze sessuali sono un elemento ricorrente: assistiamo le vittime in tutti i nostri progetti e non abbiamo alcun dubbio che siano avvenute anche in questo attacco. È molto difficile quantificare, perché i dati sulla malnutrizione sono oggettivi – sottoponiamo tutti a screening – mentre quelli sugli stupri dipendono dalla volontà delle persone di parlarne, e in un contesto di trauma, vergogna e paura non è semplice.

Ma dai racconti, dai comportamenti, dalle ferite, e anche da ciò che circola sui social locali o dalle analisi satellitari, è evidente che la presa di El Fasher è stata uno degli episodi più brutali di questi due anni e mezzo di conflitto. Donne, uomini e bambini sono stati colpiti senza alcun rispetto per la vita umana.

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Sulla base di ciò che state osservando, queste violenze sono episodi isolati, pur numerosi, oppure sembrano rientrare in una dinamica più coordinata, in una sorta di "strategia"?

Non saprei parlare delle strategie militari delle parti in conflitto. Quello che è chiaro, però, è che quanto visto a El Fasher prosegue quanto accaduto a Geneina e in altre aree del Darfur: violenze mirate contro specifici gruppi etnici, in continuità con ciò che è accaduto agli inizi degli anni Duemila. Il Darfur è segnato da tensioni profonde tra comunità arabe nomadi e comunità africane come i Fur o i Massalit. In questi due anni abbiamo visto ripetersi lo stesso schema. Allo stesso tempo, la brutalità non ha risparmiato altre aree come Khartoum. Noi stessi, in un solo giorno di settembre, abbiamo ricevuto più di cento tra morti e feriti in tre diversi ospedali, vittime di attacchi con droni condotti dall’altra parte del fronte. E parliamo di zone lontane dai combattimenti diretti. La conclusione è che si tratta di una guerra che colpisce sistematicamente la popolazione civile, indipendentemente dall’appartenenza etnica o dalla distanza dal fronte.

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A proposito degli attacchi con i droni: stanno diventando una componente sempre più centrale del conflitto, come accaduto a Gaza e in Ucraina?

Assolutamente sì. Gli attacchi con i droni sono documentati in varie parti del Paese. Penso a Nyala, capitale del Sud Darfur, che è lontanissima dal fronte e dove eppure ci sono stati bombardamenti. Oppure a Port Sudan, dove ci sono stati attacchi pur senza che la città fosse coinvolta nei combattimenti. Anche dopo la perdita di Khartoum, si sono registrati attacchi successivi nella capitale.

È una situazione molto simile a quella che vediamo in altri conflitti contemporanei: i droni permettono di colpire a distanza, spesso in modo non sufficientemente discriminante. E i civili continuano a morire anche dove non c’è una battaglia in corso.

Quali interessi si muovono dietro questo conflitto? C’è solo la dimensione etnica o anche altro?

Quello che è evidente è che questa è una guerra massimalista di potere. Nel 2021 il golpe militare in Sudan fu compiuto da entrambi i generali che oggi si combattono: insieme avevano rimosso la transizione civile avviata dopo la caduta di Omar al-Bashir nel 2019. Tra il 2021 e il 2023 hanno governato insieme, finché il conflitto non è diventato una guerra intestina.

Quando parlo di guerra massimalista intendo proprio questo: nessuna delle due parti ha mai mostrato reale disponibilità a cedere terreno. Gli annunci di negoziati o cessate il fuoco, compresi quelli firmati a Gedda mesi dopo l’inizio della guerra, sono rimasti sulla carta. La realtà sul campo è quella che vediamo ogni giorno: una guerra che prosegue, che ha già costretto alla fuga più di 12 milioni di persone e che non dà segnali di rallentamento.

Gli interessi regionali esistono, come sempre in un conflitto così grande, ma dal punto di vista interno resta una lotta tra due generali per il controllo totale del Paese.

Un uomo ferito a una gamba durante una sparatoria nella moschea di El Fasher
Un uomo ferito a una gamba durante una sparatoria nella moschea di El Fasher

Rispetto all’avanzamento del processo negoziale, c’è qualcosa che lascia intravedere un cambiamento?

Al momento no. Più volte, dall’inizio della guerra, si sono susseguiti annunci di tregue, accordi, intese per l’accesso umanitario. Ma nulla di tutto questo ha trovato applicazione concreta. Sul terreno, la guerra continua esattamente come prima.

Guardando ai prossimi mesi, e alla catastrofica situazione umanitaria, qual è la prospettiva operativa di MSF in Sudan?

Il Sudan resta una delle nostre priorità globali. Non ci sono segnali che la guerra si stia fermando, e ora il conflitto si sta spostando negli stati del Kordofan. Questo significa che dobbiamo adeguare costantemente la nostra risposta: riceviamo feriti anche qui ad Abyei, zona contesa tra Sudan e Sud Sudan, perché ogni movimento della linea del fronte genera nuovi sfollati.

Parallelamente, il sistema sanitario è in collasso ovunque, anche a Khartoum. Molto personale non riceve stipendi, le forniture mediche non arrivano, e l’accesso alla salute di base è ormai un privilegio. Abbiamo affrontato un’enorme epidemia di colera, e per due anni e mezzo è stato un problema costante. A oggi oltre un milione e trecentomila persone sono fuggite solo verso il Sud Sudan, molte provenienti dal Kordofan. La popolazione del Sud Sudan è aumentata di quasi il 10% a causa di questi arrivi, con un impatto enorme su un Paese già fragile.

Nei prossimi mesi dovremo continuare a scegliere le priorità, sia rispetto ai bisogni diretti generati dalla guerra, sia rispetto a quelli indiretti, che sono altrettanto devastanti.

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