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Guerra in Ucraina

Perché la telefonata tra Papa Leone XIV e Putin segna una svolta nella strategia del Vaticano sull’Ucraina

Tre giorni fa Leone XIV ha avuto un colloquio telefonico con Putin, al quale ha chiesto un gesto concreto per la pace in Ucraina. Un segnale chiaro di svolta, secondo l’analista di geopolitica vaticana Piero Schiavazzi: il Papa abbandona la neutralità e sceglie di schierarsi con le vittime, inaugurando una diplomazia più interventista.
Intervista a Piero Schiavazzi
Analista e docente di Geopolitica Vaticana.
A cura di Davide Falcioni
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Mercoledì pomeriggio Papa Leone XIV ha avuto un colloquio telefonico con il Presidente russo Vladimir Putin. I due hanno parlato della guerra in Ucraina e – stando al resoconto fornito dalla Sala Stampa della Santa Sede – il Pontefice avrebbe lanciato un esplicito appello a Mosca affinché compia "un gesto concreto per favorire la pace", ribadendo l’importanza del dialogo come via per la soluzione del conflitto. Tra i temi affrontati nella conversazione tra Prevost e Putin, anche lo scambio di prigionieri e l’operato del cardinale Matteo Maria Zuppi, incaricato delle missioni di pace vaticane. Il Papa ha inoltre ringraziato il patriarca Kirill per gli auguri ricevuti, evocando i valori cristiani condivisi come bussola per difendere la vita e promuovere la libertà religiosa.

Ma cosa nasconde davvero la telefonata del Santo Padre al capo del Cremlino? Si tratta di un gesto in continuità con la strategia di Francesco, come a molti è parso, o di una dirompente novità? Secondo Piero Schiavazzi, docente di geopolitica vaticana alla Link Campus University ed editorialista di Limes, si tratta di un segnale chiaro: "Non è solo un cambio di passo nella diplomazia della Santa Sede, ma una vera scelta di campo. Non più neutralità, ma difesa del più debole, anche a costo di urtare Mosca", ha detto il professore a Fanpage.it. Prevost, osserva Schiavazzi, è un Papa "leoniano", più vicino alla fermezza di Leone Magno – che andò incontro ad Attila – che alla prudenza diplomatica di Bergoglio: una figura destinata a rimescolare le carte anche sul piano geopolitico.

Piero Schiavazzi
Piero Schiavazzi

Mercoledì pomeriggio, Papa Leone XIV e il presidente russo Vladimir Putin hanno avuto un colloquio telefonico incentrato sulla guerra in Ucraina. Come va interpretata questa iniziativa del Vaticano? 

Quella telefonata significa che il pontificato di Prevost è partito come aveva promesso fin da quando – l’8 maggio – si è per la prima volta affacciato al balcone San Pietro: con un’impronta interventista. D'altro canto il Papa lo ha ribadito nella Messa pro Ecclesia, il giorno dopo, e poi ancora ai cardinali e ai giornalisti, in modo chiaro e inequivocabile. Il Papa ha detto: "Farò di tutto". Ecco, quel "farò di tutto" oggi inizia a prendere forma. E va letto all’interno di ciò che io chiamo la "variabile leoniana".

In cosa consiste questa "variabile leoniana"?

È una categoria interpretativa che ho proposto già due anni fa in un'analisi su Limes, molto tempo prima che Prevost venisse eletto Papa e decidesse di assumere il nome di Leone XIV. In ogni pontificato, nella sua politica estera, esiste una tensione tra due ruoli: il pontifex, colui che costruisce ponti, e il Leone che interviene, che si schiera. Mi riferisco nello specifico a Leone Magno che, non a caso, è ricordato come colui che andò incontro ad Attila. Quel gesto – vero o leggendario che sia – è diventato simbolo di una Chiesa che si pone come barriera morale contro la barbarie. Questo Papa ha già scelto: si sta muovendo come un Leone Magno.

Leone XIV ha quindi preso nettamente la parte delle vittime, ovvero degli ucraini. È questo che intende quando lo descrive come un "Papa leoniano"?

Il compito di Pietro – e dunque del Papa – non è solo quello di costruire ponti, ma anche di recarsi al sepolcro. Quale fu infatti il primo gesto di Pietro dopo la morte di Cristo? Corse al sepolcro vuoto, all'alba della domenica. È così che entra nella storia, non con un discorso, ma con un gesto di ricerca e di presenza. E oggi? Dove sono i "sepolcri vuoti"? Sono nelle fosse comuni, nei luoghi segnati dalla guerra e dalla violenza, dove spesso nemmeno i cadaveri si trovano più, portati via o cancellati dal tempo e dall’orrore. Il mondo contemporaneo, spezzato da conflitti disseminati ovunque – da Gaza a Bucha – è costellato di sepolcri a cielo aperto. E allora il compito petrino oggi è anche questo: correre lì, dove c'è la morte, dove c'è il dolore e il buio, per dire "non è qui, è risorto", per annunciare speranza proprio dove sembra impossibile trovarla.

Quindi, in Leone XIV si può parlare di una discontinuità rispetto al pontificato di Francesco?

Sì, netta. Francesco ha tentato fino all’ultimo di mantenere una posizione di terzietà, di equilibrio. Quando scoppiò la guerra in Ucraina, disse chiaramente: "Non posso andare a Kiev se non vado anche a Mosca". Il suo era il tentativo di restare pontifex, mediano. E lo pagò anche, basti ricordare la delusione espressa dagli ucraini. Ma oggi con Leone XIV si cambia lessico. Nel 2022 Prevost definì la guerra russa un atto di "imperialismo". Francesco parlava di Russia "imperiale", che è una categoria geopolitica neutra. "Imperialista", invece, è un giudizio politico e morale. Quel passaggio, da un aggettivo all’altro, rappresenta una svolta profonda.

Papa Francesco e Vladimir Putin in uno dei loro ultimi incontri in Vaticano
Papa Francesco e Vladimir Putin in uno dei loro ultimi incontri in Vaticano

Perché la Santa Sede ha scelto questo cambio di rotta, così esplicito?

Perché Leone XIV è convinto – e lo ha dimostrato – che davanti a una violenza evidente, non basti più la neutralità. La telefonata a Putin non è stata un gesto diplomatico, è stata una richiesta diretta. Nel rapporto che la Sala Stampa Vaticana ha fornito, infatti, si riferisce che Prevost ha fatto una richiesta diretta a Putin: "Fai un gesto di pace". La risposta è stata, purtroppo, un bombardamento su Kiev. Ma il significato resta: il Papa ha scelto di parlare, di interpellare il potente perché si fermi. È un gesto leoniano, un "andare incontro all’invasore". E rende pubblico il tentativo di disinnescare la guerra, costringendo Putin a esporsi. "Se davvero sei un pacificatore, muovi il primo passo. Altrimenti non sei credibile". È questo il senso di quella telefonata al leader russo.

E Putin?

Putin ha cercato di ribaltare la situazione. Ha provato a mostrarsi come il pacificatore. Ma non gli è riuscito. In fondo, ricordiamoci lo scenario evocato da Trump mesi fa, quando disse a Zelensky: "Non hai le carte". Bene, dal Conclave è uscita la carta che Zelensky non aveva: un Papa americano, ma non trumpiano. Un Papa che non sta con Mosca, ma neanche con Washington. Leone XIV è la carta che mancava a Kiev. E ora Mosca deve fare i conti con una voce che non può delegittimare facilmente, perché è forte della sua autonomia.

Questo cambia le possibilità di mediazione del Vaticano?

Radicalmente. Finché il Vaticano era percepito come super partes, poteva fungere da sede negoziale. Ma adesso, Mosca non può più vederlo come terzo. Io stesso l’ho detto quando il nostro governo avanzò la proposta della Santa Sede come luogo di negoziato: quella finestra si sarebbe richiusa. E così è stato. L’intervento del Papa – pur carico di autorevolezza – non è più neutrale. Ma attenzione: non è nemmeno ideologico. È cristiano. Sta col più debole. È un Papa che si schiera, e si assume la responsabilità storica di farlo. Per essere ancora più chiari: Bergoglio avrebbe detto "fate tutte e due dei gesti di pace". Invece Prevost ha detto "fai un gesto di pace" solo a Putin. Ed è una differenza sostanziale.

E le conseguenze di questa scelta?

Sono molte. La prima è che venga meno il ruolo di mediazione tradizionale della Chiesa. La seconda è la reazione del mondo ortodosso russo, da sempre fortemente antipapale. Se va a Sergiev Posad, nei monasteri dove l’ortodossia russa affonda le sue radici, sente ancora oggi ostilità palpabile verso il "Papa di Roma". Putin ha bisogno di far vedere alla sua opinione pubblica che lui ci ha provato, che è stato il Papa a voltargli le spalle. Ma non è vero: il Papa gli ha chiesto un gesto di pace, ma l'ha chiesto solo all'aggressore, e non all'aggredito.

Nelle scorse settimane Trump ha evocato la possibilità di negoziati in Vaticano, ma questa proposta è stata immediatamente bloccata da Lavrov, secondo cui due Paesi ortodossi non si sarebbero mai incontrati nella Santa Sede. Dopo quanto accaduto, è uno scenario ancora realistico?

No, è uno scenario irrealistico. L’elemento religioso – l’ortodossia – conta secondariamente, non è questo il vero ostacolo. Il problema è politico. Il Vaticano non può essere sede di negoziato se non è considerato terzo da una delle parti in conflitto. E oggi non lo è più. Leone XIV ha scelto, e ha scelto l'Ucraina.

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L'opinione di molti analisti è che Papa Francesco, negli anni, abbia dato una certa apertura alle richieste del Cremlino riguardo una nuova architettura della sicurezza globale, un ordine che tenesse conto anche delle esigenze di Mosca, ad esempio quando disse che "la NATO aveva abbaiato alle porte della Russsia". Secondo lei, con Papa Leone XIV assisteremo a un cambiamento?

Ho sostenuto più volte che la politica estera di Papa Francesco nasce e tramonta con Vladimir Putin. Per capire questo legame, bisogna tornare al 2013. All’epoca, Bashar al-Assad, in Siria, lanciò un attacco chimico nel sobborgo ribelle di Ghuta, a Damasco. Centinaia di civili, tra cui molti bambini, furono uccisi con i gas. Gli Stati Uniti, con Obama alla guida, erano pronti a colpire la capitale siriana con i missili Tomahawk.

Papa Francesco, appena sei mesi dopo la sua elezione, sorprese tutti. Scrisse una lettera a Putin, in quanto presidente di turno del G20, chiedendogli un intervento diplomatico per evitare un attacco armato americano. Contrariando apertamente la NATO e gli Stati Uniti, il Papa temeva che l’eliminazione di Assad avrebbe creato un vuoto di potere in Siria che sarebbe stato rapidamente colmato dall’ISIS, allora in ascesa.

Con Bergoglio, il Vaticano puntava a una Russia protettrice dei cristiani d’Oriente, come un tempo gli zar. E Putin colse quell'appello con entusiasmo. Solo due mesi dopo, nel novembre 2013, si recò a Roma per incontrare il Pontefice.

E cosa accadde?

Il sogno di Francesco durò poco. Nel 2014 arrivò la crisi della Crimea e l’inizio delle sanzioni occidentali. Putin fu espulso dal G8, che tornò G7. In quel momento si ruppe l’illusione vaticana di una cooperazione stabile. Putin fu costretto a scegliere: tra l’"estero esterno", cioè il Medio Oriente, e l’"estero interno", ossia l’Ucraina – che per Mosca non è davvero estero, ma parte integrante della propria sfera di influenza. E scelse l’Ucraina.

Per Bergoglio fu una delusione cocente. Aveva sperato in una duplice partnership: religiosa, con il Patriarcato di Mosca, e politica, con il Cremlino. Tra il 2014 e il 2019 incontrò Putin più volte, nella speranza di mantenere aperto un canale. L’ultimo, disperato tentativo fu all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, nel febbraio 2022: il Papa si recò personalmente all’ambasciata russa a Roma, senza preavviso, per chiedere un dialogo diretto con Putin. Ma la porta gli fu chiusa.

Quella porta chiusa segnò la fine della diplomazia vaticana di Francesco sul fronte russo. Una politica estera che era iniziata proprio con una lettera a Putin e che con lui è finita. Forse oggi Putin dovrebbe riflettere sull’occasione storica che ha perso. E forse, con Papa Leone XIV, si aprirà un nuovo capitolo.

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