Perché difficilmente Putin andrà a Istanbul per il summit con Zelensky, l’esperto: “Sarà uno show per Trump”

È improbabile che Vladimir Putin vada a Istanbul. Potrebbe tuttalpiù inviare una delegazione di alto livello per colloqui non risolutivi, dicono gli osservatori più informati a Mosca e in Occidente. Le posizioni restano lontane. Anche se lo scambio di proposte, controproposte e mezzi ultimatum degli ultimi giorni ha portato ad alcune novità interessanti, le speranze per una rapida soluzione politica della guerra in Ucraina sono ancora tenui.
Lo spettacolo per The Donald
“Stiamo assistendo a una specie di show, nel quale sia il capo del Cremlino che Volodymyr Zelensky cercano di compiacere Donald Trump”, dice a Fanpage.it Sergey Radchenko, docente della Johns Hopkins School of Advance International Studies. “Vorremmo vedere veri negoziati, ma non è questo il caso: un vertice tra capi di Stato deve necessariamente essere preparato dal lavoro di un team di esperti di entrambe le parti che negozino i punti specifici di un accordo. Solo dopo può esservi l’incontro tra i due leader per la firma e la stretta di mano”.
Nessun summit Putin-Zelensky, quindi. Anche il politologo vicino al Cremlino Ivan Timofeev ritiene che Putin non andrà in Turchia: “Semmai invierà diplomatici per un negoziato preliminare, perché ogni incontro al vertice va preparato”, ha detto ai media russi. In Turchia la pensano in modo analogo: “I colloqui si terranno a livello di delegazioni”, ha anticipato all’agenzia di stampa russa Ria Novosti l’analista politico Engin Ozer, di Ankara-Moscow, aggiungendo: “I due capi potrebbero incontrarsi solo dopo un accordo sul cessate il fuoco”.
Mosse e contromosse
Proprio sul cessate il fuoco il disaccordo è totale. Alla richiesta di un cessate il fuoco immediato e incondizionato di 30 giorni fatta da Zelensky insieme agli alleati europei, Mosca ha replicato bombardando l’Ucraina con centinaia di droni. Risposta letale. Più esplicita di qualsiasi “niet”. Della minaccia di nuove sanzioni a Putin importa poco: considera ogni mossa europea aleatoria e sa che dovrebbe sempre guadagnare il non scontato consenso di 27 Paesi. Ma del fatto che gli Usa sostengano l’iniziativa — anche se Trump è stato molto cauto — gli importa, eccome.
Da qui, la controproposta di aprire un tavolo negoziale a Istanbul, presentata alle due di notte di domenica di fronte a un gruppo di giornalisti convocati al Cremlino e sconcertati per l’orario. Solo “un modo di rilanciare la palla nel campo avversario”, dice a Fanpage.it il politologo russo in esilio Anton Barbashin, direttore editoriale di Riddle. Rapida e abile la ribattuta di Zelensky: “A Istanbul ci sarò comunque”. Anche se la Russia non ha accettato il cessate il fuoco. “Forse farebbe bene ad andarci davvero: avrebbe un forte ritorno di immagine, dimostrando di essere il più disposto a negoziare. E potrebbe sperare che Trump finisca per dare tutta la colpa del fallimento delle trattative a Putin, e che aumenti la pressione su di lui”, commenta Radchenko. Cosa non improbabile, se — come pare — la sedia dello zar al tavolo di Istanbul resterà vuota. Ed è vero solo Trump può davvero convincere Putin a più miti consigli.
Gli obiettivi massimalisti del Cremlino
Il processo è fragile, segnato da dubbi e dispute irrisolte. Putin ha ripetuto di voler “risolvere le questioni alla radice”. Significa, dal suo punto di vista, ottenere la demilitarizzazione dell’Ucraina, instaurare un governo fantoccio a Kiev, poter interferire sulla legislazione ucraina e avere una sorta di diritto di veto nel sistema di garanzie per la sicurezza del Paese invaso. Paradossale, per chiunque abbia qualche nozione di storia diplomatica. Si tratta di una versione nemmeno troppo edulcorata di una resa totale. Sul resto, qualche compromesso è possibile. Per quel che vale.
All’adesione alla Nato non ci pensa più nessuno, nemmeno a Kiev. Quanto ai territori occupati da Mosca o contesi, “non è mai stata una nostra vera priorità”, ha più volte detto a Fanpage.it il consulente di Putin Dmitry Suslov. “Se ci sarà un incontro tra delegazioni, i russi ribadiranno tutti i loro obiettivi, gli ucraini non potranno che dire di no e la guerra continuerà”, sostiene Anton Barbashin. “Questo gioco ha il solo fine di indicare a Trump che il colpevole è l’altro”, afferma Sergey Radchenko. “Unico sviluppo ipotizzabile, un’apertura dei russi a un vertice Putin-Zelensky dopo trattative preliminari”.
Le tre novità che fanno sperare
Sarebbe un’apertura non da poco. Il ping pong diplomatico in corso ha apportato tre novità. La prima è che il Cremlino di fatto riconosce la legittimità della presidenza Zelensky, finora negata sia perché il suo mandato è scaduto (ma la costituzione ucraina impedisce elezioni in tempo di guerra), sia perché Mosca definisce il leader ucraino “una marionetta” dell’Occidente. Seconda novità: è evidente che il decreto di Zelensky sul divieto di trattare con Putin non vale più, o almeno non vale per Zelensky. Il terzo punto è il più sostanziale: tra Europa e amministrazione Trump c’è un riallineamento che potrebbe infine condizionare le scelte di Putin. Finora, con la divisione dell’ex “Occidente collettivo”, si era potuto permettere il lusso di “dettare la pace” secondo la sua convenienza.
A questo punto, se il presidente russo vuole sfruttare il periodo di “onnipotenza” di un Trump ancora amichevole per una fine delle ostilità che gli permetta di cantar vittoria e di instaurare buoni rapporti con gli Usa, non ha più molto tempo. Tra un anno e mezzo ci sono le elezioni americane di mid-term. Trump potrebbe perdere parte dell’attuale supporto parlamentare. E non si tratta solo di imporre termini pesanti agli ucraini: “Il Cremlino desidera una normalizzazione dei rapporti con Washington”, spiega Radchenko. “Ritiene che sia possibile, ma teme l’imprevedibilità di Trump, che è il tipo da mandare tutto all’aria all’improvviso e decidere di armare l’Ucraina”. In sostanza, il Cremlino vuole che gli Stati Uniti si disimpegnino dal conflitto ucraino o, quantomeno, che la questione venga tenuta separata dai rapporti bilaterali più ampi.
Perché una “Istanbul-2”
Per questo Putin ha voluto rilanciare un processo simile ai colloqui di Istanbul del marzo-aprile 2022 – una “Istanbul-2” – con gli stessi obiettivi, estesi anche ai territori poi annessi. Non è, quindi, solo una manovra propagandistica per far credere che Mosca ha sempre voluto la pace. “L’intento è rallentare le forniture di armi occidentali, sfruttare un eventuale indebolimento di Zelensky e alimentare l’instabilità interna dell’Ucraina”, nota la politologa Tatiana Stanovaya di R. Politik. “Mosca vuole anche che Kiev revochi il divieto di negoziare con i russi, così da poter ampliare il proprio margine d’azione all’interno del Paese. Ma non crede minimamente che l’Ucraina, nelle condizioni attuali, possa accettare i termini russi”. Sergey Radchenko mette in conto che la guerra possa finire con uno scenario “coreano”, ovvero col congelamento del conflitto sulla linea del fronte, a tempo indeterminato: “Per questo i russi, anche se parlano di pace, aumentano la pressione militare: vogliono consolidare la loro presenza in Ucraina e occupare i territori annessi ma ancora non sotto il loro controllo".
Da dove ricominciare
Radchenko è l’autore — insieme a Samuel Charap — dell’articolo su Foreign Affairs che rivelò le carte e i retroscena del fallito negoziato di tre anni fa a Istanbul, e che viene spesso citato — perlopiù a sproposito — da chi sostiene che tutto saltò solo per colpa di Kiev e dei suoi alleati. In realtà, le cose andarono in modo più complicato. Un alto funzionario del ministero degli Esteri russo disse allora a Fanpage.it che il vero ostacolo fu la rigidità dei decisori sia russi che ucraini di fronte ai ragionevoli compromessi proposti dai loro diplomatici che lavoravano ai dossier. Di certo l’ultimo documento della trattativa non era finale. Conteneva il famigerato “diritto di veto” sulle garanzie all’Ucraina e prevedeva una drastica demilitarizzazione del Paese. Inaccettabile per Kiev. “Difficile dire se la Russia stesse di proposito trascinando le cose per le lunghe o se ci fosse uno sforzo genuino”, racconta oggi Radchenko. “Fatto sta che all’inizio le pretese erano folli, poi le hanno limate nei documenti successivi. E sì, c’erano concessioni da parte di Mosca". È il metodo della diplomazia russa da sempre, chiedere tutto per avere il più possibile. “La domanda è: i russi oggi sarebbero disposti a fare ulteriori concessioni, che forniscano vere garanzie di sicurezza all’Ucraina?". Sergey Radchenko non sa darsi una risposta, sulla questione dirimente. Anche per i più esperti tra gli esperti la situazione resta anfibia, e sfugge ad analisi conclusive.